04/07/21

INTERVISTA A MAURIZIO CUCCHI (09-01-1982)

 


Maurizio Cucchi è nato a Milano nel 1945, dove risiede. Lavora in campo editoriale ed è critico letterario di Il giorno e l’Unità. Collabora a varie riviste, tra le quali L’illustrazione italiana, ed è presente in tutte le più importanti antologie di poesia contemporanea. Oltre a quelli citati nel testo ha vinto anche il premio Serravalle Sesia nel 1978 ed è stato due volte finalista al Premio Viareggio.

 

Quello di Maurizio Cucchi è nel ventaglio di nomi che di solito vengono citati quando si parla della nuova poesia, forse l’unico che non manca mai, ed è significativo che non lo dimentichi nemmeno chi non lo ama particolarmente.

Sta di fatto che quando nel 1976 apparve il suo primo libro, Il disperso (premio speciale della giuria del Premio Martinafranca), in quella che probabilmente è la più prestigiosa collana di poesia italiana e cioè Lo specchio di Mondadori, non ci fu chi non ne rimanesse in qualche modo sorpreso: non solo per l’inusuale giovane età dell’autore, quanto soprattutto perché si trattava non di una raccolta di un libro di poesia, compatto e organico, originale e anomalo rispetto ad argomenti, stile e linguaggio allora dominanti.

Da allora Cucchi è rimasto un punto di riferimento costante, confermato da Le meraviglie dell’acqua (Id, 1980, Premio Carducci) , anche se la sua poesia non è riconducibile propriamente a nessun gruppo o maniera e ha scoraggiato eventuali imitatori. O forse proprio per questo. Del resto tentativi di definirla, classificarla o solo ricondurla per certi aspetti a qualche modello o ascendente, non sono mancati, alcuni condotti anche con precisione ed efficacia (e così si è parlato di linea lombarda, di tessa, Tozzi, Proust, Gadda e Céline), ma ogni volta che si riesce ad avvicinarglisi, Cucchi è già altrove.

 

Perché questi continui scarti da un lavoro all’altro, come testimoniano anche da ultimo i frammenti di Glenn contenuti in Poesia Tre di Guanda?

 

Perché ogni libro che corrisponde per un rapporto di causa-effetto, quasi, ad un momento della mia vita, è concepito come qualcosa di unitario, che ha una sua architettura che non coincide con l’ordine di composizione ma forma una struttura che cerca di rispondere a certe esigenze di equilibrio, di sviluppo dei temi e di progresso, compiuta la quale, o meglio: esaurita l’esperienza su cui si basava, era inutile continuare. Trovo noiosi e superflui quei poeti che magari scrivono cinque libri parlando sempre con la stessa pronuncia e nei quali le poesie sono intercambiabili.

 



E’ forse per questa unitarietà che a proposito di Il disperso è affiorata più volte la parola romanzo?

 

Non è assolutamente vero che io volessi fare della narrativa, semmai tutto il contrario. Cercavo di utilizzare materiali non poetici, alcuni dei quali certo di derivazione romanzesca, per uso poetico, ma non c’era nessun desiderio di raccontare delle storie: c’era piuttosto uno slittamento continuo da una situazione all’altra, così che non una storia veniva data, ma l’effetto della situazione.

 

Se si pensa nell’insieme la disseminazione dei motivi, tuttavia, una specie di narrazione può risultare.

 

Certo c’è la presenza di mille movimenti narrativi, ma non c’è mai una storia che inizia o si conclude.

Ogni poesia era una collezione di frammenti, spesse volte disparati. Una volta resomi conto cioè che era inutile tentare di prolungare un inizio efficace per continuare il discorso, ho cercato di procurarmi un meccanismo che potesse consentirmi di mettere assieme le parti disparate, apparentemente, di diversi discorsi, che in realtà erano poi lo stesso discorso perché appartenevano allo stesso circolo spazio-temporale.

 

Il soggetto che attraversa questo circolo disperdendovisi è cioè impossibilitato a ricondurre ciò che incontra a se stesso o a un ordine qualsiasi, si ha l’impressione che sia un adolescente.

 

E’ vero solo in parte, in quanto ho scritto questo libro da adulto, ma è possibile che le scoperte che andavo facendo allora comportassero un affacciare il volto sul mondo di marca, più che adolescenziale, giovanile. Il protagonista è retrocesso a una condizione di ingenuità, di sradicamento e di emarginazione, è fuori da tutti i giochi ma comunque passa in mezzo a tutti.

 

Incontra così una pluralità di voci che interferiscono l’una con l’altra, oggetti e situazioni della vita quotidiana, “storie di quartiere, di casamento, di scala” (Raboni) e tutta una proliferazione di percorsi interrotti e solitari che solo raramente, e con segno differente, ritroviamo in Le meraviglie dell’acqua, il quale muove piuttosto da una relazione e da un interlocutore privilegiati.



Semplificando si potrebbe infatti dire che l’argomento centrale di questo libro è lo svilupparsi di un rapporto, le sue problematiche e gli ostacoli che incontra. Il problema di partenza qui è quello di una abilità e esistere e quindi di una idoneità a vivere, come indica anche il titolo di una sua sezione: L’abilità dei passi. C’è l’esigenza di esserci, di avere un rapporto più calmo e equilibrato con l’altro, di riconoscere se stesso nel volto dell’altro, anche se questo è un po’ narcisistico…

 

Ma non mi pare che questa esigenza resti poi aderente alla realtà. 

 

Anzi, in certi casi c’è un atteggiamento fortemente in contrasto con la realtà: il desiderio di abilitarsi infatti porta spesso a cercare di rimuovere gli ostacoli, a fingere che non esistano per poter dire (ma forse semplifico troppo): “siamo felici”. Per esempio, tutta la sezione Stazione Paradiso, è un tentativo di rifiuto della realtà, tentativo miseramente fallito, come è ovvio che succeda o come il finale poi denuncia.

 

Ciò che non comporta tuttavia, in molti casi, un ritorno più equilibrato alla realtà.

 

Questo perché il soggetto è un imbroglione con se stesso; parte sì verso la conquista di una normalità di rapporto (il quale naturalmente è una metafora, anche se io non l’ho concepita come tale), ma poi si perde nel vaneggiamento, come si vede in una delle mie poesie preferite, Dolce fiaba. E’ il vaneggiamento, la visionarietà, l’allucinazione sono predominanti in questo libro, nei punti più suoi almeno.

 


Le meraviglie dell’acqua è stato accusato di poeticismo…

 

Il disperso veniva accusato del contrario, se è per questo; ma sono discorsi che parlano della poesia come se fosse solo un affare letterario: questo si trova già in tizio… Caio è andato più in là… Ma la “letteratura”, anche la “buona letteratura”, è una cosa che danneggia la poesia. Io la trovo insopportabile. O mi dici qualcosa che mi interessa, che riguarda la mia vita, che mi emoziona, o altrimenti… quelli che fanno degli esercizi letterari o della “buona letteratura” mi danno noia, mi asfissiano. Preferisco fare una buona passeggiata.

 

Questo disprezzo per la “letteratura” mi fa tornare alla mente un intervento in cui identificavi la poesia con la parola autentica e piena.

 

Sì, certo, la poesia è la parola che parla, che non è muta o stereotipata, che ha in sé valori autentici… è uno dei pochi antidoti all’annullamento della parola. La parola ha lo spessore di una lamina, si consuma immediatamente, mentre la parola poetica è piena, ricca di senso che si ciclica continuamente. La parola non deperibile. Basta vedere la tradizione poetica italiana, che è mirabile e ricca quanto trascurata dalla cultura becera di questi tempi, nella quale molti conoscono tutto dei nuovi filosofi, per esempio, e magari non hanno letto Guittone o Jacopone…

 

… e la poesia del nostro Ottocento, della quale tu hai curato un’antologia per Garzanti.

 

Che è stata in un certo senso una grossa scoperta per me, che fino ad allora ero rimasto spesso legato ai luoghi comuni scolastici: che si trattasse cioè, a parte alcune grandissime riuscite (delle quali tuttavia era necessario scovare ad ogni costo i difetti), di un’accozzaglia di imbecilli falliti, mentre invece non sono pochi i poeti importanti. Tanto che se qualcuno, per esempio, mi assicurasse che il mio lavoro resterà come quello di uno Zanella o di un Aleardi, al contrario di tanti io ne sarei lusingato.

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