13/08/23

Marcite e gru danzanti

 

A Magenta scende solo gente brutta. L'unico con un bel fisico, alto snello e forte, ha il viso devastato da ulcere e croste, dalla fronte al collo, evidentissime anche da lontano nonostante la pelle molto scura. Indiano, cingalese...

Quelli che sbucano dal sottopassaggio, come il vecchio seduto, o piuttosto accasciato, sulla panchina accanto alla sala del capostazione, hanno il corpo sfasciato, non meno dei loro volti e delle relative espressioni. Gli occhi del vecchio sono vuoti, ma non vacui: pieni di un terrore sordo, anzi; di un panico ignoto. Pieni di tutto ciò che li ha disertati e della sua stessa diserzione, di cui non è sopravvissuta neppure la memoria.

 

Appena lasciata la stazione, è uscito il sole e sono cominciate le marcite, verdissime.

In una saltella contento, con l'alterigia del signore e padrone per diritto divino, un airone bianco. Un ectoplasma di pura luce, in tutto quel verde. Poi ne vedrò altri, qua e là, ma sempre e solo uno per riquadro di marcita. Anche cinerini, o garzette.

A destra, oltre gli alberi e la velocità, non so se la sagoma sfumata del Rosa o nubi in dissolvimento, puri riflessi.


Una volta, proprio da queste parti, in un prato accanto all'autostrada, ho visto delle gru impegnate in strane movenze, a metà tra un balletto e gli spasmi da avvelenamento. Ho accostato e sono rimasto parecchi minuti a osservare quella loro danza goffa, asmatica, fatta di saltelli, interruzioni, riprese e esitazioni sincopate, senza costrutto, affannata anche quando, per pochi attimi, aprivano le ali in tutta la loro maestà e le sbattevano con energia senza peraltro levarsi da terra, emettendo versi strazianti, che però potevano essere anche di gioia, di seducente richiamo, come annunci di orgasmi strozzati, gutturali: eppure incantevole, ipnotica. Era la prima volta che le vedevo dal vivo, così vicine. Enormi, mi è sembrato. Più grandi di me. Ridicole e commoventi. Belle. Belle per il semplice fatto che c'erano. Che erano lì, erano loro e erano così.


08/08/23

Ercole de' Robertii. Adorazione dei pastori

 

Il quadretto,  alla National Gallery, è grande pù o meno come lo vedete a schermo: 17,8 x 13,5 cm. (fa parte di un dittico, ma qui non importa. Voglio solo mostrarlo senza ricamarci troppo sopra.).
Io lo trovo bellissimo. Tutto. L'architettura della capanna, sofisticatissima nella sua apparente povertà; il suolo e lo sfondo, dorato e polveroso insieme; la borraccia (credo) e il fardello appesi al piolo di legno; i poveri abiti dei pastori e la postura devota simile a quella di Maria che a sua volta indossa un abito che sembra della stessa stoffa dei loro, o quantomeno di un medesimo colore; il bambin Gesù sdraiato rigido, col pancino un po' gonfio, le gambe distese, allungato come un morto: anzi,non fosse il braccio sinistro piegato, rappresentato proprio come un morto, disteso su un panno che solo qualche arricciamento dei bordi, notato solo in un secondo tempo, distingua da una lastra funeraria, e infine il l'asino e il bue di spalle, quasi indifferente, chiuso nel suo placido mondo, che rendono gloria al Creatore e alla creazione senza far nulla, essendo solo così come sono.

07/08/23

Papere, cigni e altri volatili

 


1)

Dopo i fuochi di ieri sera (bellissimi!), c'è un silenzio sepolcrale sul fiume, stamattina. I cigni e la colonia delle papere sono spariti: speriamo che ritornino (come gli scoiattoli, che proprio ieri, dopo molti mesi, ho rivisto nella boscaglia in riva al canale, dove meno me l'aspettavo). Solo qualche uccelletto sventato abbozza un incipit, un ritornello, o azzarda un richiamo che resta senza risposta. Nessuno se ne dà per inteso: o sono tutti via, o se ne stanno al sicuro dei loro rifugi estemporanei. Meglio non rischiare!

Io sto all'erta invece: non metto gli auricolari e accompagno il silenzio esterno con quello della mia testa. Così una volta tanto non soffrirà di solitudine (quest'ultimo intendo). Cammino e vado fino al cespuglio di rose canine, dal quale manco da un mesetto, cioè da quando l'hanno ignominiosamente tagliato per facilitare il passaggio di camion e altra barbarie motorizzata per non so quali lavori a Vaprio (a volte certi avverbi infiniti rendono bene l'idea). Dopo la scoperta, ho sempre preso altre strade: non mi piace soffrire gratis. Tutta la vegetazione è ricoperta di polvere, la pioggerella di stanotte non l'ha manco sfiorata. La riva alla mia sinistra è un tripudio di verdi, quella alla destra tutta una variazione di grigi, con sfumature gialline a volte, quasi dorate con la luce radente, o verdi quando lo strato è sottile. Bello lo stesso, a modo suo. Il modo suo del bello. Bene. Tanto più che il cespuglio, contrariamente a quanto temevo quando l'ho visto così brutalizzato (scerpato, stavo per scrivere, più che tagliato; mi vengono queste parole, ma resisto, un po' come lui), sta ricrescendo a velocità sorprendente. E' un fenomeno! Lo adoro. Ma ci vorranno anni perché ritorni a com'era prima, con il suo bel fusto solido a reggere la chioma che si lancia in ogni direzione. Intanto cominciamo così. Pian piano, senza far rumore ma con forza.

(Chiudo la parentesi. Può darsi che non c'entri molto, ma mi piace così: come lo scarto che ho operato per andare dal cespuglio. Un po' di musica imprevista, allegro con poco brio.)

 

Al ritorno la storia non è cambiata, sempre silenzio, nessuno in giro. Faccio caso che è da parecchio che non vedo i gabbiani, né quei due o tre aironi e cormorani che bazzicavano il fiume fino a primavera. Chissà da quanto se ne sono andati, e io, preso da altre cose, con tutto che mi reputo uno che non nega attenzione a niente e a nessuno, non me ne ero accorto! Va be', me ne accorgo ora: ora che la loro assenza non è surrogata da altro, da altre passioni. Sia chiaro, a scanso di equivoci, che io preferisco le papere in ogni caso. I gabbiani non mi piacciono molto: non c'entrano, anche se, visto che ormai sono qui, sono i benvenuti. Ce li abbiamo portati noi, del resto. Cioè, le discariche dei paesi vicini, avidi e menefreghisti, non noi noi... Sempre noi, però, comunque.

Al ritorno, dicevo, alle 9, con il sole già alto, due giovanotte avanguardiste si stavano avventurando con baldanza non so se vera o finta verso la passerella. Forse erano state inviate in perlustrazione dal paperume ancora sotto shock infrattato chissà dove, ma più probabilmente se ne venivano di propria iniziativa, con la curiosità e l'incoscienza della loro età (le verdi ali della giovinezza!), a giudicare dai bruschi richiami che a un certo punto si sono levati, forti e incazzatelli, da un'insenatura più a monte dove, tra il fitto della vegetazione sporgente sull'acqua, mi è parso di vedere il popolo anatresco al completo. Ma quelle hanno fatto le gnorri, e hanno proseguito senza titubanza, solo rallentando un po'. Va bene l'eroismo...

La caciara aviaria era ancora incerta se scatenarsi o restare prudentemente al coperto, ben mimetizzata, con il fiato sospeso, anche se qualche avvisaglia di cedimento già l'avvertivo. Una voce diversa che si aggiungeva ogni tanto... il coro che riempiva i polmoni e poi mandava rumorosamente giù la saliva per l'ennesima volta... ma faticava a trattenersi... non resisteva più, con l'ugola che già vibrava, la melodia che gli martellava il crapino... finché basta! Quando si deve cantare, si canta, cribbio!

Solo dei cigni proprio non c'era il minimo indizio. Ma quelli sono paurosi quanto sanno essere aggressivi all'occorrenza. Sembrano tanto cari e buoni, ma poi! I piccoli, prima di tutto, la famiglia! Non importa se sono ormai grandi quanto i genitori. Qui devono stare e qui stanno, che ci pensiamo noi. Saranno pure grandi e grossi, ma hanno ancora il piumaggio e il becco grigio! E con questo il discorso è chiuso.


2) (qualche giorno dopo)

Nell'acqua stagnante del canale, color caffè per i recenti temporali, le famigliole dei germani reali e delle anatre meno blasonate sono tutte in visita di cortesia, forse consigliate dalla corrente oggi più precipitosa del fiume. Mentre gli adulti scambiano i soliti convenevoli, i piccoli strepitano, immergono la testa nella fanghiglia roteando con il culetto all'insù o arrischiano le prime planate a pelo d'acqua. I genitori, pur non perdendoli di vista, fingono di ignorarli, ma è evidente che ne sono orgogliosi dalle fulminee occhiate che si lanciano in occasione di particolari prodezze, mentre improvvisi squarci di silenzio si spalancano, del tutto inopinati. Li lasciano fare, senza dire niente. Senza commenti né raccomandazioni. Come se non ci fossero. Non come la coppia di cigni che non molla un attimo la propria prole: la fa filare in linea retta, in mezzo a babbo e a mammà, come tetèschi di cérmania. Se potesse gli stenderebbe attorno un nastro di demarcazione, un filo con la scossa magari (a basso voltaggio, sia chiaro). E' vero che nelle prime settimane dopo la schiusa ha perso un paio di pargoli, tanto che ha dovuto emigrare dal grande stagno dell'ansa al fiume aperto, però...

E' evidente che i cigni sono per la famiglia nucleare: tutto per proteggere i piccoli e niente distrazioni, né a terra, dove i predatori non mancano, né in acqua, dove non mi sembra che ce ne siano, almeno dalle nostre parti. Le papere invece sono orientate verso la famiglia allargata, il clan: stanno in ordine sparso e amano le mescolanze; coltivano le relazioni sociali in tutte le forme, generi e sottogeneri, con i piccoli che giocano tutti assieme e poi sbagliano genitori quando questi se ne vanno, o si fermano a dormire dagli amici senza nemmeno avvisare. Che abbiano il permesso, è implicito: fa parte delle usanze. E poi non sembrano territoriali come i cigni, che li vedi sempre ai soliti posti, specie quando escono sulla riva, in angoli solo loro, lontani da tutto e da tutti. Certo, anche le papere hanno spiaggette erbose e argini che prediligono, ma da una parte stanno vicine anche a terra, a fare gruppo, e dall'altra svariano con maggiore disinvoltura, si dislocano per il piacere di farlo, e un giorno le vedi qua, un altro là e un altro ancora non ci sono più, come eclissate per sempre, salvo tornare alla base il giorno successivo o un altro ancora. Io immagino che sia perché usano di più le ali. Volano. Mi sono fatto quest'idea. Non hanno un gran bisogno del territorio, avendo l'aria.

 

(Ma poi, ma poi... Poi passano gli anni e io le vedo sempre qua, e sempre più numerose. Si capisce che la stanzialità gli giova. Che il luogo è abbastanza ricco e comodo e gli piace. Non fanno più nemmeno finta di migrare. Le ali le usano solo per increspare l'acqua, per fare dei giri nei paraggi, per riparare la testa all'occorrenza...

Proprio come... come...

Come chi?

Non ricordo.)

 

3)

Se fossi un vero amante, saprei distinguerle l'una dall'altra, e a ciascuna darei un nome, con il quale la chiamerei e la evocherei nella mia mente (gli innamorati lo fanno). Invece le vedo solo come gruppo, o divise in sottoinsiemi variabili, dai quali un singolo emerge per un attimo solo per qualcosa che sta facendo, per poi cancellarsi di nuovo in quanto tale.

Stamattina, recuperando con imperdonabile ritardo una coazione ancestrale, come a esprimere in questo modo il mio affetto le ho contate: sono quaranta, i cinque cigni esclusi. Cifre tonde, intrise di significati di ogni genere, e quindi di nessuno. Quaranta come le carte e cinque come le dita che le tengono. Per esempio.

Numeri!

(Sono un dilettante!)


 

 

 

 

 

 

04/08/23

Ennesimo appunto sull'effetto che fa leggere Kafka

 


In Kafka il narratore non dà nessuna spiegazione degli eventi insondabili (assurdi, misteriosi, o semplicemente imprevisti, strani) che narra, e quando lo fa o mette commenti e spiegazioni in bocca ai personaggi che per quanto improbabili o inverosimili li affermano con la massima naturalezza , le cose si complicano sempre di più, il mistero si infittisce, l’incomprensibilità di ciò che accade si estende al mondo intero, che sembra accoglierla come se si trattasse di qualcosa di scontato, e il lettore si scopre (tu ti scopri) perduto, allo stesso modo di chi li sta vivendo, o subendo. Perduto e appagato. Appagato ma perduto.

 

Immagine di Giuliano Guatta