16/09/16

Due coche



Angela mi chiede se vado a prenderle una coca. Le dico di aspettare cinque minuti che sto finendo di leggere un racconto, il primo che mi piaccia veramente del libro che ho iniziato ieri sera. Suona il telefono: è per lei. Io finisco di leggere, le chiedo se una lattina le basta. Due è meglio, mi risponde. Prendo un sacchetto di cellophane dallo sgabuzzino per non tenere in mano le lattine, che di sicuro saranno gelide. Metto il cappotto e esco.
Fuori non fa freddo, la sera è limpida, senza vento. Passato il cancello, mi trovo davanti il prato che costeggia la strada e mi sembra più grande del solito. Sarà il buio, le luci dei lampioni o quelle sullo sfondo: non so, fatto sta che mi pare più grande e più bello, con gli alberi che ne delimitano tre lati, scuri ma tutti perfettamente distinguibili. Sul prato si diffonde, sfumando, la luce dei lampioni che costeggiano la strada dalla parte delle case. Villette, in genere, a parte il mio condominio. La strada è vuota, la roggia alla mia destra è asciutta. L’auto della vicina è ferma davanti al suo cancello, spenta, ma coi lampeggianti accesi. Il loro pulsare silenzioso mi fa percepire il silenzio che emana il mio quartiere. Da alcune finestre viene una luce che non sembra servire a nessuno: nessuno si vede nelle stanze, non una voce arriva sulla strada, neanche quella della televisione. Le luci se ne stanno lì, per conto loro, buone buone. Mi rispettano, accompagnano discrete i miei passi, e io gli sono grato. Mi volto verso il prato, nella luce che sfuma guardo le erbe più vicine, cercando di distinguerne i colori: verde scuro? nero? rosso smorto? ocra spento? Non ci riesco. Dietro invece è tutto buio, gli alberi sono neri; nero è il profilo dell’unica casa che vedo alle loro spalle; anche il cielo sopra di loro è scuro. Di uno scuro più luminoso però.
In fondo alla via, davanti a me, c’è la cascina al cui angolo è situato il ristorante, con barettino annesso. I tavolini alla sua destra sono vuoti: non è più stagione. Davanti ci sono due enormi pioppi i cui tronchi si sono ormai fusi alla base, tanto da sembrare un’unica pianta con due grandi diramazioni che formano una gigantesca, bellissima chioma le cui foglie residue, grazie alle luci della strada e del ristorante, posso distinguere ad una ad una. Le luci dei lampioni sono di un giallo intenso, innaturale; quella del ristorante è bianca. Le macchine parcheggiate davanti alla cascina sono tutte in ombra, nere.
Entro nel bar, chiedo due lattine di coca. Il proprietario le mette sul banco, io prendo dal portafoglio centomila lire e chiedo se ha da cambiare. Sì, ma non ha nessun sacchetto per le lattine. Non importa, l’ho portato io. Metto una mano in tasca, estraggo il sacchetto e quando lo apro scopro che sono due, sottili, uno infilato nell’altro. Ho esagerato, come sempre, senza accorgermene. Mentre ne rimetto uno in tasca, un signore da un tavolo mi saluta. Rispondo con piacere, poi intasco il resto, metto le lattine nel sacchetto, infilo la mano nel buco dei manici e poi in tasca, lasciando che il sacchetto penzoli e mi batta contro la coscia, e esco.
La strada è ancora deserta, ma ora la vedo nella direzione opposta. Sulla mia destra, ai bordi del prato, due coppie di ciliegi distanti un centinaio di metri l’una dall’altra, anch’essi con molte foglie residue e vizze. Mi sembrano diversi dal solito, poi mi accorgo che non c’è più la recinzione a proteggerli: ecco perché il prato mi era sembrato più grande. Guardo anche il prato in modo diverso. In fondo, a destra, gli stessi alberi di prima, ma alle loro spalle, lontano, ora vedo le luci di alcuni caseggiati che si stagliano sulla linea mossa ma netta della riva destra del fiume, più alta di quella del mio paese, a un paio di chilometri di distanza. L’aria è pulita, il cielo è senza stelle, molto alto.  Se ci sono nubi non le vedo, e comunque non contano.
Sono le 18,30 del 2 novembre 1997. Sto bene, anche se prima, all’andata, guardandomi attorno e poi fissando i pioppi, nel fare la stessa constatazione ho pensato: e io devo morire. Senza amarezza però. Solo con un pizzico di rimpianto, come è comprensibile, ma senza strascichi. Quietamente. Alla mia sinistra i fari dell’auto della vicina continuano a lampeggiare in silenzio e per nessuno. Guardo il fosso e poi l’erba sulle rive. Raggiungo la curva che conduce al cancelletto del mio condominio, aperto come sempre. Davanti ci sono auto parcheggiate su entrambi i lati della strada. In una, la ragazza del quinto piano sta al buio con un amico. Ne sento uscire una musica sommessa, poi delle risate.
Angela mi sta aspettando e fa scorrere la serratura mentre io sto girando la chiave nella porta. La saluto e metto il sacchetto sul tavolo della cucina. Lei estrae una lattina e parla della telefonata appena finita. Dico qualcosa anch’io. Ci sorridiamo. Poi lei si versa la coca e io mi dirigo verso lo studio. Apro la porta, la richiudo subito per non fare uscire il fumo, accendo la lampada, mi siedo al tavolo e scrivo.

3 commenti:

  1. Scrivi come un osservatore attento che riflette su ciò che vede. Credo che faresti la gioia di un cieco se tu traducessi nella scrittura per non vedenti i tuoi racconti di questa tipologia. Ciao Valerio

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    2. Sai Valerio, ho letto il racconto molti anni fa a Prato e tra i presenti c'era anche una donna cieca, che mi ha detto proprio che le era sembrato di vedere e sentire tutto, e di essere accanto a me lungo tutto il percorso. Proprio come hai detto tu! Grazie. Ti abbracio, Luigi

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