05/05/22

Una prosa tranquilla

Sembra una prosa tranquilla, distaccata, governata sapientemente, con ironia, sovrana, nel mentre viene ad essere svolgendosi come un nastro sotto gli occhi sorpresi, e persino meravigliati, di colui che scrive e si guarda lasciandosi scrivere quasi che la scrittura sia autonoma, indipendente da lui, come sempre in gran parte è; e invece è percorsa, la prosa dico, da una sottile, invisibile quanto intensa, inquietudine, da incertezze quasi mai palesate, da sussulti e scarti in ogni direzione, ma tutti e sempre orizzontali, mai verticali. E’ un continuo susseguirsi, un trapasso, un dimenticare l’appena scritto o un negarlo, non esplicitamente, ma tramite la semplice successione, la banale contiguità e alterità di ogni nuova frase, delle parole che una dopo l’altra vengono a disporsi sul foglio, che si affacciano alla mente o mettono in moto, senza poterla arrestare, la voce.
Sappiamo tutti che è così sempre, quando si scrive davvero, quando non ci si limita, o ci si illude di limitarsi, a “comunicare” o a esporre il già pensato, l’acquisito, il consolidato (ma anche lì, poi…), salvo alla fine cercare di dare una specie di logica, di costruire – come per difesa contro l’informe, contro il formicolio frenetico dell’incertezza, lo sgretolarsi inarrestabile di ogni stabilità –, un’armatura di coerenza, di disegnare un filo, imbastire una forma, con rattoppi e rammendi a posteriori, spostamenti, montaggi, tagli e riempitivi, come se il vuoto potesse essere colmato da noi stessi, mentre chi può farlo, semmai, è solo un altro, chi legge, e anche lui solo per un po’, con tutte le incertezze del caso, nel timore di sfumare egli stesso, e di svanire. Come se questa non fosse la cosa migliore che può capitare. 

 

(Quella che cerca chi scrive, del resto. E che, mentre scrive e finché scrive, a volte trova.)

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