31/10/20

João Guimarães Rosa, Miguilim (1984)


Il brasiliano João Guimarães Rosa (1908-1967), forse “il primo scrittore di alto profilo non solo nato, ma che abbia concluso la sua carriera, in questo secolo” (come afferma G.F. Contini), diceva di “captare” o “ricevere” le proprie storie, a poco a poco o già completamente delineate, nei modi più occasionali e disparati, per strada, in sogno, o “sotto una ragionevole azione del vino o del cognac.” Attraverso questo oggi piuttosto inflazionato “formulario  magico-rituale” (come lo chiama L. Stegagno Picchio, dalla quale ricavo queste notizie e le successive citazioni) Guimarães Rosa intendeva sottolineare come ogni storia fosse necessaria e indipendente da lui, non semplicemente “una storia, ma la storia” cioè, colta nella sua “essenza archetipa” sotto il “vestimento esterno” dei fatti narrati, che andrebbero simbolicamente oltrepassati per quanto difficile possa essere poi determinare un punto d’arrivo. (Ma se una storia è necessaria, ciò che è narrato non sarà più un “vestimento esterno”.)

Di Miguilim in particolare (il primo dei sette racconti-poema di Corpo di ballo, ora ristampato separatamente da Feltrinelli nella bellissima versione di Edoardo Bizzarri e con una acuta prefazione di A. Tabucchi), Guimarães Rosa diceva: “mi cadde già fatto sulla carta mentre giocherellavo con la macchina (…) subito mi prese e mi strinse e quando arrivò alla fine mi stupì la simmetria e la connessione delle parti” (come se il racconto lo avesse inseguito da molto tempo e da molto lontano).

Anche al bambino Miguilim si presentavano pensieri da afferrare “come che con le mani” e storie che prendevano forma per ordine divino (raccontarle “era per lui l’occupazione più importante (…) era Dio stesso che glielo ordinava”) o per contatto o al semplice pensiero di quel dio agreste e gioioso che è il sor Aristeo.

Solo una storia Miguilim non riuscirà mai a narrare, nemmeno al fratellino prediletto Dito che sta morendo, la storia che più gli sta va a cuore, quella della Cuca-Pingo-de-Ouro. Pingo-de -Ouro era un vecchio cane strappato al bambino che lo amava moltissimo, al cui nome egli aggiunse dopo la separazione quello di Cuca, un essere di cui parlava con nostalgia una canzone ma che nessuno conosceva, forse l’indeterminato verso cui tende ogni metafisica nostalgia. Nostalgia di ciò che per definizione è e deve restare lontano, dell’irrecuperabile, diversa da ogni concreta nostalgia, come quella che rende insoddisfatta la madre ed è causa di tanto dolore anche negli altri, che ne sono come risucchiati (la fuga dello zio Terêz, l’omicidio di Luisaltino da parte del padre che poi si suicida…); nostalgia forse di un’irraggiungibile innocenza originaria (alla quale è connesso il problema anche diegeticamente centrale del male e della colpa), neppure essa d’altronde esente da dolore, visto che il continuo richiamo a quella degli animali ne è di rado disgiunto (gli armadilli “così grassocci, così, vivi – ed erano così solo per morire?”); o forse, meglio ancora, di una pienezza originaria che solo recupera chi sa vivere con gioia (“Miguilim, Miguilim, ti voglio insegnare quel che ora so, tanto: è che uno può restare sempre allegro, allegro, anche con tutte le cose brutte che succede che capitano. Uno deve allora poter diventare più allegro, più allegro, per dentro!”, afferma Dito morendo), come compito magari infinito: non a caso l’unico che nel libro “sa essere” è il più che umano Sor Aristeo. 

  

Nostalgia del lontano, dicevo (quel lontano nel quale il racconto stesso si svolge: “Un certo Miguilim viveva con la madre, il padre e i fratelli, lontano, assai lontano da qui”, comincia infatti il libro; ma Miguilim “non era del Mutùm. Era nato ancor più lontano”), alla quale l’irraggiungibile mare fornisce il nome che le mancava: “Allora, Mamma, mare è quello che si ha nostalgia?”

Ma Miguilim ha nostalgia anche del vicino che non riesce a cogliere, apparendo casi inetto al padre e in modo più radicale (inetto a vivere: destinato a morte precoce) a se stesso, e che solo conosce nel momento del distacco, quando a sua volta sta per diventare, o è già, lontano. E’ significativo che questo desiderio si manifesti sotto lo stesso segno della bellezza che caratterizza le storie sentite o raccontate (il Mutùm è bello?), e che non sorga in primo luogo da e per lui. E’ per la mamma, per consolarla (ancora ciò che fanno le storie) che la svagata osservazione di una giovane circa la bellezza del Mutùm viene dal bambino tesaurizzata, come un dono prezioso, e solo in seguito si trasforma in questione importante per lui. Nessuno però, come in occasione dell’inchiesta su ciò che non si deve fare, a dargli una risposta: lui ne è incapace, più che per mancanza di pietre di paragone, perché difetta di distanza: la miopia che scoprirà alla fine è quella infatti di colui che pur intuendo una frattura è ancora troppo immerso nelle cose, ne fa parte, per vederle; gli altri, o perché guardano sempre lontano, come la madre, o perché non vedono del tutto, come il padre e in genere gli adulti, accecati dalla violenza, dalle passioni e dai bisogni materiali (non mancano sfumature o parziali eccezioni, sempre riconducibili tuttavia al discorso sin qui fatto: il linguaggio incomprensibile, ma linguaggio d’amore, dell’ex schiava alcolizzata Maitiña; la serva Rosa – il nome istituisce un nesso con l’autore? – in un’occasione “capace di comprendere in mezzo alla sofferenza, ma una sofferenza che sapeva e una conoscenza che indovinava”, ecc.). 

 

Per questo Miguilim rifiuta gli adulti, nonostante sappia che un giorno dovrà diventarlo (e il libro, come ha ben visto A. Giuliani, va anche letto come un romanzo di iniziazione). Miguilim vuole vedere e capire, mentre gli adulti fanno e dicono “sempre le stesse cose secche, con quella necessità di essere violente, cose spaventate”. Vuole “essere”, ma si direbbe che semplicemente “essere” non possa o non gli basti: occorre anche la “necessità”, che non è solo “sapere”, ma sapere “perché”, ciò che in vece mancava a Dito, che pure era come se sapesse già tutto senza averlo mai dovuto imparare.

Se però Dito aveva la capacità “di sapere e di capire, senza le necessità, quanto a sé Miguilim sente una mancanza ancor più essenziale (“Dito, io certe volte sento mancanza di una cosa che non so cos’è, né di dove, e mi soffoca…”), che in apparenza lo assimila alla madre, come appunto rileva Dito, mentre in realtà ne marca la totale differenza. Ma è proprio questa mancanza che se da un lato lo spinge verso la pienezza originaria, dall’altro impedisce che venga raggiunta. Di essa Miguilim ignora le ragioni e continuerà ad ignorarle anche quando gli occhiali del dottore gli avranno mostrato la bellezza del Mutum: “perché è, dunque, perché è che accade tutto?”, chiederà ancora nel partire. Vede le cose cioè e ne gioisce, eppure la “necessità” gli fa ancora difetto, né forse la divaricazione che la mancanza e il suo segno, la nostalgia, hanno introdotto nell’“essere” potrà mai venir suturata: naturalmente Miguilim- Guimarães Rosa continuerà a percorrerla e raccontare storie sarà il suo unico mezzo per tentare di suturarla.

Guimarães Rosa sapeva che forse una sola gli sarebbe bastata, quella stessa della Cuca-Pingo-de-Ouro che Miguilim non riuscì a raccontare, e allora le accoglieva tutte sperando che tra esse ci fosse quella giusta. Ma tutte in fondo erano quella giusta (ecco perché le sentiva necessarie), dal momento che quella della Cuca, la scaturigine, non si racconta che attraverso quelle che ne derivano o addirittura non può essere mai raccontata. A meno che essa non sia proprio Miguilim e l’allegria “per dentro”, pur nel dolore, il movimento infinito della sutura.

 


 

Nessun commento:

Posta un commento