07/06/21

Il Saturno-Cronos di Goya (un appunto)


Gli occhi spalancati, come se fosse terrorizzato da quello che sta facendo, come se si stesse rendendo conto della terribile necessità a cui è sottoposto. Per essere, deve continuare a mangiare ciò che ha creato. E questo giogo non gli viene da fuori, ma nasce da lui stesso. Lui stesso è il proprio carnefice. Il pasto cannibalico non gli dà nessuna soddisfazione, solo attonito sgomento. Questa consapevolezza è ciò che lo fa impazzire senza che gli sia possibile uscire davvero di senno. Forse lo desidererebbe; forse sogna la smemoratezza, la pace dell’ebetudine, la possibilità di distruggere come un bimbo che gioca (come a volte viene descritto il destino, il caso – cfr.), e invece non può. Le Parche, rappresentate in un’altra pittura nera (cfr. anche la posizione), alla fine raggiungeranno anche lui. “L’ordine del tempo” di Anassimandro, prevede che lui stesso sia soggetto alla propria legge. Forse a volte sogna la propria fine, la pace che concede alle sue vittime distruggendole, e non vedendola mai arrivare, non riuscendo nemmeno a immaginarla, è squassato da una folle disperazione, che lo porta a moltiplicare e accelerare le distruzioni, senza accorgersi che, nello stesso tempo da esse ricomincia il ciclo delle nascite. Un vento lo spinge alle spalle. Ambisce all’aion, ma il versante eterno dell’aion che condivide è la sua stessa condanna, perché è da sempre e per sempre in movimento, per sempre non ha né avrà requie. La quiete di un’eternità pacificata non sarà mai alla sua portata: l’eterno presente di quella, in lui è eterno scorrere, fame che si rinnova e che va soddisfatta per potersi rinnovare, senza però potersi mai saziare. L’orrore che prova chi vede la sua immagine è lo stesso che prova lui. Una volta visto, non c’è modo di dimenticarlo. Anche noi, ora, sappiamo. Per sempre. Mentre avremmo preferito ignorarlo. Inutilmente.

 Appunto preso per un articolo a due che forse non si farà mai (da eventualmente sviluppare)

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