09/12/23

Una voce dal coma profondo Donghi, Tre centimetri dietro gli occhi

 


Un uomo in coma profondo da anni può ancora, a dispetto di tutto, pensare? Può percepire qualcosa del mondo esterno anche se non è in grado di restituire nulla di quanto avviene in lui, nonostante sia stato sollecitato e monitorato e curato con tutti i presidi tecnologici e farmacologici più avanzati? L’assenza di risposta a qualsivoglia stimolo basta a decretare quella di ogni capacità mentale, tutta interiore, che nemmeno il più sensibile metodo di rilevamento riesce a individuare? Ma se supponiamo che una capacità possa comunque sussistere, di che tipo sarà? E se pensa, cosa penserà l’uomo in coma?

Sono queste le domande da cui muove Tre centimetri dietro gli occhi (Scienza Express, 2022, p. 149), prima prova narrativa di Pino Donghi, saggista, curatore di collane editoriali e autore di libri di divulgazione scientifica. Lo spunto e il titolo sono debitori di Giulio Tononi, che durante una conferenza invitava il pubblico a riflettere sulla possibilità (lui dice evidenza) che “tre cm dietro gli occhi” di un paziente total locked-in potrebbe esserci una coscienza perfettamente vigile quanto incapace di comunicarlo all’esterno.

L’assunto di partenza non è poi così strampalato: come dice la dottoressa Monti, la neurologa che con passione e partecipazione (contrariamente al primario dott. Bruni, prototipo degli aridi burocrati che costellano la sanità nostrana) per anni illustra il caso di Riccardo, il paziente in coma e voce narrante del romanzo, agli studenti di neurofisiologia del suo corso: “l’assenza della prova non costituisce la prova dell’assenza” (p. 70); infatti secondo recenti ipotesi “la coscienza è un prodotto del cervello, solo del cervello, non ha bisogno di stimoli esterni, non ha bisogno di nervi, di collegamenti con altre parti del corpo, e non ha bisogno nemmeno di ottanta dei suoi cento miliardi di neuroni: gli bastano i venti del talamo e della corteccia” (p. 115-6).

Una volta deciso però che in questo profondissimo buio silenzioso e immobile, una voce interiore sia possibile, si tratterà poi di decidere che cosa potrà dire e come. In estrema sintesi le principali strade possibili sono due: la prima l’ha percorsa in modo così perfetto e radicale Samuel Beckett fino ai bordi del silenzio (e nelle ultime opere anche dentro) da aver praticamente precluso qualsiasi forma di prosecuzione che non si risolva in un patetico scimmiottamento; l’altra si dirama in più rivoli che vanno da monologhi interiori sempre più destrutturati e confusi, alla riproduzione di una voce narrante “normale”, con le sue lacune e manchevolezze accentuate dal suo stato fuori dal comune, ma tutto sommato ancora in grado di ricordare, riportare ciò che avverte fuori, e riflettere senza abbandonare il filo della ragione. Ed è quest’ultima la voce scelta da Donghi per il monologo di Riccardo quando, dopo cinque anni total-locked-in, viene deciso di interrompere le cure, o, come si dice con una di quelle espressioni che lui ha in odio, quando la sorella dà il consenso a staccare la spina. Una voce fin troppo razionale, ironica, a momenti petulante, altri nostalgica, lucida ma anche appassionata, disillusa eppure avida di sapere, desiderosa di capire e di trovare ragioni, come lo era il suo “portatore-non portatore” quando era ancora sveglio, attivo e pieno di vita. Il cinquantenne Riccardo Borrazzini, infatti, prima del banale incidente motociclistico che l’ha ridotto in quello stato e nel quale è morta la sua amata compagna Lucrezia, era un editor editoriale attivo specialmente in campo scientifico, come Pino Donghi, che appunto per questo ha potuto capire, e poi assimilare e discutere tra sé e al cospetto dell’uditorio virtuale a cui non cessa di rivolgere il suo discorso e le sue perorazioni, tutte le più recenti acquisizioni e ipotesi di ricerca tuttora in corso delle neuroscienze, in particolare sulle varie problematiche relative alla coscienza, e comunicarle in modo chiaro, affabile e didattico anche al lettore digiuno nella materia.

 

Nondimeno il paradosso permane: come potrebbe il comatoso riconoscere infermieri dottori e visitatori, sentire i loro discorsi, apprendere nozioni mediche, attivare ricordi ecc., senza che almeno l’udito sia ancora attivo e che questo non dia luogo a nessuna attività cerebrale registrabile? Ovviamente a Donghi non interessa il realismo e fa ampiamente ricorso, come affermato in un’intervista, alla “sospensione dell'incredulità, quella che gli storici della scienza indicano come condizione necessaria nell'impresa e nella scoperta scientifica: io direi anche nella vita. Ho provato a pensare l'impensabile - ha poi aggiunto -, immaginando un essere umano che chiede di poter continuare a vivere dalla condizione forse più estrema che è dato concepire: ho scritto di Riccardo con l'idea di denunciare una modalità prevalente del "pubblico dibattito" che si avvita dentro posizioni preconcette, argomenti confezionati, posizioni da tifoseria l'un contro l'altra armata.” Così Donghi, una volta delineati i presupposti e i limiti della narrazione, può procedere in un certo senso “come se niente fosse”, perché è altro che, nell’esperimento che viene ad essere la finzione, gli preme di indagare e di dire. Alla base della presa di posizione di Riccardo non stanno tanto l’istinto di conservazione o il conatus spinoziano per cui la vita vuole vivere, sempre, finché c’è un residuo di possibilità, quale che sia; quanto l’evidenza, a suo parere, che la vita ama vivere, sempre, in qualsiasi modo e circostanza, persino nell’estremo dolore. Anche se, come scrive Robert Walser in Jakob von Gunten (p. 102): “Un bel giorno mi toccherà un colpo, uno di quelli che annientano una persona, e allora tutto finirà: finirà questo intrico, questo struggimento, quest’ignoranza, tutto, tutto, gratitudine e ingratitudine, menzogna e miraggi, questo creder di sapere e invece non saper mai niente. Però desidero vivere, non importa come”. Ma la ragione principale, per usare le parole di Riccardo, è che non solo “tre centimetri dietro gli occhi ci sono, sono vivo e sono cosciente, e voglio vivere per questo” ma soprattutto che “voglio vivere perché l’accidente biologico che mi ha fatto nascere … è una tale assoluta meraviglia che vale la pena viverla in qualsiasi maniera, anche la più estrema”. Basterebbe questa semplice, ma non così facile, convinzione, a fargli respingere tutte le posizioni dei vari schieramenti religiosi o ideologici che infervorano il dibattito bio-etico sull’eutanasia, pronti a gettarsi sul suo caso non appena si saprà della decisione presa. Ma ce n’è un’altra, che non attiene alla rivendicazione della sua assoluta unicità e differenza non sussumibile sotto nessuna bandiera senza che questo gli impedisca di comprendere e condividere lotte e sofferenze di chi lo ha preceduto, ciascuno nella sua individualità e sofferenza, da Piergiorgio Welby a Eluana Englaro a Karen Quinlan a Terry Schiavo a Jean-Dominique Bauby , ma alla ripugnanza per le varie retoriche a cui essi fanno ricorso, alla loro meccanicità e vuotezza formulare che già da sola basterebbe a rivelare la strumentalità di potere che ogni presa di posizione cela dietro le loro convinzioni impermeabili e i principi che vengono sventolati, da cui ogni forma di pensiero sembra essersi eclissato, e per il kitsch consolatorio e pseudonobilitante a cui tutte approdano (il riferimento è a Kundera, uno dei numi tutelari, di Riccardo, e di Donghi, che da lui prende anche il modello della forma del romanzo-saggio che Tre centimetri dietro gli occhi intende essere.)

 

                                                            Karen Ann Quinlan

A compensazione di un’adesione non sempre facile alla plausibilità della voce narrante e del suo discorso, la finzione della condizione estrema dell’enunciazione, per quanto abilmente alleggerita e sfumata da tutto l’armamentario dell’understatement, ironia litoti eufemismi attenuazioni, e dalla rivendicazione dell’assoluta soggettività di ogni asserzione, assume una spiccata forza di persuasione presso il lettore, avvalorando  con un supplemento di verità, se così posso esprimermi, ogni affermazione e le varie prese di posizione sui temi più disparati di cui è intessuto il libro: dai dibattiti bioetici, con le varie riflessioni dei difensori della vita, tutte respinte al mittente (p. 81-82), alle riflessioni sulla ricerca, gli interessi del settore privato e gli obblighi di quello pubblico, al kitsch, e ovviamente all’amore.  Chi parla da lì non ha niente da perdere e quindi non c’è nessun motivo di mentire e può quindi dire la verità e nient’altro che la verità, almeno quanto a sé e alla sua situazione nonché al contesto sociale, famigliare e comunicativo che lo riguarda. Il lettore tende ad aderire e, una volta sospesa l’incredulità, a empatizzare. Altrimenti sarebbe troppo cinico. Crudele, persino! E chi mai vorrebbe esserlo?

Medici, infermiere, amici e parenti sfilano davanti a Riccardo, e lì, da soli, al cospetto del suo silenzio e della sua assenza di reazioni, essi pure non riescono a frenare il loro bisogno di una parola sincera, senza riserve, una parola di verità come se solo davanti a un testimone silenzioso e impedito a qualsiasi reazione possano aprirsi, sfogarsi, confessare, confidarsi senza ritegno, cioè senza paura, più che in un confessionale. Qui si è certi che nessuno giudica. E che nessuno andrà a spifferare niente. Forse Riccardo ascolta, forse no, e allora si può dire, svuotarsi, sgravarsi di pesi grandi e piccoli, rovesciargli addosso tutto ciò che di solito si tiene dentro, segreti, timori, desideri, e angosce.


C’è poco da scherzare comunque. Lo sa benissimo chi ha avuto o ha una persona cara in una situazione di coma profondo. Solo chi vi si trovasse potrebbe permettersi l’ironia, ammesso che voglia farlo, come pure capita a Riccardo, dopo aver superato la disperazione dei primi tempi e per tenere a freno l’angoscia che lo accerchia ora che stanno per porre fine alle procedure che lo mantengono in vita. Ma chi guarda da fuori tanta voglia non ne ha, impietrito com’è dal dolore e dall’assoluta impotenza a farsi una benché minima idea di come sta e cosa eventualmente prova la persona cara, al di là delle approssimazioni che la pietà, il desiderio e la colpa possono suggerire, comunque sempre a partire da verosimiglianza che è solo la sua, cioè quella di chi è total locked-out, chiuso fuori, dentro di sé e i propri limiti di conoscenze e immaginazione, e sempre con il retropensiero che ogni cosa potrà mai pensare e decidere, come avviene per la sorella di Riccardo nel monologo in cui gli “comunica” l’interruzione delle cure, sarà al massimo poco più di un’autoassoluzione da un lato, ma in pratica il consolidamento, una volta per tutte e sapendo che non verrà mai meno, del senso di colpa di essere vivo, quanto a sé, e di voler che questa cosa (per usare la parola mantra con cui il primario Monti liquida ogni problema), qualunque essa sia, cessi una volta per tutte. E che cessi il tormento della sospensione, e della speranza, per lasciar spazio a quello del definitivo, per quanto tremendo.

Invece è proprio la speranza che Riccardo intende tener viva contro le formule assolutorie e le frasi fatte, le frasi-nastro di Orwell, più volte citato, a cui tutti ricorrono per negarsi al pensiero invece di accedervi e approfondirlo. Come se fosse semplice non ricorrervi. Come se tutti potessero avere quella sensibilità linguistica, quella capacità di pensiero, e di sopportazione, che comporta il solo desiderio di potervi sfuggire. Ciò che sarebbe invece un dovere di chi per professione, e non solo per pura umanità, è a contatto con queste realtà quotidianamente, e del pensiero e del linguaggio deve aver cura, come l’editor Riccardo, e dietro lui lo scrittore Donghi.


 

 

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