12/03/20

Giovanni Bellini, La Madonna di Alzano


La Madonna di Alzano di Giovanni Bellini è uno dei capolavori dell’Accademia Carrara di Bergamo, che è uno dei Musei di città minori più belli e ricchi d’Italia. Il dipinto vi è giunto grazie alla donazione che il grande esperto e collezionista Giovanni Morelli ha fatto della propria Raccolta alla fine dell’800. Ma bergamasco il dipinto lo è da sempre. È accertato infatti che sia stato commissionato al pittore da Alessio Agliardi, che l’ha poi lasciato a sua figlia Lucrezia, da vedova divenuta badessa delle Carmelitane ad Albino, per passare poi, con una sosta secolare su un altare a Alzano, da cui il suo nome, per le mani di alcuni religiosi e collezionisti fino a Morelli. L’opera era conosciuta e amata anche dai fedeli, tanto che anche il grande Giovan Battista Moroni ne ha fatto una bella copia, cambiando lo sfondo, come forse di sua mano è un'altra replica sua contemporanea.


Tra le numerosissime Madonne belliniane, questa è senza dubbio una delle più alte, come il volto di Maria è a mio parere uno dei più belli tra quelli dipinti dal grande veneziano, e dunque di tutta la storia della pittura.

Maria è vicinissima come lo può essere una donna e una donna-madre, e misteriosa, non solo per i suoi mirabili lineamenti, il suo contegno, la postura, i gesti accennati, ma soprattutto come lo è la maternità, l’essere madre, e madre Dio, come un dio è ogni figlio per ogni madre. Per un uomo, per me, affascinante, nel senso originale del termine, e incomprensibile. Fuori portata forse non dell’immaginazione, che è poca cosa, ma del sentimento incarnato, che è tutto, forse non solo in questo contesto.


Anche la Madonna Lochis, sempre alla Carrara, o quella della Presentazione di Gesù al tempio della Fondazione Querini Stampalia, o la Madonna greca di Brera sono bellissime, ma io preferisco questa. Quella di Brera è meravigliosa, con quel suo sguardo irrimediabilmente triste, per quanto composto, trattenuto; ma in quella di Alzano persino la tristezza è superata, lo sguardo va lontano, all’interno però, verso un luogo dove ogni emozione si deposita e resta, senza tradirsi in alcun modo. Non chiede com-passione, non reclama e nemmeno suggerisce nulla, e proprio per questo chi guarda è indotto, e si direbbe obbligato, a proiettare su di essa tutte le emozioni che la venerazione e l’amore (e anche la seduzione) possono suscitare, nel tentativo di colmare l’infinita distanza che proprio dalla prossimità  che sembra promessa, favorita e dischiusa dal taglio a close-up delle figure – dalla prossimità visiva cioè, e della partecipazione a uno spazio comune accentuato dalla luce dei quadri belliniani, che più che colpire le cose e i corpi, come dice Hans Belting, li circonda delicatamente – mentre viene assolutamente preclusa, proiettata in uno spazio non attraversabile, dalla postura della Donna e da quel suo sguardo che lo ignora. Inaccessibile come lo è il segreto di ciascuno, spesso persino a lui stesso; come lo è il dolore. La stessa concezione di Bellini dell’immagine, come dice ancora Belting sia pure a proposito di un altro quadro, “come luogo estetico [contribuisce a] allontana[re] la realtà rappresentata” dallo spettatore.   

Se cioè la scelta di Bellini di dipingere la Madonna a mezza figura, quasi una sua invenzione, è per portare la Vergine in presenza, come una persona nei ritratti (e difatti Ritratto mariano era considerato questo genere di opere), o come una visione, dall’altro la separazione resta. È la stessa funzione che viene affidata al parapetto marmoreo (che come è noto richiama la pietra sepolcrale e il sacrificio di Cristo, marcato ancor di più nel nostro caso dal colore rosso del marmo e dalla pera che vi è posata, allusione al peccato e alla necessità del sacrificio salvifico di Cristo, e della Madre quindi come nuova Eva), che introduce e separa: è la soglia che permette al fedele il contatto con il mondo del sacro ma anche lo tiene al suo esterno. Egli può solo guardare, provare compassione, pentirsi, pregare, adorare, ma non accedervi, se non mediante il salto della fede. Lo spazio che apre è quello della visione, che è visione della coppia sacra, ma anche della pittura, della bellezza dell’opera, perché a Venezia i quadri, inclusi quelli di devozione, erano anche oggetto da collezione ormai, visti con sguardo da amatore forse più che da credente. Allo stesso modo la firma che sul parapetto è apposta è segno della fede dell’autore, ma anche attestato della sua individualità e del suo valore di artista. Nella Madonna di Alzano la prevalenza della funzione di separazione è segnalata anche dal fatto che il bambino non giace sulla pietra né vi sta ritto sopra, magari sporgendo il piede come a entrare nello spazio del fedele come in altre varianti, e che entrambe le figure stanno nettamente oltre la soglia, per quanto avvolte dalla stessa luce del paesaggio alle loro spalle, che sembra il nostro ma non lo è, e richiama piuttosto un ideale arcadico, pacifico, dove gli uomini attendono serenamente alle proprie occupazioni, come in un sogno bucolico, in un paradiso recuperato, o da attingere.

Tra le due figure in primo piano non sembra quasi esserci interazione, né la Madre né il figlio indulgono a qualche gesto reciproco, la scena è immobile, contemplativa, come lo sguardo rivolto verso l’alto del Bambin. Nessun aneddoto, nessuna emozione sembra trasparire, anche se questo non si traduce in una rappresentazione ieratica, monumentale. I corpi si stagliano in volumetrie nette, ma, oltre al panneggio morbido del manto e alla carne soffice del Bambino che evidenziano le pieghe delle cosce e le fossette sulle manine, il colore impedisce ogni rigidità, li soffonde dell’aura di corpi vivi, per quanto immobili. Nessuna scenetta tra loro, nessun gesto esplicito, nessun indizio di presagio, nessuna smanceria così come nessun dramma.

Mentre in molte versioni tra la Madonna e il Bambino non c‘è grande contatto (Julia Kristeva arriva a dire che prevale “la distanza, se non l’ostilità”, la separazione e nessun “accesso diretto”), qui la Madre tiene il figlio sulle ginocchia, le mani non solo lo sostengono, ma la destra gli tocca delicatamente il petto, quasi lo accarezza, anche se gli sguardi non si incontrano. E forse nemmeno si cercano. Almeno in questa circostanza. Il bimbo guarda in l’alto, ma non è rivolto verso la madre; mentre lo sguardo di Maria sembra rivolto verso il basso, con le palpebre un po’ socchiuse, ma non verso il figlio. Il suo sguardo sembra non avere nessun oggetto concreto, è pensoso, serio, quasi grave, ma la sua direzione è interiore. Non malinconico, o forse appena un po’; la compostezza sembra non tradire emozioni, e piuttosto trattenerle, e non certo per celarle a uno sguardo esterno, per dissimularle, quanto perché l’esterno è escluso, e quindi anche qualsiasi forma indiretta di comunicazione con lo spettatore (il fedele); la distanza, che in altri quadri era quella fisica dal bambino, qui sembra verso tutto e tutti, quasi da configurare il gesto materno che, con quelle bellissime mani che mi hanno fatto ricordare le parole dell’Angelo dell’“Annunciazione” di Rike (Tu non sei più vicina a Dio / di noi: siamo lontani / tutti. Ma tu hai stupende/ benedette le mani. / Nascono chiare a te dal manto, / luminoso contorno: Io sono la la rugiada, il giorno, / ma, tu sei la pianta) trattiene e tocca il Bambino con un che di tenero, ma automatico: di automaticamente tenero, quello di un corpo che non dimentica mai di amare il Figlio anche quando non sembra lui l’oggetto diretto dei pensieri. Sollecitudine, forse, più che tenerezza, quanto meno nel momento qui rappresentato; che però, in quanto rappresentato, e rappresentato nel modo dell’icona, dell’immagine di devozione, non è parte di un continuum esistenziale e psicologico ma momento assoluto, che studiosi e teologi inseriranno nella serialità delle tipologie, ma qui, per chi guarda, è a sé stante, attuale, senza tempo.

Il Bambino è seduto sulla coscia sinistra rialzata della madre, e pure lui ha uno sguardo meditativo, forse estatico, come se fosse rivolto al Padre più che alla Madre, contemplando il destino che gli è riservato, con lo sguardo al cielo che rivolgerà sulla croce nel pronunciare le sue ultime parole, quelle dell’angoscia e del senso di abbandono. Il bellissimo piedino sinistro piegato a cercare un appoggio più saldo, come una memoria del corpo che non rinuncia a se stesso anche quando pare messo tra parentesi, pare richiamare questi momenti, perché è dipinto in quella posizione per ovviare allo squilibrio causato dalla gambina messa in diagonale per nascondere e insieme, proprio in questo modo, indicare il sesso, che in molte altre opere simili è invece esibito, a segnalare l’umanità, e quindi la mortalità di Cristo, come ha mostrato Leo Steinberg nel suo capolavoro La sessualità di Cristo.


Intanto lei, con quel suo purissimo ovale, il lungo collo, non piegato verso il bambino nel gesto della tenerezza, ma ritto, quasi teso nella meditazione, o nella fantasia, continua a cercare di sondare l’inconoscibile, pur percependolo e vivendolo come tale e sapendo che tale sempre resterà, eppure non potendo sottrarvisi, perché l’ha portato prima in sé e ora lo regge sulle ginocchia. Quell’inconoscibile a cui, davanti a lei e al quadro, non possiamo sottrarci nemmeno noi, calamitati dall’ombra scura che proietta, simile a quella sul drappo d’onore alle spalle di Maria, chiamati a cercare di comprenderlo, di farlo nostro, sempre più esclusi, quanto più faticosamente riusciamo a inoltrarci in esso, abbagliati dal suo buio, eppure in qualche modo illuminati, appagati.



Nota di lettura

Rona Goffen, Giovanni Bellini, Motta editore, 1990.

Hans Belting, Giovanni Bellini. La pietà, Panini editore, 1996

Julia Kristeva, “Maternité selon Giovanni Bellini”, in Polylogue, Seuil, 1977, p. 409-435

Massimo Cacciari, Generare Dio, Il mulino, 2017

Federico Zeri e Francesco Rossi, La raccolta Morelli nell’Accademia Carrara, Credito bergamasco, 1986

Marco Lucco e Giovanni Carlo Federico Villa (a cura di), Giovanni Bellini, Silvana Editoriale, 2008

Otto Pächt, La pittura veneziana del Quattrocento, Bollati Boringhieri, 2005

Rainer Maria Rilke, Poesie, trad. it. Giaime Pintor, Einaudi, 1970



08/03/20

L’iscpezzione! (Ovvero: L’ultima speranza di rivoluzione in mano alla guardia di finanza! Sia lode!)



Che a me se vanno in giro a fare i controlli, mi fa solo piacere. E quindi ieri sera, quando è arrivata la squadra al completo, li ho accolti tutti a braccia aperte, che oltretutto ho una bella apertura e ci stanno in parecchi, anche se un po’ di spavento me lo sono presa lo stesso, sul momento. Perché più che entrare, hanno fatto irruzione, e si sono distribuiti così rapidi nei posti strategici che se volevano fare un massacro senza lasciare superstiti, non ci sarebbe stata nessuna differenza. Tanto che io ho guardato se qualcuno aveva un’arma in mano o nascosta sotto il cappotto come nei film, e sono raggelata, già che ho la tendenza a sentir freddo di mio, perché sicuro che dei clienti nessuno era armato o avrebbe reagito, men che meno io. Che, senza essere fifona, ho una predisposizione innata per la pace, anche se poi, se qualcosa mi importa, non mi tiro certo indietro a sostenere le mie ragioni. Sempre in modo lecito, sia chiaro. Fino ai bordi, magari, ma rigorosamente dentro.
Due si sono messi alle porte e hanno sbarrato e sigillato tutto ancora prima che si capisse cosa stava succedendo. Uno grosso come un orango si è piazzato davanti a quella d’ingresso, che bastavano le sue spalle a occuparla tutta, mentre il secondo ispettore, o subordinato, o scagnozzo, o impiegato, vattelapesca…. si è precipitato a quella della cucina e traccagnotto com’era, e con la panza anzi, ha rovesciato al passaggio una padella con il manico che sporgeva e un vassoio con tagliata, rucola e patate al forno, ma mica s’è fermato, altro che chiedere scusa! Effetti collaterali del dovere. Infine un terzo è corso alle toilette a controllare che non succedesse niente di losco e nessuno se la desse a gambe attraverso la finestrella schermata sotto il soffitto, dato l’alto numero di contorsionisti e artisti del digiuno tra i nostri avventori abituali, senza contare i puri spiriti. Che un paio ce ne sono, non dico per vantarmi.
Io ero al banco, con il libro aperto accanto alla cassa per non perdere neanche un secondo non appena si presentava una pausa. Sono sempre indietro con gli impegni e le scadenze, a cominciare da quelle immaginarie. E’ che ho accumulato ritardo fin dall’inizio, ormai irrecuperabile, mi sembra. E’ il mio peccato originale: giusto per non essere da meno di tutti. Per essere umana. ‘nzomma… Davanti a me si son piazzati invece i due che comandavano, un uomo e una donna. E’ l’epoca della parità. Lui era  alto e secco, con l’aria ascetica che si addice al ruolo, anche se poi magari il grasso ce l’ha immagazzinato chissà dove, che so? in Svizzera, presso qualche parente, che uno almeno lo abbiamo tutti anche lì, da emigranti che siamo sempre stati; la donna invece una rotondetta di mezza età, ma con la cera di chi sta male ma non lo vuol dare a vedere e proprio per questo lo rivela ogni minuto di più, di un colore sul bianco-viola da far spavento, che anche l’età ci scapitava, tanto che uno pensava subito alla zona menopausa e magari aveva solo 37 anni, quindi addirittura meno della mezza età, e poco più della mia, che pure, sia detto per inciso, sembravo sua figlia, con i cromosomi del padre però…
Beh, vengono lì al banco e mi chiedono chi comanda qui e io, anche se non è proprio esatto, gli ho risposto che ero io. Perché insomma, mi tocca fare più o meno tutto io una sera sì e l’altra pure, con al massimo l’aiuto del ragazzo in cucina il weekend e della mia amica Vanessa che ogni tanto viene a trovarmi e porta il vino ai tavoli tanto per fare due chiacchiere con la sottoscritta e bere un buon bicchiere o due (o tre) in compagnia, gratis ovvio, essendo che per i due padroni, o forse uno solo ora (si sono lasciati qualche mese fa), questo è un guadagno accessorio e hanno ben altre attività da curare, e soprattutto ben altra voglia di divertirsi, la sera, visto che se lo possono permettere eccome! Che per togliersi anche questo fastidio, mi hanno persino proposto di diventare socia a una cifra più che ragionevole, visto che ormai la baracca è quasi tutta sulle mie spalle, ma io no che no!, gli ho detto, perché certo avrei da guadagnare niente male rispetto alle mie entrate attuali, come pure a quelle presumibili a breve e medio termine, ma poi dovrei stare occupata giorno e notte, quasi, e io la vita non la voglio inscatolare qui per quattro soldi in più, trovarmi con i piedi nel cemento e i sogni sigillati. Per dire…
Facciamo che sono io, gli dico allora; benvenuti! L’uomo mi guarda storto, che si figura che lo prendo in giro, che è l’ultima cosa che vorrei, specie in queste circostanze che se hanno voglia di rognare non ci mettono niente a fregarti, come quelli dell’ASL prima che arrivi il titolare A a parlarci di persona. Il titolare A (il B, o l’ex B un po’ meno) ha doti retoriche che io me le sogno, con tutto che sono dottoranda in filosofia. La pertica manda la donna, che allora è una vice, alla faccia della parità, tra i tavoli, assieme a un altro con una faccia, lui, così normale che prima non mi ero nemmeno accorta che c’era, a controllare gli scontrini e le ricevute di quelli che avevano appena finito e si apprestavano a partire, mentre ora sono prigionieri e una con un cappotto firmatissimo grida che quello è un sequestro di persona bello e buono e domani la fa lei la denuncia, nonostante il suo accompagnatore la supplichi sottovoce di darsi una calmata che poi lo viene a sapere il marito. Controllano i numeri degli scontrini, la corrispondenza delle cifre con i piatti e i bicchieri sui tavoli, fanno una loro aritmetica, tutta a mente!, tabelle e grafici inclusi, e chiedono di esibire un pezzo di carta anche a chi è appena arrivato o ha intenzione di consumare altro in aggiunta a quello che ha davanti a sé. Vogliono lo scontrino preventivo. Fanno il conto congetturale, per dirla con Borges. Intanto lui viene dietro il banco e mi fa aprire la cassa. E’ distaccato ma gentile. Piego la testa di lato e sgrano gli occhi, che di solito funziona coi maschi, ma lui non se ne accorge nemmeno. Con permesso!, mi fa. Prego! Fruga dentro e sotto e accanto, conta i soldi, sequestra il rullo, fa due mucchietti con le ricevute delle carte di credito e del bancomat, esamina le copie delle fatture, conta gli avventori, i bicchieri e i piatti sui tavoli, li somma a quelli nei lavelli, anche quello della cucina che si vende anche da qui che è vuoto, e al contenuto della lavastoviglie, che però, purtroppo, è sprovvista di contatore.
Io sono tranquilla, uno perché faccio sempre le cose in regola e due perché, come già detto, non è roba mia. Anche se ci tengo, sia chiaro, non solo perché sono amica del capo A ma soprattutto perché ho una mia coscienza. E pure tosta! Mi offro persino di dare una mano come posso, ma lui mi intima di stare quieta e tante grazie. Colgo l’occasione per esercitare il mio versante contemplativo, e mi accomodo sullo sgabello con il libro in mano, prima che mi sequestri anche quello, che tra l’altro è della biblioteca di anglistica. Prima lo scrolla e esamina ben bene però. Non sia mai che c’è qualche messaggio cifrato, documenti scottanti nei risvolti, tanto più che è scritto in modo incomprensibile.
Dopo un po’ arriva la donna a fare un primo resoconto. Ha una faccia che ho paura che mi schiatti da un momento all’altro e allora sì che sarebbero grane!, per cui le chiedo se desidera una camomilla. Non posso!, ribatte subito lei, irrigidendosi come un palo. Eh, mica rischio l’ergastolo per una corruzione da camomilla, dico io senza far pesare la mia ironia. Sono delicata, io. E poi la donna mi fa davvero pena. Sono preoccupata… mi identifico. Mi prende il virus dell’empatia, altro che distacco professionale! Via, le dico, se proprio, me la paga, con regolare scontrino. Il bifolco chilometrico finge di non aver sentito: credo che sia il massimo della sensibilità che gli è concesso. Sul lavoro perlomeno. A casa è di sicuro un giuggiolone! Sono tutti cosi. Sanno piangere.
Subito dopo però, va in cucina a dare una mano a quello che aveva fatto il guaio lì dentro. Non so se l’ha fatto apposta, ma io ho apprezzato. Senza aspettare la risposta, scendo dallo sgabello e vado alla macchina a preparare l’infuso. Ne ho proprio di buoni! Metto la tazzina sul bancone e accanto la teiera, poi torno a sedermi, voltata anch’io dall’altra parte per evitarle l’imbarazzo. Gentilezza chiama gentilezza. Che se poi lei non la tocca, la bevo io. Come faccio ogni sera, peraltro. A me la camomilla mi calma, ma mi tiene anche sveglia. A qualcuno fa questo effetto. Pochi, ma ci sono. Non lo pubblicizzano però, altrimenti molti non berrebbero più il tè o il caffè. E allora addio commercio!

Gennaio 2012. Grazie Anna!

 

20/02/20

Ricordi di copertura 16 - Péder sadól. Il mondo non mi ha deluso.





- Ero semplice, credulone, senza sospetto, dice. Non mi sfiorava nemmeno l’idea che qualcuno potesse ingannarmi, mentire. Le parole non solo dicevano: erano la verità. Avevo fiducia in tutto e in tutti. E così, in fondo, sono rimasto. Il mondo non mi ha deluso.
"Ta sét an Péder sadól", gli diceva con infinito affetto sua mamma, sorridendo, e quasi compiacendosi. "Non sarai mai furbo". Ed è vero, aggiunge, malizioso a volte sì, ironico anche, furbo mai. E forse è meglio così.
Il furbo vive nel sospetto, non è mai tranquillo. Si sente sempre minacciato, assediato da tranelli, da pericoli che deve sempre rintuzzare prevenendoli, da un senso di inferiorità e di debolezza che deve in continuazione ribaltare in forza, in raggiro e sopraffazione, sempre insicuro, mai tranquillo, mai in pace. Accumula vittorie, sempre parziali, mai godute, definitive. E’ abilissimo nella tattica, nullo nella strategia.”
- Non che l’ingenuo sia un grande stratega, dico io. E’ anche lui assediato, costretto a combattere, o a arginare gli assalti.”
 - Sì, risponde. Viene trascinato sul pendio del peggio, ma il candore di fondo che permane, un po’ lo salva. Sa passare sopra. Dimenticare.
- Voglio crederlo, faccio io. Anzi, poiché di certo non mi vuoi mentire, ci credo.

*
Péder sadól (Pietro sazio, sempliciotto, boccalone, ingenuo) 

Posso dirlo? 3 (Kafka non era un insetto)



Non sono giovane e quindi non posso scrivere con vera cognizione di causa, dall'interno, usando un narratore giovane (di oggi, intendo; non il giovane che sono stato: quello l'ho dimenticato pure io, a buona ragione immagino); non sono donna e quindi non posso mettermi a far parlare una donna di problemi delle donne, che povere ne hanno tanti ma tanti; non sono disoccupato e quindi con che diritto prenderei la parola in sua vece?; non sono un africano, né un siriano, e neanche un islandese o un calmucco, e quindi, prima che si offendano, mi affretto a cancellarli dalla lista dei potenziali protagonisti di un mio racconto o, peggio, romanzo; ecc.; non sono nemmeno, cosa che potrebbe essere interessante, un cavallo o un invertebrato (oddio, questo magari un po'...); neanche un pesce, che forse, quanto a lui, non avrebbe nulla da ridire, se parlasse: ma non parla e si fa i fatti suoi; non essendo che un pensionato statale bergamasco con scarsa o nulla vita sociale e zero ambizioni (troppo vigliacco per coltivarle) e poche o nessuna esperienza o idea rilevante, forse mettermi a parlare almeno di questo non sarebbe arrogante, ma a chi interesserebbe? a nessuno, a me per primo. Quindi taccio. Non usurpo. Non invado. Tergiverso. Scrivo post su qualche insulso social e blog. E trovo chi mi legge!

10/02/20

Lo scrittore emiliano



C’è questo autore emiliano che a volte, se va bene, si diverte a prendere nomi e fisionomie differenti, un po’ almeno, e per esempio una volta è secco affilato, un’altra piccolo e rotondo, un’altra ancora sul trasandato, di media statura, anzi piuttosto tarchiato, le spalle larghe e la pancia, i capelli sporchi e qualche macchia di unto sul pullover stinto e l’occhio un po’ lucido perché gli piace mangiare e bere, anche se questo può darsi che me lo confondo, questo dev’essere uno zio che se n’era andato per conto suo da tutt’altra parte e che si chiamava Giorgio, ... non so... insomma c’è questo scrittore emiliano che ha tanti nomi, e uno anche inventato più degli altri, perché anche l’invenzione, il falso, ha le sue gradazioni, uno che scrive tanti libri di vario genere, che però, gira gira, sono tutti capitoli, o tomi, di una stessa enciclopedia che si avvicina sempre, tendenzialmente, alla realtà ma poi, quando è lì lì per aderirvi, rimbalza, scarta, fa dietrofront, e se ne va via, sale quanto più si era accostata al suolo, e viceversa. Insomma, non sta.
Poi è normale che ogni nome cerca di darsi una coerenza, dei temi che sarebbero più suoi che degli altri, solo suoi no, solo suoi è impossibile, per lui come per tutti, facendo finta di prendere sul serio questa storia dell’unicità, dell’individualità che si desume, si evince anche dalla differenza dei nomi, ma son tutte balle, fantasime, fa parte della pantomima, giusto per far colpo sulle ragazze, tanto più quanto meno sono oche, per divertire di più la gente, che lo stesso o la stessa si annoia subito, vuole il cambiamento, purché anche un bel po’ simile, e invece loro son tutti proprio lo stesso: lo stesso-stesso.
E allora parlare, per esempio, di loro, cioè dei loro (suoi) libri, quale più quale meno, diventa, più che difficile, risibile. E poiché io, sarò scemo ma il senso del ridicolo un po’ ce l’ho, allora non lo faccio. Ma poi, poiché scemo lo sono davvero, e mi piacciono le cose difficili, quelle da pestarci contro il muso, poi rimbalzo, torno indietro anch’io, e ci provo.
E la prima cosa è evitare il giochetto di mimarlo, di aggiungere una variante, di piegare il discorso a quel tono, a quei vezzi, cioè di sbertucciarli, che sarebbe peggio, anche se la parodia, come diceva un polacco, può essere un ottimo modo per imparare a liberarsi dalla forma, o a liberare la forma, che è lo stesso: uno, perché io sono bergamasco, mica emiliano, non ho quella leggerezza, quella fantasia, ho i piedi per terra e sono grezzo, piuttosto chiuso che aperto, uno che sta sulle sue e fa piuttosto un passo indietro che incontro al prossimo; e due perché, a farlo facile, come viene facile di farlo, dato che c’è l’origine scimmiesca di mezzo, sarebbe solo un giochetto retorico, e se c’è una cosa che uno impara, o vede confermata se aveva l’idea già di suo, è che queste voci in cui si diffrange l’autore emiliano, soprattutto, mi pare, quello che si fa chiamare N., ma anche quelli che si fanno chiamare B. e C., è che tutto il dispendio stilistico messo in atto per costruire una voce che sembri parlata, naturale, cioè artefatta, e quindi non retorica, è appunto per smontare, mettere a nudo, in ridicolo, perché uno nudo è un po’ ridicolo lo è sempre, chiedere alle donne non ormonalmente coinvolte per verificarlo, per mettere in ridicolo tutta la retorica, appunto, quella del voler far credere ciò che non si sa, del dare per vero ciò che nemmeno si sa se è falso; anzi: che è falso senza dubbio... e secondo me il vero nome di questo autore dovrebbe essere (è) Pi., il quale, furbissimo, ha inventato che tutti questi autori che sono un solo autore emiliano, hanno invece inventato lui e gli stanno costruendo, finché non se ne stancheranno, perché prima o poi avverrà anche questo, vita opere e miracoli, anche se nessuno l’ha mai viso, mentre invece è lui che sguinzaglia in giro questi buontemponi e li dota del capitale cospicuo di opere individuali, tutte loro, ciascuno le sue, per potersene stare da solo, lui, in santa pace, da qualche parte, a ridere. O a non ridere, senza per questo piangere. A fare quel che gli pare insomma.

Che poi qualcuno si faccia carico di questi nomi e vada in giro a rappresentarli, uno per nome, o a volte uno per più nomi, o vari per lo stesso nome che tanto la gente mica si ricorda tutto bene e se si confonde tanto meglio, non c’è nemmeno da stupirsi... che si prenda la pena delle opere che hanno il nome in questione sulla copertina e viaggi  su differenti rotte stagionali, a volte anche pagato, per diffonderle ai quattro angoli del mondo rotondo, a spiegarle per filo e per segno, che poi però quando sono lì si rifiutano, si fanno pregare, perché spiegare poi, al fatto, loro proprio no, cosa vuoi spiegare un’opera?, un’opera parla da sé o tace, e l’autore è il meno indicato a farlo, per quanto loro, essendo finti autori, potrebbero, e perciò, poiché è brava gente, qualcosa finisce che lo dicono lo stesso, magari per far ridere, che a ridere uno dimentica il resto, il succo delle cose, sembra, e fanno pubbliche letture e addirittura, che è il colmo dei colmi, ma anche commovente in un certo senso, le continuano scrivendone alcune proprie, che si vede subito che non sono della stessa pasta, ma poi, si sa, il tempo, la distanza, il fatto che di guardar bene nessuno ha mai voglia, finiscono per assomigliare, per prendere l’aria di famiglia e così entrare davvero a far parte dell’originaria e originale, senza che nessuno si lamenti, men che meno l’autore emiliano stesso. E neanche il lettore, a dir la verità.