24/09/19

Episodi della vita dell’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto (l'ultimo è inedito)



1
C’è questo signore sui 45-50’anni di media statura, il corpo snello, i capelli castani, i lineamenti regolari, che stranamente incontro solo quando non c’è nessuno in giro, almeno che io ricordi, e che vedo da lontano venire verso di me con un passo regolare, un po’ meccanico, gli occhi spalancati fissi su qualche punto lontanissimo davanti a lui, o dentro, tanto chiuso in se stesso da far dubitare che abbia mai visto davvero qualcosa, e quindi nemmeno me, quando mi incrocia, e che pure, se sono io a guardarlo, alza di scatto l’avambraccio destro, come spinto da una molla, tenendolo addossato al corpo, il palmo della mano in avanti, le dita serrate le une contro le altre, chinando impercettibilmente la testa (a meno che non sia una proiezione mia), senza espressione, ma come chi si arrende, a cosa o chi non si sa, e poi prosegue con lo stesso ritmo, allontanandosi senza una parola. Altre volte invece mi passa accanto e se ne va con quella sua andatura monotona, il corpo rigido, non dando segno di aver nemmeno notato la mia sagoma, lo spostamento d’aria prodotto dal passaggio, l’ombra che il mattino proietta su di lui, come se io fossi un fantasma. E anche meno. Niente.
Nessun gesto, nessuna occhiata, nessun cenno, nemmeno l’abbozzo di un saluto, una sillaba, un sibilo, l’eco del respiro. Eppure già a scorgerlo da lontano un po’ mi inquieto, lo sento, in modo vago, minaccioso, non per qualche violenza che venga da lui, ammesso che ne sia capace, e che se ne accorgerebbe quand’anche la esercitasse, ma da me, da qualche punto che da grandi lontananze (eppure accosto, appena dietro una parete fragilissima) si risveglia al suo apparire e che, per quanto io cerchi di rassicurarmi, mi fa paura. Una paura che mi avvelena ogni fibra e mi fa vergogna.
Mi sento chiamato in causa senza appello, sollecitato dall’assenza di sguardo, più ancora che come mi capita con i ciechi, perché qui gli occhi hanno la potenzialità di vedere, vedono senza vedere, vedono senza vedersi vedere, non vedono ciò che guardano. Non: vedono ma non guardano, bensì: né vedono né guardano, sono spalancati sull’abisso del vedere, del puro vedere senza soggetto né oggetto. Quello in cui potremmo cadere da un momento all’altro, e forse in cui sempre siamo.



2
Ieri mattina quando ho incontrato l’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto stava maneggiando per prendere una sigaretta direttamente dal pacchetto senza toglierlo dalla tasca. Alla fine c’è riuscito, proprio mentre ero giunto quasi alla sua altezza, tanto che ha rimediato al ritardo del saluto estraendo la mano in tutta fretta e alzando il braccio con uno scatto ancora più rapido e secco del solito con la sigaretta spenta tra le dita rigide, quasi stritolandola, ma nel farlo qualcosa gli è caduto di tasca senza che lui se ne accorgesse. Sorpreso dalla manovra, ho risposto al suo saluto con un buongiorno più sonoro del solito e solo un attimo più tardi mi sono accorto del pezzo di carta che svolazzava verso la polvere dello sterrato. Nel frattempo lui mi aveva già superato e io ho evitato di farglielo notare, con la scusa di non interrompere la sua andatura veloce e meccanica per qualcosa che certo non aveva importanza, un fazzoletto sporco o cose del genere (a volte mi tratto da anima bella), ma di fatto già pensando di lasciarlo allontanare fino a dopo la prossima curva per tornare io a raccoglierlo e vedere cos’era, nella speranza inconfessata neppure a me stesso di scoprire qualcosa su di lui. (E’ quando faccio il cinico che cerca di illudere il se stesso ingenuo, che sono davvero un’anima bella fino al midollo: il midollo dell’anima). L’idea, mentre mi chinavo a raccoglierlo e lo mettevo in tasca con un gesto furtivo che ora mi fa un po’ ridere (il 20 %) e per il resto mi imbarazza profondamente, era che avrei potuto restituirlo oggi o domani, o lasciarlo dopo avergli dato un’occhiata sul ciglio della strada dove era caduto.
Si trattava di un foglio a quadretti piegato in quattro con un margine un po’ slabbrato come se fosse stato strappato da un quaderno, riempito di sui due lati da una scrittura minuta e piuttosto fitta, che non rispetta le righe ma tende a fare una curva verso l’alto dalla metà in poi come se chi scriveva fosse in una postura scomoda, di lato, o il piano di appoggio fosse irregolare, ma tutto sommato leggibile, a parte alcuni brevi passaggi dove l’inchiostro non ha fatto bene presa o è stato sciolto in qualche macchia, di unto o altra materia che non intendo indagare.
C’è scritto questo:

C’è quest’uomo anziano, con gli occhiali e un cappellaccio in testa d’estate e d’inverso (diversi per materiale e colore, ma simili) che incrocio spesso sulla via sterrata lungo il naviglio o nel tratto asfaltato successivo, verso Groppello: io che salgo, lui che scende, mai il contrario. Cammina con passo spedito, a volte con gli auricolari o che maneggia il cellulare, altre con un libro in mano, che si affretta a chiudere quando mi vede da lontano, mettendolo in tasca o tenendolo nella sinistra quasi incollata alla coscia, come se questo bastasse a nasconderlo. Altre invece è così assorbito nella lettura che mi vede solo all’ultimo momento, come capita anche a me, che in questi casi lo saluto alzando di scatto l’avambraccio senza proferire sillaba, al che di solito lui risponde con un cenno della testa o, più raramente, con un buongiorno. Non è che io saluti tutti in questo modo, ma mi è capitato di farlo con lui un paio delle prime volte che ci siamo incrociati, forse sovrappensiero o per qualche maneggio in cui ero impegnato, e poi ho ripetuto il gesto ogni volta perché mi è parso di capire, da un lampo strano nei suoi occhi, che lo gradisse. Vai a capire perché. Forse gli piace questo saluto veloce e silenzioso perché non disturba la sua lettura, quella che continua nella sua mente anche a libro momentaneamente chiuso, o i suoi pensieri. Mi guarda quasi di sfuggita, come se mi vedesse sui margini del suo mondo pronti a inghiottirmi e dimenticarmi in un attimo, e saluta anche lui in modo veloce per tornare appena può alle sue occupazioni. E’ uno che immagina cose, temo… Temo che gli piaccia.
Se non legge, cammina con la testa china di chi esplora il terreno, più che dell’uomo depresso. Magari lo è pure, ma chi può dirlo? Oppure basta pensare per essere depressi? Non so. Allora lui è insieme depresso e attento, depresso e svagato, depresso e curioso, perché qualche volta che l’ho osservato in questi frangenti, mentre era intento, mi è parso che alzasse e muovesse la testa a guardare di là dal canale alla sua sinistra, verso gli alberi e le ville dell’alta riva, o giù verso la boscaglia e, sotto, il fiume alla sua destra, o in altro verso il cielo, le nubi, la luna, nei mattini che è visibile a ovest.
E’ in genere ben vestito, non certo con eleganza da occasioni ufficiali ma sempre un po’ al di sopra di quello che ci si aspetterebbe da uno che va a passeggio, mai in tenuta sportiva comunque, a parte i bermuda nelle giornate più calde, di discreta qualità comunque e accompagnati da camiciole di lino o da belle magliette polo dai colori ben combinati. E’ sempre ben rasato, con i capelli più bianchi che grigi tagliati corti, da quel che ho notato le rare volte che era senza cappello, e, come si suol dire, dimostra un po’ meno degli anni che ha o dovrebbe avere, che sono, o dovrebbero essere, un po’ di più di quelli che dimostra. Quanti di preciso non saprei. Sopra i sessanta ad ogni buon conto. Nonostante questo decoro esteriore che di solito è caratteristico di uomini che abitano con una donna che li tiene sotto controllo, o per una lunga consuetudine di vita, per dovere professionale (ha l’aria di essere un impiegato o piccolo funzionario in pensione), mi dà l’idea di essere un uomo solo. Totalmente, irrimediabilmente solo; e non tanto perché non l’ho mai visto in compagnia (qualche volta fermo a scambiare qualche breve battuta con qualcuno sì, però), ma per la sua postura complessiva, per come si muove: non nel modo spontaneo, funzionale, e quindi bello, o quasi, di chi si muove come è opportuno farlo in relazione a ciò che sta facendo, ma come per dare l’impressione, anche quando non c’è in giro nessuno che lo veda, o che lui veda che lo sta vedendo, di essere solido, felice (o press’a poco), sicuro e soddisfatto di sé.
Anch’io passeggio sempre da solo, ma lo faccio per respirare, per prendere una pausa da tutta la compagnia che mi sta addosso giorno e notte, che apprezzo e anzi amo tantissimo, ma che rischia di togliermi quel po’ di autonomia a cui mi sono assuefatto fin dalla giovinezza. Lui invece credo che non abbia di questi bisogni. L’unica pausa a cui forse ambirebbe è quella da se stesso, di cui però sono certo che va orgoglioso. O che almeno sbandiera in tal senso, tanto che alla lunga probabilmente se ne è convinto lui stesso. Interrogato direbbe che meno gente ha attorno, meglio sta; che stare solo gli piace. Con tutto che, quando l’ho visto parlare, mi è sembrato gradevole e gentile. Ma a sembrarlo sono capaci tutti. Meglio che non fare nemmeno finta, in ogni caso. Un amico che una volta gli ha chiesto come mai camminasse sempre a capo chino, anche quando non leggeva, che peso gravasse sulle spalle o nella testa, ha risposto: “Niente, sto solo controllando la strada per non inciampare. Guardo i sassi, gli esseri viventi nell’erba, nell’acqua o sui muriccioli. Ho le spalle un po’ curve sin da piccolo. Me lo diceva sempre mio papà (che da vecchio era diventato quasi gobbo)...” 
Sarà, ma io qualche sospetto lo nutro. Per esem-”.


La scrittura sul verso del foglio finisce con questo mozzicone di parole. Forse c’è un altro foglio su cui continua, forse il signore che saluta alzando l’avambraccio di scatto si è stancato di scrivere o ha perso interesse per l’argomento. Non mi sento di biasimarlo.
“Proprio così”, ho pensato di scrivere io nella riga sotto, di quadretti tagliati a metà, con la mia scrittura altrettanto minuta, dopo avere a fatica decifrato questo presunto, inaffidabilissimo mio ritratto, perché è di me che si tratta, non c'è dubbio. Ma poi ho deciso di limitarmi a riportare il foglio dove era caduto, in modo che fosse visibile ma non esibito, come è consuetudine con le chiavi o altri oggetti trovati per terra, che vengono appesi in bella vista a un ramo o appoggiati su un paracarro o a una colonnina del guardrail. Ci sono andato un po’ più presto del solito per non incontrarlo, poi ho fatto un lungo giro su un percorso diverso e quando sono passato di nuovo di lì il foglio c’era più. Forse l’ha preso lui; forse un altro dei rari passanti su quello sterrato; forse è volato via. Forse non è vero niente. A parte il vago senso di amarezza che mi sfarfalla tra i lobi frontali e l’esofago, che potrebbe però derivare da tutt’altro e non mi abbandona.

3
Era tanto che non incontravo l’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto. Oggi non l’ha fatto. Quando l’ho visto da lontano che mi veniva incontro, mi sono come preparato a un cenno di saluto. Un sorriso no, sarebbe stato troppo; nemmeno una parola a voce alta, un saluto esplicito, convenzionale. Sono sempre imbarazzato quando l’incontro, ho paura di infrangere in modo violento, per lui, anche se per altri potrebbe essere impercettibile, la membrana protettiva che lo avvolge e separa dal resto del mondo, e così mi regolo di volta in volta, sperando di non sbagliare. Oggi mi è uscito una specie di buongiorno appena sussurrato, più un borborigmo che una dizione scandita chiaramente forse, ma comprensibile a chiunque ascoltasse, decifrabile come saluto, quanto meno, ma lui non ha mostrato di avvertirlo. Né di avvertire me, peraltro, la mia presenza, che gli era quasi di fronte e tra un attimo gli sarebbe passata accanto. I suoi occhi sono rimasti fissi davanti a sé senza il minimo scarto verso di me o qualunque altra persona o cosa vicina, spalancati con una tensione che a me sarebbe parsa dolorosa e a lui invece chissà. Le braccia ondeggiavano un po’ rigide, come le gambe, mentre i piedi pestavano il suolo con più forza del necessario, ritmati, come a riprodurre, o a produrre, un ritmo solo suo, che in qualche modo lo appagava, o che viceversa scaricava a terra per esserne meno squassato.


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