22/10/19

Ricordi di copertura 11. Kerouac è morto 50’anni fa



Era il 1966. Vedo alla televisione quest'uomo che scende dall'aereo barcollante e poi con il bicchiere in mano e l'aria persa, da ubriaco, farfugliare frasi incomprensibili in risposta a un intervistatore ossequioso (credo) davanti alle telecamere, all'aeroporto o chissà dove. Ho 15 anni. L'idea che un grande scrittore, come continuavano a ribadire in tv, potesse essere così (e vivo oltretutto), non mi aveva mai nemmeno sfiorato. Non avevo mai parlato di letteratura con nessuno. Tutto quel poco che sapevo veniva dalla scuola e dai libri che stavo leggendo compulsivamente da due-tre anni. Non ricordo se sono rimasto più colpito o perplesso. È ben vero che da un po' sentivo i Rolling stones e Bob Dylan. Però uno scrittore, dai... Allora sono andato a cercare i libri tradotti. Ho trovato solo Sulla strada, e poi nel tempo anche gli altri, letti tutti con entusiasmo. Da lì sono passato a Henri Miller, i cui Tropici erano proibiti. Ma in casa di un amico ho visto che i genitori li avevano e me li sono fatti prestare. Mentre leggevo in classe il Tropico del cancro il prof mi ha beccato. Di solito tolleravano che leggessi, visto che i miei voti erano buoni, ma quello lì (di matematica) ce l'aveva con me perché studiavo poco ma prendevo 8 o 9 nelle verifiche di fine trimestre e pretendevo di aver quel voto sulla pagella mentre lui insisteva per fare la media con i voti deludenti delle prove intermedie (ma io so tutto da 8 alla fine?, chiedevo; e allora perché non mi dà 8, cosa le importa se nel frattempo non studio o leggo altro? Non capiva... Era una questione di cattivo esempio, o giustizia, o altro, non so...: insomma non gli andavo giù; oggi lo capisco, e questo valga a risarcimento postumo, erano in pochissimi a sopportarmi allora, a cominciare da me stesso) e mi portò dal direttore, un prete abbastanza illuminato (ero dai salesiani) che mi chiese, ma tu daresti un libro del genere da leggere a tuo figlio di 16 anni? Certo!, dissi io, lo consiglio anche a lei. Poco mancò che mi sospendesse. Me la cavai con una comunicazione a casa e sequestro del libro. Allora sono andato dal preside del liceo, il mio prof di filosofia, per farmelo riavere. Lui garantì per me, mi riportò il libro e mi chiese di prestarglielo una volta terminato di leggerlo. Intanto uscivano altri Kerouac. In particolare I sotterranei. La storia con Kerouac e Miller durò un paio d'anni. Nel frattempo cominciavano a arrivare Gombrowicz, Borges, Joyce e Kafka e compagnia bella, così alla rinfusa prima e sistematicamente poi, e quei due passarono in seconda fila e poi in terza e infine in una fila lontana, di quelle che si confondono con il buio. Li ho ripresi qualche anno dopo, nel periodo in cui la mia intransigenza si era fatta più acuta (intransigenza verso cosa e chi, stupido presuntuoso provinciale?) e non riuscii a finire nessuno dei libri iniziati. Capitolo chiuso. Per sempre, credevo (credo). Il mio amico Plinio, ora barone di medicina a Pavia, che è rimasto un kerouachiano a vita, ogni tanto mi spronava a riprenderli in mano. Non so. Un giorno o l'altro magari. Magari sono pronto a seppellire il cretinetto presuntuoso. O magari stavolta a frenarmi sarà il tempo che stringe. Non so. Dovrei pensare a queste e altre cose... Davvero non so.


Ps. Il libro in tasca
La giacca stazzonata della foto con un libro in tasca, mi ricorda quella di velluto di Ferlinghetti a Taormina (sempre in tv) di tanti anni fa, in occasione di un premio dove tutti erano in abito da sera e lui in jeans consunti, molto prima della ridicola moda dei jeans strappati, e stivaletti (e forse anche cappello? non ricordo), barba e capelli grigi lunghi un po’ unti, che toglie un libro dalla tasca e comincia a leggere e tutti si mostrano, sapendo di essere ripresi, attenti e ossequiosi, e nessuno pensa di essere in una bolla di contraddizione e semmai qualcuno pensa ai clown e sorride e dentro di sé (che sarebbe più coerente) disprezza. Oppure pensano di essere, in fondo, suoi fratelli, o almeno cugini (lui il cugino strano, che nelle famiglie non manca mai, il preferito dai bambini), in quanto tutti artisti. Tutti, dal primo all'ultimo.
Mi ricorda anche le tante mie di tutti questi anni, si parva licet, e la scorta di tascabili in macchina e un po' ovunque per ogni evenienza. Non si sa mai. E le tante tasche deformate o scucite, e quelle macchiate da stilo, biro e roller di ogni colore. Evviva!

21 ottobre 2019

14/10/19

La borsa sulla direttrice



Tiene la grande borsa dal fondo rigido a tracolla verso l’esterno, con nonchalance, o imprudenza, anziché verso l’interno, sul fianco e sul ventre, difensivamente, come l’amica con cui sta parlando, e quando sta relativamente ferma, a parte i sussulti della carrozza, non fa altro che coprire con l’angolo basso una parte della pagina di sinistra del libro che sto leggendo (Satin Island, di Tom McCarthy: interessantissimo e molto bello, pure), frapponendosi alla direttrice del mio sguardo verso le righe stampate in alto, spezzate in diagonale così che devo spostare il volume quando volto la pagina; quando invece il discorso o la scomodità della postura la portano a fare piccoli movimenti, lo spigolo della borsa, senza che lei se ne accorga o mostri di darvi peso tanto da spostarsi abbastanza da evitare il contatto (il piccolo urto: così da evitare di urtare), picchietta contro la mia spalla, come per richiamare la mia attenzione distogliendola da quello che sto facendo verso qualcosa di più importante, di delicatamente decisivo, o come fanno quelle persone fastidiose che mentre ti parlano ti colpiscono con un dito il petto o, appunto, la spalla per accertarsi che le stai seguendo perché la tua attenzione sembra che vaghi altrove o che tu non dia il dovuto peso ai loro argomenti, o per provocarti, ma qui in modo leggero, quasi impercettibile, data l’involontarietà, o viceversa ancora più offensivo per lo stesso motivo, in quanto inavvertito da chi lo produce, perché è come se ti dicesse quanto poco conti, come un certificato della tua insignificanza emesso da automaticamente un’entità burocratica superiore anonima, la prova, mentre ti ricordava della sua esistenza, dell’inconsistenza del tuo stesso corpo, che non fa più ostacolo a niente, il sigillo della tua assenza, non futura ma attuale, eterna, già da sempre e per sempre. Aveva ragione Marx: tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.

08/10/19

Corrotta alla sorgente (appunti per niente, 12)



“Quella di Griaule, – scrive Emanuele Trevi in Il viaggio iniziatico (p. 23, Laterza, 2013,) – è la figura di un “uomo moderno, di un “bianco”, ancora in grado di accostarsi a una sorgente incorrotta, a uno strato ancestrale di conoscenza del mondo”.


Cosa vuol dire “sorgente incorrotta”? (Mi rifiuto di pensare che sia una formula usata così, evocativamente, per comodo: non da uno scrittore bravo e colto come Trevi. E aggiungo che qui non è tanto lui a interessarmi quanto l’uso che di queste espressioni ancora si fa.) Quanta strada ha dovuto fare per essere attinta da Griaule? Quante trasformazioni ha subito prima di arrivare a lui? O così è nata e così è sempre rimasta, fuori dal tempo, dallo spazio, dai cambiamenti che anche la cultura dogon ha vissuto, dai misfatti che ha dovuto subire, e magari perpetrato, e non solo da parte degli europei, ma prima e più ancora dai vicini? Basta che non ci sia stato un previo contatto con i “bianchi” perché ci sia la garanzia di non aver subito influssi e modificazioni? Chi ci dice che la “corruzione” non fosse, o non sia sempre, già alla “sorgente”, ammesso che si possa determinare quale è? Ma scoprirla, determinarla, già non la intaccherebbe in qualche modo e misura?
E ancora: quanto indietro deve spingersi uno “strato” di “conoscenza del mondo” per essere “ancestrale”? e il fatto di essere questa conoscenza ancestrale, radicata qua e là nel passato, storico e soprattutto mitico, cosa ci dice o garantisce di peculiare e significativo? Non sarebbe comunque qualcosa più su noi stessi che sul suo presunto, indeterminato e indeterminabile tempo, tempo fuori dal tempo o prima del tempo? E sarebbe importante perché ancestrale e incontaminato o per tutt’altro? Perché ci parla? Perché ci parla da un altrove che, dal momento che ci mettiamo in ascolto, per quanto alla fonte vogliamo e sia giusto cercare di risalire, è ora e qui?

“Un uomo si avvia verso il sapere come se andasse in guerra”, dice Castaneda in Gli insegnamenti di don Juan, Rizzoli, citato proprio da Trevi (p. 31).
In guerra uno muove sempre se ha già fatto dei passi. In genere parecchi.

***
Ps. Tra l’altro sembra che Griaule abbia travisato varie cose, o che non gliele abbiano raccontate tutte giuste ecc… Il che non toglie che il libro a mio parere sia bellissimo.


05/10/19

Una rilettura 40’anni dopo (appunti per niente 11)




Rileggendo dopo 40’anni Morte della tragedia, mi sorprende (e un po’ mi deprime) notare come le sottolineature e i segni a margine siano gli stessi che farei ora. Sono cambiato così poco?, mi chiedo mentre mi compiaccio di avere individuato già allora i passaggi, le formule e le idee più importanti del libro. (Più importanti per me.)
Ma il libro è lo stesso!, si potrebbe obiettare. No, dopo le migliaia che ho letto successivamente (e gli anni passati, e le cose vissute, le vicende personali e no, ecc.). Potrei illudermi di vedere ora, negli stessi passaggi segnati, qualcosa di più e di diverso, ma non ricordo niente di ciò che posso aver pensato allora. Ci sono solo quei segni. Il fatto che ho usato pochissime volte la matita per farne dei nuovi. Certo, qualcosa è passato nel mio sangue, nella mia testa, ma cosa non saprei specificarlo.
Rileggo come se leggessi per la prima volta, ma sapendo che non è così, e sapendo anche che ogni lettura, in un certo senso, è già una rilettura. E che ogni rilettura è una nuova prima volta. Quella di adesso.

03/10/19

Scrivere diretto. Con un inchino a George Steiner (appunti per niente 10)



Mi piace il parlare e lo scrivere diretto, con la minore incidenza possibile di metafore e traslati vari, dove la parte di artificio è tutta devoluta alla sintassi e al ritmo. O a ciò che le parole dirette mascherano, o nascondono, e soprattutto tacciono. D’altra parte, come dice George Steiner (Morte della tragedia, 57), “c’è anche una poesia dell’esplicito”, tanto più che anche laddove è più marcato e sembra occupare da solo tutta la scena, non c’è niente di così flagrante, e compatto e trasparente, che non celi in sé qualcos’altro e non proietti una sua ombra. Non si parla senza immagini. (Qui l’esempio.)


 (citato da questa edizione)