06/06/22

Su Lucetta Frisa e Marco Ercolani

 

     

I Lucetta Frisa, L'emozione dell'aria

 

 

Il quarto libro di cui vorrei parlare è L'emozione dell'aria di Lucetta Frisa (ed. CFR, pp. 88, E. 12,00). Vorrei, ma non lo farò, perché è un libro di poesia e la poesia mi disarma (è anche il motivo per cui che ne sono attratto d'altronde). Non ne so parlare: non ci riesco e non ne sono capace. Dovrei entrare in dettagli che non so maneggiare o finirei per perdermi in parole astratte, non particolarmente simpatiche. Dovrei girarle attorno, in lunghi giri. Camminarci sopra mi ripugna. La prosa la calpesto in lungo e in largo senza problemi (ogni riga che scrivo lo dimostra), la poesia no. Vecchi tabù. Ma allora perché non parlo dei libri in prosa di Lucetta: per esempio dei bei racconti riuniti in La torre della luna nera, ed. puntoacapo, pp. 184, E. 16,00, che contiene alcuni pezzi davvero entusiasmanti, come “Kafka è morto a 67 anni”, o di altri scritti in collaborazione con Marco Ercolani, come gli splendidi Anime strane, Greco&Greco 2006, e Sento le voci, La vita felice, 2009? Ma è semplice: perché Lucetta sopra ogni altra cosa (è anche traduttrice, lettrice a voce alta), è una poetessa. Senza aggettivi qualificativi, che sminuiscono. Una poetessa che mi piace molto. Come poetessa e come donna. E quindi, non potendo parlare della prima, dirò un paio di cose sulla seconda. La prima è che le voglio bene, che come motivo per parlarne già basta e avanza. La seconda non è specificare perché gliene voglio (che senso ha specificare i motivi per cui si vuol bene a qualcuno, ammesso e non concesso che per voler bene ci vogliano dei motivi? Mica sono così meschino...), ma dire almeno cosa mi incanta in lei. Mi incanta la sua capacità di incanto.

Più che una predisposizione, Lucetta ha una vera e propria vocazione allo stupore che non ho riscontrato in nessun altro. Nemmeno nei bambini. Non mi spingerò a dire che i bambini sono stupidi nemmeno se lo pensassi (…), ma è certo che il loro stupore nasce dall'ignoranza, quello di Lucetta anche (come per tutti), ma da quell'ignoranza che sgorga da tutto ciò che sa (che è tanto, come dimostra tutta la sua opera), dalla conoscenza che resta vicina alla sua sorgente, da quanto sa dimenticare in ciò che sa per trasformarlo in capacità di ascolto e di canto. Come se fosse geneticamente predisposta a rispondere a tutto ciò che, in ogni cosa e conoscenza, fa appello all'incanto. Lo chiama in lei, e lei, alla vocazione, risponde. Tiene aperto l'ascolto, e lo sguardo, anche nella sofferenza, di modo che, quando si ripiega in se stessa, non è per chiudersi. ma per esporsi, per ampliare le proprie superfici sensibili interne, lasciare che angoli e spigoli e ogni forma di connessione si moltiplichino, e incidano, nella sua vita prima ancora che nei suoi versi. E' da lì, mi pare, che viene anche la sua disponibilità (e capacità) a lasciarsi abitare, a assumere le parole altrui seguendole sulle loro vie lungo un percorso che ogni volta, alla fine, estrae da esse immagini e cose e suggestioni inedite e al contempo disegna il suo profilo, questo o quel lineamento, e proietta una luce che prima di lei non si conosceva, arricchisce la nostra e la sua conoscenza (la sua di lei), proprio lì, quando si fa porta-voce di altri, come a distogliersi da se stessa, non per esprimersi attraverso la loro voce o per nascondervi la propria, ma per cercarla, e ogni volta trovarla.

 

II - Marco Ercolani, Turno di guardia

 


Marco Ercolani è psichiatra e quindi non sorprende che la follia occupi un posto rilevante nel suo lavoro di scrittore e critico. Sorprendono invece la varietà dei modi in cui il suo rapporto di medico e artista con essa è stato declinato e la molteplicità delle forme che ha assunto: mai come ambiente, fonte di storie o serbatoio di personaggi o aneddoti, ma sempre spazio mutevole indagato al limite, in bilico sul filo tra follia e opera, esperienza e studio, malattia e sintomo, persona e paziente, cercando di preservare a ciascun corno della dicotomia la sua specificità e autonomia, il rispetto per la voce che gli è propria e insieme la possibilità di un passaggio dall'uno all'altro: ponte, porta, segno, empatia. Vale a dire attenzione che rifiuta al folle il ruolo di astrazione, ma anzi riceve proprio dalla sua individualità lo stimolo a riconoscere in sé un identico spazio e a provare a rispondere alle sue radicali interrogazioni senza stemperarle, ma anche senza idealizzarle dimenticando che è dalla follia che provengono: dalla malattia e dal dolore da cui il folle chiede di essere liberato. E questo sia che il rapporto con la follia prenda poi la forma di riflessioni saggistiche (come in L'opera non perfetta Note su arte e follia 1999-2009, Nicomp L.E., 2010), sia che riporti, come quadri circoscritti, ma senza cornice, i deliri, le voci e le esperienze, fatti e misfatti, dei malati (come in Anime strane, Greco&Greco, Milano, 2004 e Sento le voci, La vita felice, Milano, 2009, scritti in coppia con la moglie Lucetta Frisa), ovvero che essi abbiano il ruolo di attori e interlocutori diretti come nel recente Turno di guardia (Il Canneto Editore, Genova, p. 113, E. 7). Sottolineo malati e folli, perché tali sono e li chiama Ercolani, senza ricorrere a eufemismi o palliativi di sorta: sono malati, pazienti, che patiscono  e non hanno più la pazienza di sopportarlo, anche se a volte non manca chi, "guarito", rimpiange la malattia: "Non sarei dovuto guarire. Ora detesto la vita. Non sarei dovuto finire così. Prima c'erano ventisette ponti, trecento odori, seicento colori. Ora niente. Sto dentro un appartamento e aspetto di morire." (Ma se è guarito, che ci fa al pronto soccorso in piena notte? Forse che la "guarigione" non è che una forma più accettata ma non meno dolorosa di malattia?)

Se però il rapporto di Ercolani con la malattia è sempre personale, non è mai dato di trovarlo in prima persona nelle sue opere: anzi, la sua cura è sempre stata di eclissarsi, di annullarsi, non solo come forma di pudore e rispetto per la sofferenza, ma come igiene dello sguardo e precisa strategia di scrittura, come aveva fatto in molti dei libri precedenti non a caso spesso imperniati sul tema dell'apocrifo e sui diversi stili che ne conseguivano.

Le cose cambiano invece, e con esiti molto felici, proprio in questo Turno di guardia, dove lo psichiatra, che i turni li fa (li patisce) in un ospedale di una grande città, è in primo piano non solo come soggetto dell'enunciazione e portatore dell'esperienza professionale nonché di artista e studioso, ma anche come bersaglio di considerazioni sarcastiche o aggressive, oltre che di richieste, imploranti o imperative, da parte del tragico campionario umano ai cui bisogni egli cerca di assolvere, ritrovandosi spesso impotente, nelle infinite notti di guardia, in turni anche di 12 ore che a volte si susseguono per giorni e giorni senza pause.

Dementi, barboni, tossici, alcolizzati, suicidi mancati o potenziali, paranoici e schizofrenici, tanti stranieri: stranieri tutti. E straniero, altro, è anche lo psichiatra stesso, lo psichiatra che è scrittore e che come tale è talvolta riconosciuto, e stigmatizzato, deriso e accusato, dai suoi pazienti, a cui cerca di prestare le cure più urgenti in notti "interminabili" in cui la fatica e il sonno si accumulano, combattuti da un lato con letture, film in dvd, testi da scrivere e referti da stilare o consultare; e soprattutto intralciati, dall'altro, dalle chiamate dal pronto soccorso, casi urgenti da ascoltare o sedare, voci che urlano nei reparti, a volte in ululati ininterrotti, e altre come grida isolate, ma più lancinanti, a intervalli regolari, con scansioni esatte, cronometriche, ed effetti più catastrofici sul decorso del tempo, che negli intervalli non si distende in pausa e sollievo, ma si riempie dell'attesa angosciosa del loro ritorno inesorabile.

Brevi storie scandite in capitoli che spesso non superano la pagina, destini chiusi in poche frasi, in dialoghi rabbiosi ma che celano la supplica nella negazione che alla rabbia dà voce, o in brevi monologhi, definizioni e esemplificazioni illuminanti delle malattie e dei loro sintomi (deliri, allucinazioni, crisi epilettiche, di panico, di violenza...), e sintesi di grande efficacia espressiva e di disincantata ma partecipe saggezza, o come condensato, o meglio: precipitato esperienziale. Mai però riducendo a simboli i folli, sempre invece "esseri veri che producono finzioni", che "vivono, giorno dopo giorno, secondo dopo secondo, la percezione di un mondo disintegrato, un mondo che non sentono neppure legato al proprio dolore psichico, ma che avvertono come disastro continuo, concreto, reale, fissato nelle cose, ripetuto nel tempo".

Ma la ricchezza di questo libretto non si limita a questo: essa deriva anche dall'intreccio delle storie con la riflessione che Ercolani non cessa di esercitare sul proprio lavoro: lavoro duplice, in cui scrittura e psichiatria rimandano l'una all'altra e quasi si confondono, perché la prima non va senza la competenza e la strumentazione della seconda, e viceversa queste non possono trovare espressione senza la riflessione e la consapevolezza delle forme, dell'artificio e delle implicazioni della prima.

Chiedersi come parlare ai pazzi quando non c'è tempo di fare nessun discorso, come affrontare l'urgenza delle ferite invisibili e che non si esprimono se non indirettamente, e spesso attraverso il rifiuto e il silenzio, non può essere disgiunto dal chiedersi come dare voce a questi incontri, come trarre esperienza dai loro insegnamenti senza cercare insieme le forme, il linguaggio e le modulazioni e intensità adeguate; e come, infine, conservare ogni istante la consapevolezza di avere di fronte un essere umano singolare e dell'unicità del dialogo che esso richiede, impedendo al contempo che "la conoscenza di destini eretici o infelici influenzi il lettore con irrilevanti sentimenti di compassione". La partecipazione si nutre anche di distanza; la terapia, di riconoscimento e uso della differenza. Se "aver avuto terrore e non volerlo più provare è la giustificazione segreta del delirio", il medico, da parte sua, anche se "per ogni mondo parallelo" prova sempre "un'ostinata tenerezza", deve però aiutare il malato a dargli "una logica" e chiedergli "di delirare con prudenza", di non lasciarsene sopraffare, incerto di riuscirci lui stesso quando, stremato, esce "dai muri della stanza di guardia come dalle pareti di uno specchio". Di uno specchio, aggiunge, che "è crepato", in cui si può mettere "la testa dentro", ma da cui è possibile, per lui, "guardare anche fuori. Affacciar[s]i all'altro mondo con la testa semidecapitata dal cerchio delle loro, delle [sue] visioni". Come noi dal cerchio delle nostre, all'uscita dallo specchio di questo libro.

 

Marco Ercolani, Turno di guardia, Il Canneto Editore, Genova, p. 122, 7

 

III - Lucetta Frisa e Marco Ercolani, Il muro dove volano gli uccelli

 


 

Con Lucetta e Marco ci conosciamo da vent’anni ormai. Ci scriviamo, telefoniamo e leggiamo reciprocamente, ma gli incontri di persona saranno poco più di una dozzina, e per quasi tutti l’occasione è stata una mostra o un museo: a Genova, Milano, Bergamo, Firenze, Monaco di Baviera... La scrittura, dunque, ma altrettanto la pittura. Il loro primo libro sull’argomento precede la nostra amicizia: è anzi uno dei primissimi che hanno pubblicato a quattro mani: L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), ma tracce di questo amore si trovano sparse in molte altre opere. La scrittura, saggistica o di invenzione, è il derivato naturale di questa vera e propria passione. Non dico che visitano musei e mostre per scriverne; ci vanno (ci andiamo) perché i loro sensi hanno fame di pittura: la testa viene dopo, magari di pochissimo, attimi, ma dopo; e la scrittura a partire da quanto visto, dopo ancora, o forse mai, anche se la passione è tale che prima o poi trabocca in inchiostro (mi scuso per la metafora). Giriamo per le sale, Marco più veloce, ma meditativo e metodico, Lucetta, che pure non trascura nulla, più ondivaga, trascinata dall’entusiasmo per questo o quel dettaglio o per l’insieme già intravisto da lontano ma che necessita sempre di un accostamento, lento o saltellante, e di lunghe soste, di uno sguardo miope, con tutto il corpo che segue l’occhio, si mette al suo servizio, ma poi ne guadagna un surplus elettrico, di pura gioia. Nel frattempo io sparo un po’ di scemenze ma, chissà come, loro le metabolizzano in positivo e me le rimbalzano con una sfumatura in più o un distillato della loro personale alchimia, tanto che mi sento più intelligente anch’io. Gli amici servono a questo. Puro egoismo.

 

Poi io torno a casa contento di averli visti e di ciò che ho visto, e oltre non vado quasi mai; loro continuano a alimentare i loro forni e col tempo da quelle loro storte e alambicchi escono racconti, epistolari e carnets apocrifi, saggi critici o ekphrasis di singole opere che dialogano le une con le altre e con altro ancora (testi, citazione degli autori, dichiarazioni di poetica, luoghi e contesti), e poi vanno a comporsi in piccole costellazioni tematiche che a loro volta ne formano di più vaste che sono insieme traiettorie originali nella storia dell’arte e riflessioni sulla sua natura, e indirettamente, ma non in subordine, sulla propria opera, sulle ossessioni, le procedure e le implicazioni che stanno alla sua base.

 

Questo Il muro dove volano gli uccelli ne è la dimostrazione e, assieme a L’opera non perfetta (Nicomp, 2010) di Marco per quanto concerne la pura teoria, il risultato più alto (oltre che più soddisfacente per gli occhi, per le opere riprodotte e commentate, e per la lettura, grazie a una scrittura piena di sorprese, di improvvisi cambi di direzione e soprassalti che posso definire solo come poetici). La seconda parte esemplifica nel modo migliore quanto appena detto: si tratta infatti di una cinquantina di Dispercezioni (è il suo titolo), suddivise per nuclei tematici: Ombre del sacro; Chiaroscuri, maschere; Soglie, dissolvenze; L’opera come ossessione; Intorno al nero; Colori, alchimie; Imminenza, visione; Speccho, misteri. Seguendo la suggestione di ciascuno di questi titoli e più ancora cambiandone l’ordine, cucendoli con i pochi nessi che l’ordine configurato produce quasi da sé, usando l’uno come chiave interpretativa degli altri, non si scopre solo la stratificazione di queste letture brevi e apparentemente solo focalizzate sull’opera prescelta, ma si individuano anche alcune delle strutture portanti delle opere dei due autori. Si potrebbe anche fare un piccolo gioco delle attribuzioni e delle prevalenze, ma lo lascio al lettore: basta scorrere i titoli dei loro libri per iniziarlo.

 

La prima parte è composta di saggi davvero belli, che articolano con più ampio  respiro queste tematiche e ne esplicitano i presupposti teorici, a partire dai graffiti delle origini fino a Nicolas de Staël passando per Braque (il titolo del libro è ispirato da una sua tela: Les oiseaux) e avendo come numi tutelari Giacometti e,

soprattutto, Michaux. Si tratta di un’indagine, o meglio: di un vero e proprio viaggio nel paesaggio materiale, organico, della creazione, in quel territorio dove i gesti, gli impulsi, i respiri, l’eccitazione dei nervi e il dolore, le pieghe della carne e le sue contrazioni si traducono in atto creativo, al di qua del senso, dell’ordine che esso sempre comunque impone: necessario, utile, plurivoco, ma sempre secondo, ulteriore, anche quando si volge indietro e rimonta a prima, cercando di attingere il prima del prima. Un itinerario che va indietro nel tempo, alle grotte con i primi graffiti, ai primi segni le impronte delle mani e figure di animali e a prima dei segni, quando un segno è solo traccia, graffio animale, scarabocchio, pura grafia, gesto che traccia e ancora non è finito, segmento di nessun insieme: non ancora nel gioco delle differenze che lo spossessano di se stesso fissandolo in un’identità ripetibile e differenziata, ma appunto per questo, infine, visibile, riconoscibile, con il capo fuori dall’informe. Ma un’indagine che risale anche al momento prima che il gesto cominci: all’agitazione, al brulicare delle viscere, allo sguardo che fibrilla e alle sensazioni in eruzione prima del pensiero, dove ancora nessuno può dire io. Così anche il loro sguardo, la loro capacità di lasciare che l’occhio si incendi e la scossa passi nei sensi e nell’immaginazione, le analogie, i nessi e le nuove immagini che ne vengono prodotte sono meno un percorso emotivo personale o mappe culturali, che pure a me piacciono moltissimo, che l’affioramento di parentele, affinità e scambi senza proprietario che legano nello stesso vincolo, in una visione comune, chi guarda e le trova e chi le riceve e trasforma e rilancia.  

 

Il muro dove volano gli uccelli - di Lucetta Frisa e Marco Ercolani, Edizioni L'arcolaio, 2013

 

 

IV Marco Ercolani, Camera fissa

 


Comincio con Camera fissa, di Marco Ercolani (Nuova Editrice Magenta, 2013, p. 85, E. 10).

E’ un breve romanzo giovanile, che l’autore ha rivisto a più riprese, fino a questa versione, matura e definitiva, con cui ha vinto il Premio Morselli 2012.

Un uomo giace a letto, incapace di ogni movimento o parola escluso quello degli occhi, in seguito a al fallito suicidio di qualcuno che si è gettato da un palazzo e gli è caduto addosso. Un giorno riceve la visita di un uomo che si rivela il responsabile della sua condizione. Le visite si ripetono, ma mentre l’altro implora il suo perdono, il protagonista ordisce, in modi sottilissimi e con l’aiuto di un vecchio che lo accudisce, insieme la sua vendetta e la propria liberazione.

Il libro è composto di brevi capitoli in cui sono riportate le minime percezioni, ricordi e sogni e progetti del corpo immobile a letto o messo a sedere davanti a una finestra, ridotto a puro sguardo. La camera fissa del titolo, più ancora di quella in cui giace, è quella con cui si identifica quello sguardo, crudele riduzione di un uomo cresciuto da una madre cinefila e lui stesso regista cinematografico. E trame, citazioni, personaggi di film del passato costituiscono il tessuto connettivo tra i capitoli, i personaggi e le vicende: alcuni in citazione e con funzione esplicite, altri in modo velato, come richiamo criptato e chiave di lettura.

Un libro cupo e crudele, costruito con pochissimo eppure denso; una tensione che cresce nell’immobilità di eventi assenti, ridotti a un fiato, a una pupilla che si sposta appena.

 

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