24/09/16

I giovani ci stanno solo provando (1986)


 
La città moderna e industriale si è sviluppata tutta sul lato destro del fiume schiacciandovi contro il centro storico, che oggi appare come dislocato e fuori mano, seppur sempre intasato di gente, uffici, monumenti e turisti. Uomini e mezzi a motore di ogni tipo ne sono attratti anche senza una ragione specifica e vi si muovono sgomenti, percorrendo strade e marciapiedi come se fossero i margini di una ferita sulla quale ci si deve affacciare proprio per poterla rimarginare distogliendone gli occhi, ed emettendo suoni nei quali non riconoscono la propria voce, ma un'altra, che pure la comprende, per quanto non la giustifichi.
Basta però attraversare un ponte e già ci si muove in un altro mondo: al di là dell'alveo largo e secco infatti, un grande parco si dirama irregolarmente attorno ad un laghetto ad esso tanto proporzionato da potersi permettere un cospicuo isolotto. Su quest'ultimo, nascosto e insieme rivelato dal verde fitto di un boschetto, si intravede, invece del solito pretenzioso padiglione, un tempio colonnato di discrete misure, forse veramente antico o più probabilmente una ricostruzione su basi e con materiali già esistenti. Due strade ripetono con qualche negligenza i bordi del laghetto: una asfaltata, per i ciclisti, le carrozzine e la pubblica manutenzione, che lancia i suoi pseudopodi in tutto il parco verso i confini invisibili; mentre l'altra, piuttosto un sentiero, è lastricata per uno scomodo passaggio, visto che l'acqua per lunghi tratti la lambisce rendendola scivolosa. Ora il sentiero è occupato quasi esclusivamente da gruppi di ragazzini che, abbandonata la strada asfaltata evidentemente troppo comoda, o viceversa troppo ingombra, gareggiano su bici da cross coinvolgendo anche i pochi che più giudiziosi pedalano in fila indiana o a coppie, chiacchierando. Sul bordo esterno dell'asfalto invece, disposti in ordine sparso e nondimeno ritualmente regolari, gruppi di panchine metalliche con la vernice scurita e talora scrostata si confondono con la vegetazione, camuffati da sua naturale appendice.


Su due di queste panchine contigue, sul lato più vicino all'isolotto, dove l'acqua è più profonda, in posizione favorevole per godere il commovente simulacro del sole ottobrino, sei vecchi parlano tra loro in dialetto. Per la verità a monopolizzare la conversazione sono in prevalenza i tre della prima panchina; gli altri stanno per lo più in silenzio, guardano qua e là svagati, e comunque con scarsa intenzione anche quando un particolare sembra attrarli, e solo ogni tanto intervengono o biascicano commenti lapidari tra loro o verso l'oratore del momento. Il più silenzioso è il quarto, un tipo alto e magro dall'aria strana, un po' stonato nella compagnia, che pure senza di lui sarebbe monca. Porta giacca e cravatta blu, un cappello grigio e occhiali non da sole con montatura verde brillante sfumata verso il basso, semitrasparente. Non pensa ai fatti suoi, non è un intruso: ascolta silenzioso e basta. Gli altri di quando in quando si voltano verso di lui, lo guardano senza peso come si fa coi famigliari, ma non lo interpellano mai direttamente. Se fosse necessario interverrebbe, e gli altri lo ascolterebbero con attenzione, ma già ogni loro parola sembra presupporre la correzione del suo possibile intervento. Così lui può fare a meno di parlare e aspetta con pazienza il momento giusto perché indispensabile, che si intuisce sempre prossimo e che quindi non ha bisogno di venire mai.
Un altro, il quinto della fila, picchia ritmicamente, – ma è un ritmo tutto suo –, il bastone per terra, si gratta e approva ogni sfumatura del discorso, che pure lo interessa in modo alquanto relativo. Ne seguirebbe con la medesima attenzione, sempre approvando, qualsiasi altro. È il più vecchio, trema. Trema con un dispendio di energie, ed anzi con una vigoria persino superiore, si direbbe, alla gesticolazione esorbitante del più vivace della compagnia che, quasi per compensazione simmetrica, è invece il terzo: un tipo tarchiato dalla pelle rubizza e porosa, con un maglione a scacchi colorati, pantaloni terra di Siena, un foulard blu e la voce rauca screziata, tutta interruzioni e cedimenti da laringectomizzato, durante i quali il suo discorso continua ancora completamente significativo pur nell'assenza di suono, con l'esemplare perfezione delle parole non dette.

Passa il tempo senza veramente passare e gente va e viene senza veramente andare e venire. I ragazzi sulle bici da cross, autentiche promesse del nuovo sport, si rivelano più giovani di quanto non sembrasse: bambini, quasi infanti; per questo proseguono la loro gara gridando sempre più forte, oppressi da un'allegria isterica. Con passo adolescenziale le mammine spingono carrozzine silenziose, ragazze scipite si fanno confidenze tenendosi a braccetto con strette eccessive, gli studenti scoprono i mondi deserti di una stessa pagina. Amici raggiungono la compagnia delle due panchine: alcuni si fermano solo per salutare, altri sostano più a lungo. Uno su una bicicletta dal cambio complicato accentra per un po' l'attenzione disquisendo, forse stimolato dal passaggio di una coppietta peraltro insignificante e tra specificazioni di cui nessuno sente la necessità, da vero intenditore, sulle differenze non a tutti evidenti tra le donne di settant'anni, per le quali valga l'esempio classico di sua moglie che strappa un sospiro di compianto a quanti la conoscono, e quelle di trenta, alle quali accorda invece la sua entusiastica preferenza, certo spropositata. Un particolare riferimento merita sua nuora: stupenda. Ancora non capisce come abbia fatto quel cretino integrale di suo figlio ad accoppiarla. È una preferenza, quella per le trentenni, che una volta tanto si sentono tutti di condividere in pieno, nonostante le differenze individuali quanto a certe motivazioni che però nessuno ritiene opportuno approfondire. Solo il quinto, sorprendentemente, non è d'accordo! Lui preferisce le sedicenni, e anche meno se fosse possibile. Per quanto...
Un altro, approfittando di un'interruzione provocata dalle urla ormai disarticolate dei ciclocrossisti sempre più compresi della loro missione riporta il discorso su binari a suo parere, ma soltanto suo, meno accademici, riprendendo non si sa per quale ispirazione un argomento già avviato in precedenza da quelli della prima panchina, lui assente: la boxe. La nobile arte! La sua caratteristica principale è che parla in italiano, fluido e persino forbito a momenti, ma stonato nel contesto. Gli altri. Gli altri, con naturalezza e senza intenzioni polemiche, ripetono in dialetto i punti salienti del loro interrotto dibattito a proposito di un argentino e di un venezuelano, tale Figueroa o Quiroga, non è ben chiaro. Uno dei due ha trentatré anni, l'età del Signore, mica pochi per un pugile, specie se è passato professionista molto giovane e ha molto combattuto come usano da quelle parti, spinti dalla fame: quale dei due, questo è il problema.
Li distoglie dall'intricata controversia la sfilata di alcuni ragazzotti vestiti in fogge inconsuete, coi capelli colorati e spettinati ad arte e il viso sporco e pitturato a mascherare la loro età: straccioni; poi lo sfrecciare di due bambini in vena di speciali arditezze a filo d'acqua. Uno della compagnia (il primo, che spicca per i blue jeans nuovissimi con la piega inamidata e gli stivaletti marrone a punta, da cow boy) quasi controvoglia si alza per rimproverarli: c'è il rischio, se cadono in un laghetto, che anneghino. Mica esagera. Dove sono le madri? Mettono al mondo i figli e se ne fregano, ed ecco il risultato. Seguono commenti sui bambini e sulla gioventù in genere, ma di sfuggita, meccanicamente: urge tornare alla boxe, argomento molto più interessante.
Ognuno dice la sua e tutti la dicono contemporaneamente, in un crescendo di confusione che però non preoccupa nessuno. Discutono sulla decadenza del pugilato italiano, trionfo della poltroneria e della chiacchiera, ballerine prive di attributi contrabbandate per tecnici sopraffini, e su quali siano gli incontri migliori. Sono quelli tra pugili piccoli, è ovvio: quelli sì che picchiano accidenti! Mai che tirino il fiato, sempre all'attacco, impavidi, velenosi! Dai superwelter in su, invece, con qualche eccezione per pochi pesi medi, è tutta una lagna. I massimi poi, meglio lasciarli perdere quelli, sono solo bestioni foderati di ciccia lenti e noiosi che sparacchiano un paio di pugni a round e già sono stanchi. Questo non si discute. Nessuno li può vedere, i massimi. Li odiano addirittura. A parte Cassius Clay, naturalmente.
Nel frattempo, dall'altra parte del laghetto, uno degli acrobati delle due ruote cade davvero in acqua. I suoi amici e avversari si fermano e lo stanno a guardare silenziosi senza muovere un dito, tra sorpresi e ammirati. Poi, quando già il caduto non si vede più, sprofondato, cominciano uno alla volta a tuffarsi seguendone l'esempio, col repentino cambiamento di chi scopre finalmente la sua vera vocazione; poi in tre o quattro contemporaneamente, alcuni prendendo addirittura la rincorsa con la bici. Nessuno torna a riva, ma la loro scomparsa non impedisce che anche tutti gli altri bambini, e tutte le ragazze a braccetto ora più luminose, e le coppiette, gli studenti col libro in mano, i giovani sgargianti e le mammine con le carrozzine che affollano le due strade attorno al laghetto e tutto il parco li imitino con rincorse sempre più lunghe e salti di rara efficacia, anche dal punto di vista spettacolare, ciascuno secondo le proprie forze senza esitazioni.
 È un mosca, un altro venezuelano, quello su cui converge ora il gruppo delle panchine sempre più assorto nella raffica delle rievocazioni, uno che conta poco però, una meteora: il suo posto infatti viene subito rilevato da un messicano, lui pure un mosca ma campione del mondo lui, che ha rifilato un tremendo KO a un giapponese tarchiato. Quello sì che è stato un vero KO, da antologia: sembrava morto. Eh sì quello se lo ricordano tutti, impossibile dimenticarlo. Un coreano invece è morto per davvero. E un colombiano, un argentino, un paio di neri americani, persino un neoprofessionista siciliano, uno proprio al primo incontro. Il coreano non l'avrebbe detto nessuno che sarebbe morto, aveva combattuto fino al gong chiudendo in piedi un incontro che secondo alcuni aveva forse persino vinto, un incontro bellissimo, tirato allo spasimo, di quelli che si vedono sempre più raramente, ormai. Peccato che sia finito male... Càpita.












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