03/07/18

Diari, tacchini (pardon, taccuini) e zibaldoni. (Appunti per niente 21)



Nei confronti dei diari, taccuini di lavoro, zibaldoni, raccolte di aforismi e aneddoti, il mio atteggiamento è sempre ambivalente: da una parte non posso che apprezzare certe intuizioni o annotazioni o abbozzi che gettano una luce inaspettata su cose che credevo di conoscere o che mi mostrano aspetti assolutamente (da me) impensati sul mondo, la vita, l’arte, la scrittura e i metodi e le procedure di lavoro dei loro autori; dall’altra, prevalente, mi irrita la loro perentorietà, quel tanto di assolutezza che la loro brevità e il bianco (il vuoto) che le circonda conferiscono loro, di modo che diventano subito, ai miei occhi, sciocchezze presuntuose, ridicole. Ho sempre bisogno di storie. Se contengono almeno un grammo di racconto, o la potenzialità di uno spunto narrativo che induce a sviluppare, a seguire lungo la strada che essi sembrano tracciare, o di qualche divagazione o fantasia o riflessione, allora sì. Allora è tutta un’altra storia.
(Che sia per questo che non so prendere annotazioni senza dotarle almeno di un principio di sviluppo? Parto con l’idea di fissare un’espressione o una frase e la penna se ne va da sola per quanto e fino a dove non si sa.)

Prenderli a loro volta come serbatoi di spunti (che non sono tuoi, non nascono da tue emozioni o necessità), o di citazioni, “perle” di questo o quello (di “saggezza”), mi sembra un insulto.

Ammiro (invidio) coloro che prendono appunti sempre e su tutto; che non sprecano uno stimolo, e piuttosto lo provocano; senza contare che è prendere un appunto che a volte provoca lo stimolo, quello dell’appunto o un altro, perché spesso basta scrivere qualche parola perché le frasi vengano da sé e tu le segua fiducioso, incantato o disgustato (un po’) a seconda dei casi, e questo seguire, questo venire dopo ciò che tu stesso hai scritto, acuisce i sensi e la mente, che per un tratto se ne vanno per conto loro: producono il mondo.
Ammiro meno invece (disprezzo) chi non sa dire no, qualche volta almeno, fiducioso che prima o poi, scrivendo, qualcosa arriverà, e soprattutto chi, nonostante veda che niente arriva, solo altre parole, non solo rifiuta di gettarle via e anzi le pubblica, a caldo o, peggio ancora, a freddo, come se la scrittura, al pari della giovane amante di cui Peter Handke parla in La storia della matita (p. 14), fosse “servizievole” “anche come adultera”.


A p. 17, in finale di appunto, tra parentesi, Handke scrive:
“(ma perché scrivo qualcosa su quei due, visto che di loro non mi importa niente, né così né cosà? E non è la stessa cosa anche per me? Non voglio essere descritto, nemmeno con partecipazione.)”
come se si dovesse scrivere solo di ciò che importa (e sì, lo penso quasi sempre anch’io), mentre spesso a importare è proprio scrivere, da una parte, e dall’altra è scrivendo che qualcosa prende a importare.
E poi, che tu lo voglia o no, con o senza partecipazione, sarai comunque descritto, e il primo a farlo sarai tu stesso, proprio scrivendo.

Il bello di questi libri, si sa, è che si possono leggere a caso ad apertura di pagina quando se ne ha voglia (cosa che io faccio di rado), o anche, come io preferisco, di seguito, come se il bianco che separa gli appunti fosse anche la cucitura invisibile di una storia, o di più storie (e non solo a seconda dei lettori), che vanno comunque costruendosi, fatte già dal loro semplice susseguirsi, o anche di tutte le storie che puoi costruire tu estraendo e cucendo insieme tutti i frammenti tra i quali ti sembra di avvertire, e di fatto tu istituisci, una qualche relazione di parentela, o differenza, o rimando o negazione o analogia; ovvero che, mentre li leggi, creano da soli una qualche relazione con te, andando a scovare affinità genetiche che nemmeno sospettavi.
Avviene con quasi tutti i libri, ma con questi, se abbastanza ricchi, anche per colmare le carenze di quelli poveri, di più: trovando il filo, tirandolo (tracciandolo), è la tua storia che racconti, il tuo ritratto.
La descrizione di ciò che in quel momento sei.


1 commento:

  1. Bah, già che ho cominciato a leggere la tua tiritera... Lo sai, ti leggo sempre con piacere, ma in questo caso ho fatto una certa fatica: il pezzo non è molto chiaro (anche qualche refuso). Comunque mi interessano sempre le tue riflessioni sulla scrittura. Come fai a rifiutare gli aforismi solo perché non hanno uno spunto di racconto? Butti a mare i Pensieri di Pascal o l'Eis auton di Marco Aurelio, per non parlare di Canetti, certo Nietzche ecc? e accetti invece quel noiosisssimo sproloquio sulla letteratura che è il Mal di Montano, per carità, intelligente e colto quanto vuoi, ma quanta faraggine, quante inutilità in omaggio al racconto per il racconto! D'accordo, Handke non è mai noioso, almeno per me, ma lo sai perché? Perché evita l'egocentrismo del raccontatore, lo specchio: perché la letteratura deve contenere anche un certo disprezzo di se stessa (chiamiamola pudicizia, coscienza di ingombrare la vita di un altro che le presta attenzione: ecco cosa fa dell'aforismo un genere insostituibile, l'essenzialità, l'insostituibilità, la laconicità). Se il racconto non ha questa autocoscienza, non vale niente. Non è il caso dei tuoi.

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