Il
saggio è il territorio d'elezione degli spaesati, sia nello spazio fisico che
in quello mentale (ammesso e non concesso che sia possibile distinguerli
chiaramente), è un modo per cercare di orientarsi, di (ri)conoscere le cose e
di crearsi una geografia, di segnare un percorso e abbozzare una mappa man mano
che si procede, mentre ci si sposta, perché fermi non si può stare (basta la
testa che si piega, la pupilla che tremola), una mappa diversa per ogni modo di
spostarsi, perché un conto è camminare, un altro correre o volare. Il modo stesso
di spostarsi deve quindi farne parte (assieme all'atto dello scrivere), e se
non essere direttamente tematizzato, almeno tenuto sempre in considerazione,
mai dimenticato, anche quando relegato
tra le quinte o, al momento, per un po', in cantina, taciuto.
È
un modo per accostarsi alle cose, cioè per dirle, perché esse sono solo in
quanto "cose dette", e non descritte: ovvero descritte non per un
postulato o una finalità mimetico-realistica, ma, come diceva già Peter Handke negli anni
'60, in quanto "un mezzo per giungere alla riflessione". Meglio
ancora, come mi pare che P. H. abbia fatto più tardi (e come la penso io): è la
descrizione stessa che deve essere anche (o già) riflessione. E non tanto
perché ragiona su ciò che descrive, ma perché la riflessione è già nel modo di
descrivere, nella sua forma stessa. Nelle scelte che sono state fatte e che
hanno come presupposto tutte quelle che sono state rifiutate, quelle cioè che
nel pretendere di mostrare una cosa che è una cosa, ne mostravano solo la forma
già consolidata e condivisa, e cioè la nascondevano.
Il
saggio (ma in genere ogni scrittura) è allora, o dovrebbe essere, un itinerario
di avvicinamento e di delineazione delle cose e del mondo, del modo di
percepirle e di pensarle, e insieme del soggetto che andando loro incontro si dà
una forma, momentaneamente, nel mezzo del linguaggio e in lotta con esso.
Utinam!
(Si naviga al buio, tra scarsi barlumi.)
(Si naviga al buio, tra scarsi barlumi.)
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