11/01/22

Commemorazione di Aldo Zargani


In questi giorni di infinito sconforto, in cui il mondo appare coperto da un coltre grigia di polvere e cenere e ogni cosa perde valore, ogni gesto si fa pesante, ogni parola inutile, e si affievolisce la forza anche solo di abbozzare qualsiasi azione, che appare inutile e insensata, vorrei ricordare, di Aldo, la vitalità, la passione e la gioia presenti in ogni suoi gesto, anche nei momenti più duri, nei ricordi più tristi, anche quando l’esperienza e il mondo lo hanno condotto a quel suo peculiare scetticismo, saggio e ironico, e spesso persino comico, qualità che sono state evidenziate in modo acuto e commovente da coloro che mi hanno preceduto.

Quanto a me, vorrei solo accennare, qui, alla cosa che più mi ha colpito, di Aldo, fin da subito: la sua vitalità e la peculiarità della sua meraviglia, che sono forse la stessa cosa. Vorrei ricordare l’importanza che assegnava spontaneamente agli altri. Sono qualità che apparivano subito evidenti a chiunque lo conosceva o lo abbia incontrato anche solo in un’occasione, e che innervavano tutti i suoi scritti, anche i più tardi, quelli scritti negli ultimi anni per varie testate e soprattutto per noi di doppiozero, che qui in parte pubblichiamo come piccolo omaggio per i nostri lettori e tutti gli amici sconosciuti.

È impossibile prescindere dal fatto che Aldo era ebreo; eppure vorrei provarci e considerare Aldo “solo” come uomo, che è qualcosa di più di un ebreo, e insieme, lo sappiamo tutti, qualcosa di meno. Qualcosa che a me, solo uomo, non ebreo, per esempio, manca e che perciò cerco sempre in quanto l’ebraismo (il libro e la sua molteplice tradizione, la storia, le tragedie, la cultura, la letteratura...) mi offre per essere meno incompleto.

E se provo a pensare a questa cosa impossibile, a Aldo “solo” come uomo, penso a un giovane che a 87 anni era ancora lì, e anzi più lì che mai, a interrogarsi sul mondo, la realtà, i loro fondamenti e misteri, con le conoscenze che aveva acquisito nel tempo e non si stancava di accrescere, di rivedere e risistemare, con la saggezza scettica e bonaria che lo contraddistingueva da adulto e insieme con l’intatto stupore, con l’infinita apertura alla meraviglia del bambino che non aveva mai cessato di essere. L’ultimo testo che ho ricevuto da lui, ancora inedito, lo conferma fin dal titolo La conoscenza imperfetta, ovvero il dente del pre-giudizio, e ancora più esplicitamente dall’inizio: con la mamma che, entusiasta, con un’arancia e una candela spiega il sistema solare al piccolo Aldo seienne. Nel 1939. Alla vigilia della guerra, e a leggi razziali già imperversanti. E subito dopo, a guerra iniziata con le raccomandazioni di come comportarsi sotto i bombardamenti, da parte del papà. Due momenti della sua prima infanzia serena che fortunatamente ha poi lasciato una traccia permanente nella sua personalità e la tonalità di fondo di gran parte di ciò che ha scritto, a partire da quel capolavoro che è il romanzo Per violino solo o da quell’altro capolavoro che è il racconto “Profumo di lago”, pubblicato prima come ebook da doppiozero e poi inserito in In bilico.

E direi che una delle caratteristiche di Aldo era proprio la compresenza, l’inscindibilità di questi due aspetti, meraviglia e distacco, entusiasmo e saggezza scettica. Lo è di molti artisti, si dirà. Vero, ma ciascuno ha il suo modo e quello di Aldo era riconoscibilissimo.

Non si tratta nel suo caso di una meraviglia incantata, pacifica, espressione di una pura innocenza che forse non è mai data a nessuno, ma di uno stato dell’essere sempre in tensione con l’altro da sé, a volte con il suo opposto (incanto e delusione, bellezza e stortura, dolorosa sorpresa, come quella del bambino che, per le famigerate leggi razziali del 1938, si trova da un giorno all’altro discriminato mentre nulla all’apparenza è mutato tutt’attorno) senza però lasciarsene mai sovrastare, e men che meno cancellare: oscurato sì, a momenti, ma mai in via definitiva, come la luce durante le eclissi.

Penso per esempio al bellissimo racconto “Dies irae”, quando alla visione dei documentari della Combat film sui lager e sulle impiccagioni dei criminali nazisti, il ragazzino viene preso da immensa “ira e stupore”: “E ciò avvenne per l’unica volta nella mia vita, perché l’ira e lo stupore mi hanno saziato per sempre nella lontana estate di quando avevo 12 anni”, aggiungeva Aldo; ma il lettore non ci crede, perché, se non l’ira, almeno la capacità di stupore che si riscontra in molte sue pagine non era ascrivibile solo al bambino di allora, ma veniva dritta dritta dall’adulto che scriveva: non era il ricordo del passato, erano il presente del ricordare, e la sua qualità, la sua grana, che cambia di chimica e intensità da individuo a individuo. Ricordare non basta.

E tutto questo, mi sembra, era la conseguenza del fatto che per Aldo, che aveva fatto del testimoniare, o, come diceva lui, dell’“attestare” uno dei pilastri della sua vita, tener viva la memoria era sempre, o quasi, anche parlare dell’infanzia: non tanto non recidere il legame, quanto tener viva l’emozione di quel momento della vita, l’indissolubile intreccio della gioia della scoperta del mondo e dell’affetto ricevuto, con l’altra scoperta, che pure induce stupore, quella della morte e più ancora quella del male, inspiegabile e indicibile, ma sui cui bisogna sempre tornare per provare a spiegarlo e a dirlo, senza chiudersi al presente e al futuro (la profezia del futuro), pur andando incontro a sconfitte e delusioni, ma mai tali da comportare rinuncia e chiusura a sé e agli altri. Basta un colpo d’ala dell’immaginazione, la deviazione dalla norma che la mette in gioco e fa sorridere, l’infinita vitalità che è accettazione della vita e voglia di cambiarla, che Aldo possedeva in quantità inesauribile.

Le sue parole, come tutto quanto ha scritto, erano permeate da una grande saggezza, come da un radicale scetticismo e anche dall’ironia che dalla saggezza derivano, che però non impedivano la gioia, e il suo riso divertito, né, con paradosso solo apparente, una lucida speranza che non nasceva solo dalla volontà ma anche da una vocazione inscalfibile alla felicità. Era come se la maturità non fosse stata conquistata da Aldo liberandosi dall’infanzia ma restandovi radicato e conservandola in sé come la propria onnipresente, inesauribile e sempre attuale, risorsa: come qualcosa che non è mai acquisito una volta per tutte, quindi, ma è sempre da conquistare e rinnovare.

Ho conosciuto Aldo prima nelle sue opere e poi come persona. E se spesso l’incontro con la persona di un autore che ami è deludente, non così è stato con lui. Qui l’ho ricordato anche a partire dalle opere, perché se un uomo resta a lungo nella memoria di chi ha l’ha conosciuto e gli ha vissuto accanto, come la moglie Elena, che non riesco a pensare separata da lui – come un’unica entità platonica una volta tanto felicemente ricostituita –, per uno scrittore sono le sue opere a incidere e rinnovare la memoria ogni volta che qualcuno legge o rilegge ciò che ha scritto. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo come l’uno e l’altro, ha avuto quella supplementare di constatare quanto coincidessero e si rafforzassero a vicenda. La presenza dell’una rende meno intollerabile l’assenza dell’altra. Ma questa, inutile negarlo, resta, e noi la conserviamo come un tesoro. Addio Aldo. 

 

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