19/05/23

Treni e altri proiettili che attraversano la testa



Dovrei davvero mettermi a scrivere tutto quello che mi passa per la testa come un treno e vedere dove va. Mettiamo che ci passi davvero un treno: se fosse uno di quelli ad alta velocità, sfreccerebbe silenzioso incendiando dendriti e sinapsi e non potrei fare altro che seguirlo con lo sguardo mentre se ne va, immaginando mete lontane, meraviglie alle quali non saprei dare un corpo se non etereo, vago; ma se fosse uno di quei locali che ancora sopravvivono nelle linee secondarie, o un merci di quelli scoperti o con la porta di qualche vagone spalancata, che viaggiano lenti, asmatici, seminando ruggine e scorie a ogni sussulto, come per consumarsi giorno dopo giorno per infine dissolversi, potrei saltarci sopra al volo, e via!, descriverlo minutamente, guardare il paesaggio che scorre lento fuori, fumarmi una sigaretta con le gambe penzoloni come i vagabondi dell’epoca eroica, o parlare con la gente stravaccata sui sedili di legno o assiepata nei corridoi. Avrei un po' freddo nella brutta stagione, perché ovviamente non sarebbero riscaldati, e allora il mio vicino mi passerebbe una fiaschetta, e io, nonostante lui abbia le labbra screpolata e un'aria non proprio sanissima, ne berrei un sorso e gli sorriderei. Gli direi grazie, sicuro che non mi capirebbe, in quelle lande lontane, e invece vedrei anche il suo volto farsi sorridente, e dalla sua bocca sentirei uscire un fiume di parole nella mia povera lingua, entrambi sorpresi di incontrare un compatriota proprio lì, in quel posto ai confini del mondo. E subito lui mi racconterebbe la sua storia, di come fosse andato, da giovane, a cercare lavoro all'estero, da dove poi lo avrebbero distaccato in un altro paese, nel quale avrebbe incontrato una donna di un altro paese ancora, e di come l'avrebbe seguita con l'intenzione di vivere per sempre con lei, se non che lei sarebbe stata già sposata, tacendoglielo però al tempo della loro relazione, ma lui, invece di andarsene, sarebbe rimasto nella sua città, e lì avrebbe tirato avanti con lavoretti d'occasione e allacciato nuove relazioni, tutte brevissime e insoddisfacenti, come in attesa che quella donna si liberasse, cedendo infine alla grandezza spropositata del suo amore, e lei incontrandolo per via lo avrebbe guardato con occhi pieni di nostalgia che lo avrebbero incatenato sempre più a quella città povera e sporca ma sarebbe comunque rimasta sempre accanto al marito e soprattutto ai figli, finché lui un giorno non se ne sarebbe andato di nuovo, sempre più lontano, dimenticando tutto, persino la lingua materna, fino ad ora che, sentendo il mio grazie, gli sarebbe di nuovo scoppiata come un fuoco d'artificio, luminosa e intatta, nella testa, chiedendo di essere usata ancora e ancora. E io lo ascolterei, prima partecipe e poi sempre più distratto, cullato da quei suoni familiari ma un po' incerti, e comincerei a girare lo sguardo nel vagone e vedrei una giovane donna che mi fisserebbe, forse attratta dai miei abiti esotici, dalla mia aria insieme familiare e straniera, e io le sorriderei, ma pian piano mi addormenterei per non ritrovarla più al risveglio, mentre l'uomo starebbe ancora parlando e parlando, più a se stesso che a me ormai. E allora io, appena intuito che la sua meta è ancora lontana, scenderei alla prima fermata, dicendo di essere arrivato, a fare cosa in questo posto isolato e deserto?, a cercare anch'io una donna, gli direi, incontrata in altro paese, esattamente come lui, e in realtà solo per sgranchirmi le gambe e vedere il nulla lì attorno, in attesa di un altro treno che mi attraversasse la testa, diretto a qualsiasi destinazione, che mancherei comunque.

E lì mi guarderei attorno, sconcertato e in attesa, senza sapere cosa pensare in quel paesaggio spopolato: lo stesso che mi ritroverei nella testa se non mi mettessi a scrivere tutto quello che ci passa per seguire dove va.

(Però incontrare quel tizio, e sentirmi addosso gli occhi della ragazza, anche così non è dispiaciuto.)


 

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