14/06/21

GIORGIO AGAMBEN - Idea della prosa, 1985

 


Verso la fine di Il linguaggio e la morte (Einaudi, Torino, 1982), dopo aver mostrato che la “negatività è inseparabile dalla metafisica” (p. 105) e che l’Assoluto altro non è che il modo in cui la filosofia pensa il proprio fondamento negativo (p.115), fondamento muto (voce) e rigorosamente informulabile, Giorgio Agamben si chiede se non sia possibile un’esperienza della parola che non sia segnata dalla negatività e dalla morte (p. 120) e che renda veramente giustizia dell’ethos dell’uomo. (…) E’ possibile che l’essere (l’onto-teo-logica con la sua negatività) non sia all’altezza del semplice mistero dell’avere dell’uomo, della sua abitazione come della sua abitudine? E se la dimora a cui facciamo ritorno al di là dell’essere, non fosse né un luogo iperuranio né una voce, ma semplicemente le trite parole che abbiamo? (p. 118)

E’ a queste domande, tra l’altro, che con Idea della prosa Agamben cerca di rispondere attraverso i “trenta piccoli trattati di filosofia” e le due “Soglie” che lo compongono, cioè le trenta “Idee” che, interrogando o muovendo da altrettante, trite o meno trite, parole divise in tre gruppi di dieci, vertono su temi rispettivamente della tradizione poetico-letteraria, di quella politico-sociale e di quella strettamente filosofica. Se la scelta delle parole (per esempio: materia, prosa, verità, amore, potere, comunismo, pace, pensiero, linguaggio, morte, risveglio…) e la loro organizzazione nei tre campi è significativa, lo è forse ancor di più la forma che alle “idee” viene data, perché nessun “pensiero responsabile può fare a meno di interrogarsi sulla propria forma” (da un’intervista al Manifesto), anche la scelta della forma dell’esposizione deve avere un senso. Così, alla ricerca di una “prosa del pensiero”, di una “filosofia narrante”, per queste “Idee” Agamben ha scelto “forme semplici” come l’apologo, l’aforisma, la favola, l’enigma, che già agli albori della storia della filosofia tanta importanza hanno avuto (cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1978) e che hanno il pregio di non separare mai la conoscenza dal “risveglio”: esse infatti “non si propongono tanto di affermare teorie più o meno convincenti, quanto di far compiere un’esperienza, di trar fuori dall’inganno, di mostrare una via d’uscita” (cfr. l’intervista succitata).

 Uno dei problemi essenziali infatti, e Agamben lo sa benissimo se già a Infanzia e storia (Einaudi, Torino, 1978) aveva dato il sottotitolo di Saggio sulla distruzione dell’esperienza, è proprio quello della possibilità e della modalità dell’esperienza e, visto che siamo nel campo della parola, della sua trasmissione; cioè, prima ancora di quello delle cose da dire, della possibilità e delle modalità di dire ancora qualcosa nel “tempo delle cose assolutamente dicibili, del cui estremo furore nichilistico ci è dato oggi di fare esperienza” ma assolutamente dicibili solo in quanto “tutta l’esperienza umana è stata ricondotta all’ultima realtà negativa di un volere che vuole-dire nulla” (Il linguaggio e la morte, p. 115). Per questo più che enumerare le molte cose che pure Agamben dice in Idea della prosa (e che dice, va aggiunto perché non si tratta di una valutazione estrinseca, spesso in modo bellissimo), penso che valga la pena di soffermarci su questo aspetto, utilizzando soprattutto la quasi centrale Idea della musica (p. 62-65), forse non a caso una delle più lunghe.

Come mai, si chiede Agamben, “se la sensibilità è la sfinge con cui epoca deve sempre di nuovo misurarsi”, “l’inventario dei nuovi sentimenti epocali” (delle Stimmungen), a dispetto delle tante e pur valide opere scritte successivamente, si è “chiuso una volta per tutte in Europa intorno al 1930”? Che il motivo vada ricercato nella massificazione della Stimmung stessa (e “una Stimmung di massa non è più una musica registrabile: è soltanto un fracasso”), è una spiegazione plausibile, ma “insoddisfacente come tutte le spiegazioni”. “Più decisiva è la constatazione della vertiginosa perdita di autorità dell’esistenza privata e della biografia individuale”; e più decisivo ancora sarebbe riconoscere che nessuna descrizione è stata più data perché non c’è nulla da descrivere. Allora “il coraggio – di fronte al quale l’imperfetto nichilismo del nostro tempo non cessa di indietreggiare, consisterebbe, appunto, nel riconoscere che noi non abbiamo più stati d’animo, che noi siamo i primi uomini non accordati in una Stimmung, i primi uomini, per così dire, assolutamente non musicali: senza Stimmung, cioè senza vocazione”. Proprio in questo riconoscimento però “privi di epoca, stremati e senza destino, tocchiamo la soglia beata della nostra dimora non musicale nel tempo. La nostra parola ha veramente raggiunto l’inizio.”

Sì, ma quale parola? E’ una parola che viene nonostante tutto da qualche parte o ci deve bastare che semplicemente ci sia? E chi la parla? Cosa dice? E l’inizio, di cosa è concretamente inizio? Le risposte che Agamben sembra dare, in questo come in altri suoi testi recenti, confesso che non mi riescono sempre tra loro compatibili né chiare. A volte infatti il suo discorso sembra andare verso un’affermazione (che non è forse insieme una cessazione) della parola che non spiega più nulla, e solo espone, perché verrebbe a cadere nell’Inesplicabile (la Voce, il fondamento negativo) che tutte le spiegazioni (le parole?) tenterebbero di spiegare, conservandolo così intatto (p. 105-106); una parola al di là delle opposizioni che l’onto-teo-logia regge (vivente e linguaggio, natura e cultura, etica e logica), che sarebbe per l’uomo “la sua voce, così come il canto è la voce degli uccelli, il frinito è la voce del grillo e il raglio è la voce dell’asino” (cfr. Holderlin-Heidegger, in Alfabeta N. 69, febbr. 1985, p. 5). Altre volte egli identifica “la dimora a cui facciamo ritorno al di là dell’essere”, come si diceva, con le “trite parole che abbiamo”, e afferma che “stare nel linguaggio senza esservi chiamato da alcuna voce, semplicemente morire senza essere chiamati dalla morte, è, forse, l’esperienza più abissale; ma questa è precisamente, per l’uomo, anche l’esperienza più abituale, il suo ethos” (Il linguaggio e la morte, p. 120).

Si tratta in realtà della stessa risposta o se ne possono trarre prospettive differenti? Non starò a fare della gratuita ironia sulla voce degli uccelli e degli asini, perché la tensione escatologica che è già qui e ora, che anima gli scritti di Agamben, e che marca anche le “Idee” finali di ognuna delle tre sezioni del libro, è ben altrimenti sostenuta , ma mi chiedo se ciò è implicito in questa prima risposta sia veramente possibile, oltre che auspicabile. Se è appunto rinunciando per sempre ad avere una voce che sia sua come lo è il canto per gli uccelli, cioè negandola, che l’uomo è diventato tale (o tale si è condannato ad essere, se si preferisce), anche ammesso che possa recuperarla, e cioè recuperare ciò che come uomo non ha mai avuto, non finirebbe egli col negare se stesso e insieme la propria parola? Potrebbe essere una soluzione, certo, ma una soluzione che risponde solo a quella stanchezza invincibile, e che invece va vinta, tanto per l’uomo che per le parole sperperate che ci coglie sempre più spesso.

L’altra soluzione, che contempla in parte anche la prima, mi sembra invece rispondere a un’esigenza più essenziale. Si tratterebbe allora di stare nel linguaggio senza rimandare a qualcosa che lo trascende e insieme di mantenere, ma sempre nel linguaggio, la sua “originaria vocazione infantile” (p. 70), perché ciò che va salvato non è soltanto “il salvabile (i caratteri essenziali della specie), ma ciò che in ogni caso non può essere salvato, che è, anzi, già sempre perduto, che, meglio, non è mai stato posseduto come una proprietà specifica, ma che è, appunto per questo, indimenticabile: l’essere, l’illatenza del soma infantile, cui soltanto il mondo, soltanto il linguaggio è adeguato.” Formulazione, però, tanto fascinosa quanto per certi aspetti insidiosa e non del tutto afferrabile nel suo significato, che non penso possa essere identificato con ciò che dice la frase immediatamente successiva che, viceversa, apre una direzione a mio parere più proficua: “Ciò che l’idea e l’essenza vogliono salvare è il fenomeno, l’irripetibile che è stato” (p.70), “l’errante apparenza”, il sensibile non “presupposto al linguaggio e alla conoscenza, bensì esposto in essi assolutamente. L’apparenza riposta non più sull’ipotesi, ma su se stessa, la cosa non più separata dalla sua intellegibilità, ma nel medio, di quella, è l’idea, la cosa stessa” (p.91). Per questo non occorre tanto farsi una rappresentazione della vacuità, cioè mantenere il fondamento negativo nella rappresentazione, quanto “pazientemente dimorare nella vacuità della rappresentazione (…) Il relativo vacuo non è più relativo assoluto. L’immagine vuota non è più immagine di nulla. Questa pace non è silenziosa, l’immagine vuota è ancora parola: finisce solo quella rappresentazione che è “trascesa attraverso un’altra, superiore rappresentazione”, ma in compenso può prendere avvio quella che è trascesa “solo attraverso la sua la sua esibizione, il suo andare a fondo” (p. 101). Non sarà più la risposta a una Voce che chiama, sarà la fine di quella Vocazione della quale la stessa affannosa tematizzazione recente segnala chiaramente l’assenza in uno sconforto che non può fare a meno di surrogati, così come sarà la fine, peraltro già dominante nel suo versante negativo, della necessità di una legittimazione assoluta alle parole, ma sarà, e forse è già, l’apertura verso una nuova esperienza, forse non “lieta” e “beata” come Agamben sembra a volte presagire, ma certo diversa da quella che sempre fuori di sé, negandosi, doveva fondarsi.

 


(Scritto per una rivista francese, di cui non ricordo il titolo, e nemmeno so se poi è uscita davvero: ricordo solo che il direttore era un giovane che poi è diventato uno degli italianisti più importanti di Francia - l'ho trovato in varie pubblicazioni, saggi e edizioni francesi di autori nostrani -, anche se al momento mi sfugge pure il suo nome, Philippe e qualcosa mi pare...)

 

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