Negli ultimi anni l'attenzione critica
per Peter Handke si è concentrata soprattutto sulle sue discutibilissime prese
di posizione filo-serbe sul sanguinoso smembramento dell'ex-Jugoslavia e poi
sui processi dell'Aia. Molti vecchi titoli importanti in libreria non si
trovano e le ristampe sono diminuite, anche se qualcosa sembra muoversi
ultimamente. Le traduzioni continuano però a un ritmo abbastanza regolare: il
che significa che, a dispetto della corposa diminuzione delle recensioni, un
suo pubblico lo scrittore austriaco di origini slovene continua ad averlo. E
meno male. L'attenzione è risvegliata anche dai premi (Premio Kafka, 2008;
Premio Ibsen, 2014), oltre che dal risorgere delle polemiche, che non sempre però
centrano il bersaglio (forse perché è troppo facile, ciò che esime
dall'approfondire e analizzare anche il ventaglio delle motivazioni, non tutte
così scandalose, che Handke si è fatto premura di dispiegare; anche se la
pubblicazione dei suoi dialoghi con Milosevic che ne sposano in toto le tesi ha
suscitato un comprensibile sgomento, per non dire nausea, in primo luogo già
nei serbi democratici attuali).
Le ultime traduzioni, dopo l'importante
La notte della Morava (2008, trad.
it. 2012) che in un certo senso si riallaccia al fondamentale Il mio anno nella baia di nessuno (1994,
trad. it. 1996), sono rispettivamente di un libro di sogni (Un anno parlato di notte) e del Saggio sul luogo tranquillo, che segna
il ritorno a uno dei generi in cui a mio parere Handke ha raggiunto alcuni dei
suoi risultati più felici: un saggio: qui sulle toilettes, o bagni, o gabinetti
o cessi che dir si voglia (termini che l'autore non usa, perché è il luogo che
gli interessa più che la funzione; e, penso, per non calcare la mano ancor di
più sulla provocazione di averlo scelto a oggetto di un libro, anche se lo
spazio che gli dà Tanizaki nel suo bellissimo Libro d'ombra, qui citato, è molto ampio).
Prenderò spunto da quest'ultimo volumetto
per parlare anche degli altri libri affini e per cercare di capire come
funziona nello scrittore austriaco il saggio, che gli ha dato l'occasione di
scrivere alcuni dei suoi libri che personalmente reputo più riusciti, o
quantomeno che mi interessano e amo di più. Trasporto che non sempre provo per
i suoi romanzi, nonostante le numerose pagine altissime che da sole
basterebbero a giustificarne la lettura integrale. Handke stesso afferma in una
intervista recente: "Io sono un pensatore dell'istantaneo: solo questo.
Narrare non mi interessa, i miei intrecci sono mascherati, sepolti; preferisco
realizzare, nel senso in cui lo intendeva Cézanne".
Anche in Un anno parlato di notte i sogni non appaiono come tali, come
storie o frammenti di storie, ma solo sotto forma di frasi o segmenti isolati,
per quanto strutturati in un modo molto originale e con una scansione che ne
accentua le potenzialità evocative e l'intensità. Che è un modo come un altro
per non raccontarli, però. Proprio perché le storie gli sembrano consumate, marce,
Handke ha sempre cercato di evitarne i tranelli sperimentando molti generi e tecniche
(libri di appunti, diari, sogni, anche opere teatrali pochissimo drammatiche –
nel senso dell'azione –, forme "poetiche" in versi e in prosa con
intenzioni epiche ecc.), ma da nessuna parte vi è riuscito, a mio parere, come
con i saggi, che peraltro gli hanno poi permesso di recuperare la narrazione
affidandole un ruolo importante ma non più preminente. Del resto sono la forma
stessa del saggio, la sua storia e la sua vocazione, a favorire questa (controllatissima)
deriva sperimentale, e al contempo a richiedere una struttura e un lavoro sul
linguaggio che lo scampi dalla "lingua da fuchi di un'età di latta",
dal suo "tanfo di banalità", che non rinuncino alla trasmissione,
cioè alla comunicazione, e a un legame, sia pure disgiuntivo o oppositivo, con
la tradizione. Legame che Handke, dopo le "provocazioni"
avanguardistiche giovanili, ha voluto ben presto ripristinare, sia pure in modi
innovativi, gli unici in cui esso può essere tenuto vivo. Anche se poi, alla lunga, basta tornarci dopo brevi o
lunghe assenze, con il carico di oblio ma anche di conoscenze e esperienze maturate
nel frattempo, perché questi modi si impongano quasi da sé. **
Torniamo per un momento ai sogni e alla
narrazione. Quando i sogni compaiono nelle sue altre opere, Handke non si
diffonde in descrizioni e nemmeno accenna alle emozioni che hanno suscitato, ma
si limita a enumerare azioni o segmenti di discorsi, di dialoghi o pensieri, semplici
enunciati, in brevi frasi autonome, disposti l’una di seguito all’altra senza
alcun nesso al di là della regolarità della spaziatura che le separa (Saggio sul Juke-box, 24).
Anche in Un anno parlato di notte, che di sogni è tutto composto, non li
racconta ma lascia che siano essi, o ciò che ne rimane, a presentarsi alla
parola e (così) a parlare. Il problema della connessione, centrale (Handke lo
dice in vari luoghi, in particolare in Intervista
sulla scrittura, passim), è scavalcato, non esiste nemmeno; per quanto poi la
costruzione del libro, con la regolarità delle sue griglie e le cadenze che ne
derivano, finisca per istituire forme sottili di connessione attraverso i
vuoti, le peculiarità delle singole sequenze, le somiglianze, i richiami e i dialoghi
interni che la loro stessa coesistenza implica e permette.
Di fatto non si tratta nemmeno di
sogni, e nemmeno di frammenti o semplici immagini: ogni segmento, ma forse
sarebbe meglio dire ogni paragrafo, e il piccolo gruppo di 3 o 4 paragrafi tipograficamente
separati da cui in genere è costituita ogni pagina, è il precipitato
linguistico di un sogno. Forse. Perché che venga da un sogno o no, non cambia
nulla: quello che si dà è l'enunciato, o la breve serie di enunciati, che
potrebbero provenire da chissà dove, poiché al lettore si offrono solo nella
loro natura linguistica. E' certo possibile speculare sulla loro origine e da
lì risalire a una teoria del dire, e soprattutto del dire poetico, come fa per
esempio, e benissimo, Flavio Ermini nella sua postfazione al volume, ma al
lettore, a me, non è questo che appare. Né il sogno né le sue tracce mnestiche,
e meno ancora una loro eventuale interpretazione, importano: ciò che importa è
solo la forma linguistica che assumono e che lo scrittore conferisce loro *** o,
nella versione più poetica (o mistico-religiosa), che egli riceve.
Lo hanno visitato parole, non un sogno;
oppure anche sì, ma quello è irrilevante: contano solo le parole allineate, da
sole o dallo scrittore non fa differenza; ovvero quelle sufficientemente
singolari da imprimersi nella memoria, o da comporsi autonomamente o quasi
nella sua mente, che essendo quella di uno scrittore è già predisposta di suo a
recepire o tradurre tutto in parole, oppure solo ciò che già si non si
disgiunge dal linguaggio e si rapprende in forma di parole. E poi, sarà che il
suo inconscio è furbo, o lo è chi
scrive, ma certe cose sono dette esplicitamente: "Tu dici loro: 'La
fragola è rossa', e loro diranno: 'Non capisco niente'" (36), o al massimo
per allusioni neanche troppo velate dal tono aforistico: "Sei così, come
l'impressione che lasci" (38).
In tal modo il lettore può costruire
percorsi e trame a suo piacimento, mentre lo scrittore evita di indulgere anche
alla minima traccia di racconto, di chiusura in una storia, fosse solo per un
breve sogno o una parte di esso, come invece viene facile non appena si
comincia a esplicitare o suggerire un nesso, causale, temporale o derivante
dalla semplice consecuzione.
Anche la forma del saggio che Handke è venuto elaborando nel tempo, già a
partire da quello che secondo me è il suo incunabolo, se non il primo esemplare
(Nei colori del giorno), in un certo
senso risponde alla necessità di raccontare senza trama, senza personaggi o
accadimenti, e conseguente svolgimento (e relativi passaggi, nessi, parallelismi
o contrapposizioni, intreccio di tempi e luoghi, ecc.), se non ridotti al
minimo o funzionali (o piuttosto inseriti, successivi, con-seguenti, accanto) ad
altro; non esemplificazioni però: quasi mai, perché l’esemplificazione è una
subordinazione, che contrasta con l’assunto principale della sua scrittura, di
qualcosa che si afferma nella pienezza del suo essere lì, né prima né dopo, né
sopra né sotto quindi.
Il saggio, in quanto tentativo e prova
come dice l'etimo e anche il termine tedesco Versuch, è sperimentale per definizione, instabile, mutevole,
adattabile e insieme formativo: non solo nel senso che dà forma al suo oggetto
mentre lo saggia, ma anche perché è una pratica che verte, in Handke e nei
saggisti più avveduti, anche sulle sue stesse forma e lingua.
Uno scrittore, anche se cresciuto in
pieno modernismo nel clima delle neoavanguardie postbelliche, non può fare a
meno di raccontare; ma chi si è formato in quel periodo ha in sospetto, o
avversa esplicitamente, la “storia”, la “trama” (come si desume, ancor prima
che da interviste e dichiarazioni dirette dello scrittore austriaco, dalla
lettura delle sue opere, anche le più recenti), i personaggi e tutti gli
elementi legati all'azione, specie se fortemente marcati. E più ancora, come
dichiarato nella polemica germinale con il
gruppo 47, non dà nessun credito a chi fa un uso irriflesso e strumentale
del linguaggio e lo subordina alle esigenze di una presunta rappresentazione
della realtà che gli sarebbe anteriore e esterna, mentre invece va considerato,
o meglio assunto, affrontato (in un far fronte che è anche lotta, oltre che
impegno e responsabilità) in primo luogo come realtà esso stesso, come barriera
e luogo e punto di partenza e soglia, poiché convenzionale e trasmesso, come d'altra
parte convenzionali e tradizionali, e quindi esse stesse luogo di conflitto,
sono le trame nel loro disporsi su linee temporali anche complesse, come se non
fossero che riflessi o variazioni di storie intrinsecamente dotate di una forma
propria, naturale (Handke all’inizio, ma anche poi, era un convinto e rigoroso
fautore dell’assoluta linearità, al pari del nouveau roman, forse come antidoto
o tentativo di superamento dell'impasse della somiglianza di tutte le storie,
come diceva Beckett, e della falsità derivante dalle loro costruzioni 'naturali',
come se l'assunzione di una procedura rigorosa e rigorosamente convenzionale,
esibita come tale, potesse instaurare un regime di verità più accettabile,
mentre sappiamo benissimo come contenesse le premesse di un regime opposto, di
falsificazione esibita e teorizzata, come testimoniano gli esiti dell'opera di
Robbe-Grillet, per esempio). Bene, anche costui alla fine non può che cedere al
raccontare (alla gioia di riuscire a raccontare), sia pure soltanto trovando
modi alternativi, ogni volta diversi, sempre mutevoli (sempre in
sperimentazione): ma sempre e comunque "necessari",
"vincolanti", perché ogni volta la scrittura deve trovare la propria
legittimità ("Ma qual era la legge del mio oggetto – la sua forma ovvia,
vincolante?", Nei colori del giorno,
62) e necessità: altrimenti non inizia nemmeno ("Il "diritto di
scrivere" – necessario, sempre, ad ogni nuovo lavoro", ibid. 45). Da
qui l'adozione della descrizione come racconto, la ricerca di una nuova epica dell'effimero
e dell'apparentemente secondario o banale (da non confondersi quindi con l'odierno
new epic: più vicino a Francis Ponge, piuttosto, che personalmente preferisco
per asciuttezza di dettato – e di ciglio), ma soprattutto il saggio: la scelta
di un oggetto-tema-argomento che si afferma e impone come innesco della
scrittura mediante un’immagine, un’espressione (per esempio "giornata
riuscita") o solo un vago, anche se intenso, sentimento, che tuttavia in
un certo senso non preesiste alla scrittura ma in essa viene ad essere, a
definirsi e configurarsi man mano, anche attraverso la narrazione del soggetto
che, asservito al suo imperativo in un modo che liberarsene sarebbe un
tradimento in primo luogo di se stesso, la bracca e la circoscrive e delinea e
approfondisce.
Il soggetto qui è anzi richiesto: a
saggiare non è una mente astratta, la prova non è effettuata da una razionalità
disincarnata, ma deve per forza passare attraverso l’esperienza di chi la
affronta, e senza di lui non ha valore: ciò che comporta la necessità del
soggetto e insieme quella del suo superamento, perché è soltanto uscendo da se
stesso, andando verso l’oggetto, lasciandosi catturare da esso mentre lo si
cattura, e verso gli altri, che l’oggetto può essere recepito e trasmesso: in
uno spazio comune. E così diventano indispensabili anche l’attenzione per le
circostanze e i luoghi, come anche gli incontri e i ricordi, e le ipotesi e le
fantasie, che accompagnano questo percorso, di cui anzi il cammino è
costituito. Handke infatti insiste spesso sulla fase di preparazione, sulla
scelta del luogo (Soria, la città di Antonio Machado, in Spagna, per il Saggio sul juke-box; Salisburgo per
quello sulla giornata riuscita...), sulle modalità e il periodo (fine anno in
almeno un paio di casi: in particolare, nel Saggio
sul juke-box, la fine del '89, anche come gesto di sottrazione alla
prosopopea del cambiamento e alle richieste di unirsi al coro dei magnificatori
dell'evento), e in genere su tutto il rituale di ingresso e passaggio alla
scrittura, oltre che sulle condizioni materiali e la scansione delle giornate
nel periodi di redazione. Il racconto passa da lì.
Non più funzionale a un fine o a una
fine, non più adattato o strutturato attorno a uno scheletro preesistente, il
racconto può allora sorgere e svilupparsi e interrogarsi in mille modi senza
chiudersi né chiudere tutto in sé, senza finire. Dal momento cioè che il saggio
verte su un’esperienza in via di farsi, anche solo prestare attenzione ai suoi
modi di porsi e imporsi si traduce in una forma di racconto. Raccontare cade così
sotto il segno della necessità, è sottratto all’arbitrio di una decisione
estrinseca come alla camicia di forza di griglie preconfezionate, pronte
all’uso come se fossero contenitori neutri, pura accoglienza, e deve pertanto trovare,
o inventare, ogni volta la forma e il linguaggio della specifica esperienza che
costituiscono quel saggio specifico.
In genere i romanzi di Handke, e più
ancora gli ultimi dei primi, sono un tour de force per non raccontare, o meglio: un continuo rinvio, una lotta per dire e
narrare senza ricorrere ai fatti, a eventi di qualche rilevanza, se non
scarnificati, appena evocati o sminuzzati in pura enumerazione di gesti,
posture o azioni separate, scomposte e semplicemente allineate (ma certo poi
l’allineamento è già una costruzione, il detto è già una scelta, il ritaglio
dal continuum è già l’assegnazione di un senso, sia pure ridotto quanto più
possibile ai minimi termini, essendo il grado zero, per chi vi ambisce, al
massimo un ideale regolativo). Handke gli gira attorno, dicendo tutto fin nelle
più sottili implicazioni, di quanto li ha determinati o ne è direttamente o
meno derivato, a volte senza neppure nominarli, non tanto lasciandoli nel vago
con una scrittura non rappresentativa a seconda dei casi per eccesso di
astrazione e per una tensione a volte difficilmente sostenibile, che comporta
una lettura ravvicinata dei membri della frase che però poi è molto difficile
ricomporre nell’unità di un pensiero; ovvero, all'opposto, per eccesso di vicinanza
concreta, per l’immersione totale nello spazio e nelle cose, di cui si
percorrono tutte le componenti e le nervature nominate con una precisione quasi
maniacale, tanto che alla fine è piuttosto arduo delinearne il profilo o
farsene un’idea concreta (Lento ritorno a
casa; In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa, La miniera di
sale). La cosa e lo spazio si eclissano, anziché esserne esaltati, nel loro
profilo, nella sagoma tracciata in negativo, o disegnata solo percorrendone
l’orlo, dentro e fuori i margini che così perdono la continuità che aiuterebbe
a riconoscerli, ovvero quasi si dissolvono in qualche fattore innominato ma (o:
perché) decisivo che, come un baleno, appare e scompare da tutto ciò che viene
detto al posto della sua vietata nominazione e definizione, della sua
impossibile rappresentazione mimetica (impossibile in primo luogo a chi scrive:
nel senso che proprio non ce la fa; non può e non vuole, e sa che solo
sottraendosi arriverà a scrivere, e a dare corpo).
Una "lingua smaterializzata eppure
concreta" che Handke (in Nei colori
del giorno, 47) confessa di cercare per il libro che sta scrivendo (Lento ritorno a casa), e che troverà e affinerà nei libri
successivi, con risultati a volte forse faticosi per il lettore (qualche sforzo
è bene che lo faccia lui pure, o no?, dato l'assenza di fatica è solo
blandizie, sicurezza del già noto), ma in più di un caso straordinari, come
pochi se ne trovano nella prosa contemporanea.
Nei saggi invece c’è un narrare più
disteso, e più ancora nell’ultimo, legato forse al fatto che qui la memoria
attinge per una volta con maggiore continuità e minori resistenze (stilistiche
e formali, ma anche soggettive, esistenziali, “di principio”) al passato
remoto, a qualcosa di mai detto e ora finalmente, a 70 anni, dicibile, anche se
non c’era niente, in esso, di temibile o vergognoso, di rimosso o da tenere
nascosto (ma è proprio questo che a me piace meno, esattamente quando la
lettura si fa più facile, attraente e, contrariamente a quanto caratterizza
Handke, gradevole, ma alla lunga un po' stucchevole o indifferente come sempre
quando il rigore cede all’aneddotico).
Si potrebbe dire, paradossalmente, che
mentre alcuni scrivono saggi in margine, in alternativa o a proposito di
romanzi e racconti, Handke li scrive per raccontare.
D’altra come rimproverare a Handke il
sollievo che deve aver provato, parlando in modo così diretto e piano di sé,
lui che in tutta la sua opera in fondo non aveva fatto altro, ma sempre per vie
indirette in modi e figure diverse, persino in quella dedicata al suicidio
della madre, Infelicità senza desideri (cfr.
Intervista sulla scrittura, 86-87)?
È come se in questo Saggio sul luogo tranquillo, più ancora
che negli altri saggi e a dispetto delle dichiarazioni, Handke abbia
abbandonato, o quantomeno messo in sordina ogni ambizione epica, e fosse pure
l’epica dell’insignificante che acquista rilievo solo nell’attimo in cui emerge
come da sé dall’indistinto del luogo reale o della mente e si impone
all’attenzione, che vi resta catturata essa pure per un attimo che però può anche
non spegnersi mai, ovvero impigliata per un tempo (intervallo o durata) che può
propagarsi a lungo, e in largo, a luoghi cose e persone (al mondo e al vivere)
e al soggetto stesso come una sete, o meglio un vuoto, che ci vorrà molto a
colmare. Ridotta così l’enfasi, e con essa la tensione, sia quella del
controllo esasperato onde evitare le cadute nei cliché e nel banale scritto ecc., sia quella dell'intensità
del sentire e della scrittura da trattenere e far durare il più a lungo
possibile e anzi da portare verso il punto massimo di incandescenza e lì
tenerla (come si narra di certo erotismo tantrico o cinese: qui del piacere,
invece che "del dolore", se mi si passa il ribaltamento di un titolo
famoso), è come se Handke in questo libretto non avesse più paura della pace:
non quella che afferma di aver cercato e talvolta trovato per tutta la vita, ma
quella dell'abbandono a un racconto non più sentito a priori come meccanismo
che già di per sé svuota o appiattisce, ma come qualcosa di possibile perché
già pieno di pensiero e di esperienza.
Luogo, lentezza, attenzione,
descrizione narrativa, minuzia "epica" (per tono e sviluppo), assenza
di trama o sua riduzione al minimo, come "costrutto" sempre da infrangere
e dislocare, irruzione accidentale dell'azione (della storia) in un discorso
che non la prevedeva (come l'imprevisto della scrittura, quindi, e non come il
suo binario prescritto) e che diventa possibile, anzi: necessaria solo pian
piano, nel farsi del testo, a posteriori, piuttosto che come evento
identificabile e definibile a priori, prima del discorso che lo esige e erige;
e ancora: io come fattore strutturante, come soggetto non separabile, immerso e
fatto vivere dalla percezione e dall'emozione, ma non sentimentale; io
autobiografico, ma dove l'"auto" è importante, decisivo solo per chi
scrive (anzi: per lo scrivere – perché si scrive solo di ciò che importa, e che
ti porta non si sa dove, e non per divertimento o per divertire) e quindi
scevro di ogni narcisismo (in linea di principio: poi non sempre nemmeno uno puntiglioso
come Handke ci riesce) e di conseguenza anche della "memoria", del
suo culto in sé o del gusto aneddotico, da recuperare o salvare, per cercarvi
di conseguenza una qualche personale o storica salvezza, o consolazione, o
altri palliativi. La memoria, qui, e l'autobiografia sono sempre raso-scrittura
(come si dice di un volo, o di un tiro rasoterra), sempre a filo di scrittura,
né prima, né dopo.
Lo stesso che per trama eventi e
soggetto si può dire anche di altro: e sì, c'è sempre un lungo lavoro
preliminare di studio, documentazione e osservazione che bisogna aver fatto, e
il relativo rimuginare e progettare e cercare di mettersi in sintonia e
attendere, ma tutto risulterà poi quasi sempre inutile, come gli appunti e i
progetti, gli schemi e gli scarabocchi, gli elenchi, i promemoria e i
propositi, anche se al contempo fondamentale, perché bisognerà aver letto e
sentito e pensato e visto tutte quelle cose e informazioni proprio per sapere
cosa non usare. Occorre averle conosciute per dimenticarle, ma non tanto da non
riconoscerle se si dovessero ripetere o riprendere; e allora, se proprio,
disfarle, spostarle di contesto, o cambiare il contesto di quel momento, di
quel passaggio o paragrafo, proprio grazie al loro ripresentarsi, grazie a loro
che così non sono più loro: perché se nonostante tutto esse insistono a ripetersi
così come sono, di fatto saranno invece cariche del tempo intercorso, incluso
il tempo dell'oblio; e quindi non saranno, ancora, "come sono" (cioè
come erano, come sono state), ma "come saranno state", come saranno
nel loro essere state e dimenticate e tornate, in una verità che non è più la
loro restituita, ma una nuova, passata attraverso la falsificazione, la
costruzione: la strettoia soffocante della scrittura che dà respiro.
Uno degli aspetti più interessanti
(originali) di questi saggi è che non vertono su un oggetto
"culturale" classico (libro, quadro, musica...), ma su qualcosa di
molto preciso (juke-box, luogo tranquillo), e a volte su una vaga
nozione, o meglio su un'espressione (giornata
riuscita) o addirittura una parola (stanchezza),
che prende corpo e viene definita nel movimento stesso che la costeggia e
corteggia, e lentamente circoscrive e focalizza. O un'immagine, un oggetto o un sentimento, una condizione, che vengono fatti oggetto di indagine, di pensiero nel
suo senso più lato, che non perde di vista l'assenza, o la vaghezza, il puro
potenziale da cui è stato innescato e in cui resta innestato. "Pensare,"
dice G. Agamben (Il fuoco e il racconto,
111), "significa ricordarsi della pagina bianca mentre si scrive o si
legge. Pensare – ma anche leggere – significa ricordarsi della materia".
La materia del mondo, e del corpo, e, per chi scrive, prima di tutto della
scrittura: la lingua.
Nel Saggio
sul luogo tranquillo, per esempio, il luogo
tranquillo è il privato, dove ci si ritira per stare soli con il proprio
corpo e le sue funzioni più intime, che ogni gruppo sociale regola e separa, ma
è anche il luogo che apre all'emozione che riporta chi vi si chiude al
lingiaggio. E' il più privato del
privato, tanto che lì non occorre, come ognuno sa, fare ciò per cui è stato
fatto. E' la sicurezza, la separazione in cui, dell'esterno, penetra e da cui
si accede solo a ciò che si desidera, o che ci viene concesso, ma in modo che
sia esso quasi a chiedere di essere accolto, invece di imporsi con la sua
ingombrante presenza. Rifugio, ma insieme anche appaesamento, presa di possesso
di un luogo che magari fino al momento prima era ostile o anche solo estraneo.
Handke lo illustra benissimo quando parla del suo arrivo in seminario o della
toilette del tempio di Nara: "Solo quella mattina, quando entrai nella
toilette del tempio a Nara, il Giappone mi divenne familiare; fu allora che
approdai sull'isola; allora mi impadronii del paese, tutto intero" (64).
La sua ricerca è una costante nello
scrittore austriaco, lo si vede non solo quando cita la toilette in altri libri
(cfr.), ma già in Nei colori del giorno,
quando parla dell'Estaque cézanniano, o della catasta di legno dell'infanzia:
"con il tempo, fu come se potessi addirittura determinare, di caso in
caso, di essere "l'Invisibile". Non mi consideravo sparito o dissolto
nel paesaggio, ma ben occultato nei suoi oggetti (gli oggetti di Cézanne.) Non
avrebbe dovuto essere così da sempre, e non c'era già stato qualcosa
nell'infanzia che, come più tardi l'Estaque, fu per me il luogo, la cosa del riparo?" (p. 44).
E' in questo luoghi rifugio che
l'autore si ritira per superare il blocco, quasi-autistico per sua stesa
ammissione, che spesso lo prende quando è tra la gente, "muto,
dolorosamente escluso dai fatti" (che è poi il primo dei "quattro
modi in cui il [suo] Io, come soggetto di linguaggio, si rapporta al mondo,
aggio sulla stanchezza, 38) e poter passare "dal mutismo, al ritorno del
linguaggio": il luogo della separazione è anche la soglia che apre al ritorno.
E' anche l'immagine dell'emozione che conduce alla parola, alla scrittura,
dello spazio che essa apre e che in essa si apre.
La straordinaria cura della lingua è la
stessa che Handke rivolge anche agli infimi particolari di ogni cosa e persona
e sensazione e emozione (e anzi con quella forma suprema di attenzione per ogni
singola cosa che si può manifestare solo non trascurando nessun dettaglio fino
alla più lieve sfumatura), tanto da non esitare, a volte, a ricorrere a
immagini per definirle o renderle sensibili, e quindi non solo comunicabili –
come se alla cosiddetta denotazione si potesse arrivare solo attraverso un giro
connotativo, una perlustrazione nei paraggi del senso, nei suoi minimi tratti –,
quanto piuttosto condivisibili, nel modo migliore, più accurato (cfr. p. 100 In una notte buia..), senza trascurare
nulla.
Un’attenzione non come atto volontario,
di dominio, per ghermire il sensibile, assimilarlo alla nostra chimica, ma come
disponibilità, accoglienza: un esercizio di riduzione dell’io, o meglio: un’eclisse
non cercata né voluta, ma autoinstallantesi (come certi virus informatici: ma
benigno qui) per accogliere tutto in modo che risalti, e risuoni, nella sua
singolarità, per ciò che è e per come è, e al contempo dia il tono e la
definizione, l’intensità, a chi la esercita, o meglio: ne viene pervaso, e in
certi casi travolto.
A volte la frase non è la delimitazione
dello spazio della descrizione (della cosa, persona, sensazione...), ma traccia
il percorso di avvicinamento, racconta il processo di focalizzazione,
conducendo il lettore all'interno dei meccanismi della percezione e del
pensiero dello scrittore mentre sta osservando e scrivendo. La storia quindi
non consiste in ciò che viene narrato degli eventi o dei personaggi, ma in questo
processo, a volte ben più interessante e entusiasmante.
Questo processo, questa approssimazione
che diventa racconto, avventura, non è dettata tanto, o solo, dalla fedeltà,
dall’ubbidienza alla cosa o alla percezione, ma anche, se non soprattutto, alla
lingua, ai meccanismi, sonori ritmici e semantici che fanno slittare da una
parola all’altra, creano ponti, o disgiunzioni, parentele o affinità per
differenza e opposizione, e dunque legami ancora più forti, e non per vezzo
poetico o esibizione di perizia retorica o formale, ma perché sarebbe solo
attraverso tale ascolto, e pulsazione, che anche quello alle cose può avvenire
e manifestarsi.
È difficile dire di cosa parla Handke.
Non appena si cerca definirli, temi e oggetti perdono peso e concretezza,
diventano inconsistenti, si dissolvono. Se li si nomina, non resta che il nome,
che al massimo richiama qualche concetto banale nella misura stessa dell'importanza
della sua storia o della sua pregnanza: la natura, lo spazio, il tempo, il mito
(fosse pure il mito delle cose semplici e banali). Estratti dal testo, dal suo
flusso, dai delicati, quasi invisibili, ma insieme fortissimi ingranaggi e
legami da cui sono non definiti ma costituiti, dalla grande tensione che tiene
insieme e salda ogni parte al tutto meditato in ogni dettaglio, nomi e cose,
pensieri e emozioni si svuotano; anzi, peggio, si afflosciano.
Questo deriva anche dal fatto che
spesso il rifiuto di ciò che è dato, soprattutto linguisticamente, sta
all'inizio, logico quando non temporale, del suo modo di procedere. "Non
posso accettare proprio alcuna posizione – tranne quella dell'opposizione",
diceva nella lunga Intervista sulla
scrittura del 1986. Anche solo per muovere il primo passo, occorre aver
scalzato ogni minimo richiamo a ciò che viene ripreso automaticamente dalla
consuetudine linguistica e formale, dalle strutture narrative alle tecniche
espressive, fino alle locuzioni d'uso e talvolta alle singole parole, oggetto
di idiosincrasie che vietano persino il loro uso, perché questo porterebbe al
rigetto anche della cosa o del dato esperienziale da esse denotato. Lo si nota
già in Il peso del mondo (p.
70): "Lei rispose: "Un pic-nic,
vuoi dire". Io: "Non dire quella parola". Lei incalzò: "È
curioso – ti piace la cosa in sé ma non la parola". Io: "Se ripeti
quella parola, finisco per odiare anche la cosa in é". (Lo stesso vale per
parole come "vagabondare", "carne", ecc.)"; ma con il
tempo penetra anche così a fondo che viene ribadito addirittura in sogno:
"E poi l'ho picchiato. No, non picchiato: due schiaffi gli ho mollato. No,
non mollato: glieli ho dati" (Un
anno parlato dalla notte, p. 195).
È il portato delle neo-avanguardie
sull'insofferenza adolescenziale e sul rifiuto, per non dire 'ribellione' che
appartiene al suddetto novero lessicale, giovanile, che pian piano si radica in
procedura mentale, in atteggiamento di fondo verso il linguaggio che permane
anche quando gli altri corollari pian piano decadono e vengono sostituiti, per
esempio in Handke, in ricerche di nuove forme di epos e di classicismo, sia
pure in un orizzonte sostanzialmente romantico. Combattivo anche quando la
polemica e il rifiuto sono sottaciuti, anzi: volontariamente espunti, per
lasciar luogo a una ricerca di equilibrio, serenità e pace mai acquisibili una
volta per tutte (diventerebbero a loro volta un 'dato', un cliché banalizzato)
e da ricercare e rinnovare continuamente. Basta vedere certi titoli, come Saggio sulla giornata riuscita e
l'ultimo, esplicito: Saggio sul luogo
tranquillo.
L'impulso di partenza può essere
qualunque: un oggetto (il juke-box), una parola o locuzione (baleno, giornata
riuscita), un ricordo (il luogo tranquillo), ma immediatamente subentrano degli
elementi di tipo reattivo: una negazione non assoluta (e perché mai?, è così
facile! Così uguale a ciò che si rifiuta: scontato, banale), ma circostanziata,
di qualcosa in particolare e delle sue implicazioni, ma sempre radicate nel
concreto, "incastonate" (Intervista
sulla scrittura , 46) in uno specifico spaziotempo, anche se poi la
scrittura può raggiungere livelli di astrattezza (non di astrazione) molto
alti, e ardui. Poi si abbandonano, si sfrondato o elidono del tutto,
sforzandosi anche di farli dimenticare, ma lì permangono, o perlomeno lo
scrittore ne è sempre consapevole, e sa quindi che negarlo è un passo falso
dalle conseguenze nefaste.
Ogni creazione, diceva Deleuze, è un
"atto di resistenza". "Alla morte, innanzitutto, (esplicita
Agamben, Il fuoco e il racconto, 39),
ma resistenza anche al paradigma dell'informazione" attraverso cui
esercitano il potere le "società di controllo". Dove il controllo si
spinge anche alle più intime fibre del sentire e del linguaggio, chioserebbe Handke,
che di questa resistenza ha fatto uno dei capisaldi della sua opera.
Un autore che si ama non è un modello,
ma un modo. Il suo procedere non è la proposta di una direzione sociale o
esistenziale, ma, per chi legge, una realizzazione e al contempo uno strumento:
un arricchimento, non una regola. Al massimo un invito, delle occasioni
eventualmente da sperimentare. Un esercizio, materiale e spirituale. E allora
non importano gli aspetti "romantici" o che l'autore configuri ciò
che fa nell'orizzonte di un'utopia estetica. Quello concerne solo lui.
È vero però che certi testi di Handke postulano
un'adesione totale, un abbandono e un'identificazione che immagino sia favorita
da caratteristiche della lingua originale (sintassi, partitura sonora, ritmo, e
tutte le reti del non detto che avvolge ogni parola detta) che non sempre è
possibile riprodurre in traduzione; ma in genere la richiesta, o l'ingiunzione
implicita ma non per questo meno forte, è di aderire senza riserve alla
visione, alle modalità del suo porsi e del darsi a condividere, al suo
trascorrere di dettaglio in dettaglio in una vicinanza e con una lentezza tanto
avvolgente da togliere a volte il respiro, non sempre con effetti piacevoli
(anche se non è affatto obbligatorio che un testo lo sia). L'apnea deve essere
mantenuta il più a lungo possibile, senza alzare la testa per respirare e
guardare da fuori, da un po' più in alto o distante, col rischio di perdere il
filo o smorzare l'intensità. Specie nei romanzi, sembra che Handke si faccia un
punto d'onore di mettere alla prova la resistenza del lettore, perché quando la
sollecitazione, anche dopo passaggi lunghissimi, sembra allentarsi, raramente
si passa a descrizioni più facilmente visualizzabili o a una narrazione
distesa, che invece viene portata a un alto livello di astrazione, teorica o
metafisica (con una certa arietta religiosa a volte), ma senza alcuna
mediazione, senza l'esplicitazione dei passaggi o il soccorso di un nesso
(troppo ossigeno!). Nei rari casi poi in cui la narrazione diventa davvero più
piana, delude: diventa troppo tradizionale; come attraversare una soglia tanto
risaputa da risultare invisibile, ciò che sorprende in uno studioso delle
soglie come Sorger (cfr.), protagonista di alcuni romanzi e suo alter ego.
Quello che importa quindi non sono gli
"insegnamenti" diretti, o qualche forma di dottrina o di idea sulle
cose, ma l'esemplificazione pratica di procedure di visione e di pensiero,
l'uso della lingua, della sintassi in primo luogo, e la precisione del lessico
anche quando l'astrazione è forte e il rischio della vaghezza incombente.
In Il
peso del mondo, Hanke scriveva: "Come scrittore ho sempre la pretesa
di inventare miti, di trovarne altri che non abbiano dunque nulla a che fare
con quelli occidentali: come se avessi bisogno
di nuovi miti, innocenti e desunti dalla vita quotidiana, a partire dai
quali ricostruire me stesso (non alessandrini rimandi a miti come in Joyce e
Beckett)" (p. 78 cors. mio): bisogno che nei Saggi trova alcune delle
modalità più dirette ci soddisfazione.
Poi ancora: "Sono convinto di
dover dimenticare completamente il passato, per non soggiacere più a questo
dolore di petto: devo perdere la mia memoria! Contro Proust e Benjamin e la ben
protetta coscienza borghese con il suo piacere del ricordo e con la sua
coscienza di esso (la mia lotta contro la memoria, che mi limita fin
dall'infanzia, che mi minaccia tramite la morte!)" (p. 38): lotta che si
manifesta nella concentrazione sul presente della percezione e della scrittura,
ma che in alcuni dei saggi (in particolare quello sul juke-box), si allenta, e
che in Saggio sul luogo tranquillo
Handke accetta di aver perso, o ha finalmente smesso di sostenere.
Quello che trasmettono allora i suoi
libri, non sono solo idee o emozioni, che certo non mancano, quanto un modo per
imparare a vivere, per vivere imparando a vivere, perché si vive solo se se si
cerca ogni momento di imparare a vivere, a muoversi tra le cose, nel mondo, e a
vederle, maneggiarle e insieme rispettarle per ciò che sono e in tutte le
relazioni (le reti) possibili, che le avviluppano e le collegano allo spazio e
al tempo, anche, se non soprattutto a quelli interiori, per riuscire a essere
saggi. Cioè felici. O non infelici. O solo un po' meno, se possibile.
* a p. 1 dove si parla della forma del
saggio (cfr. A. Berardinelli – La forma del
saggio: definizione e attualità di un genere letterario; e Il saggio. Forma e funzioni di un genere
letterario, a cura di G. Cantarutti, L. Avellini e S. Albertazzi)
** Il "tramandamento" (IsS,
72) infatti non può essere che di qualcosa che è stato lavorato: non una
ripresa né una citazione o un riuso, e nemmeno la conservazione in qualche teca
o freezer, che peraltro non sono mai neutri come vorrebbero farsi passare, ma
una trasformazione, una somiglianza di fondo, un nesso, che però segue vie e
cerca oggetti e procedure nuove.
*** (perché in genere la lingua e le
sue costruzioni e costrizioni informano qualsiasi cosa venga detta, e ancor più
scritta, a prescindere dall'origine, a maggior ragione in uno scrittore per il
quale l'attenzione senza flessioni o indulgenze
per il linguaggio è una seconda natura, diventata col tempo la prima
anzi, come per Handke)
Peter Handke, Saggio sul luogo tranquillo, trad. Alessandra Iadicicco, Guanda
2014
Id., Un anno parlato dalla notte, trad. E. Zoja, Moretti
e Vitali, 2013
Id., Il peso del mondo, trad. R. Precht, Guanda 1981
Id., Nei colori del giorno, trad. C. Groff, Garzanti 1985
Id.,
Il pomeriggio di uno scrittore, trad.
G. Agabio, Guanda, 1987
Id.,
Saggio sulla stanchezza, trad. E.
Picco, Garzanti, 1991
Id., Saggio sul Juke-box, trad. E. Ganni, Garzanti, 1992
Id.,
Saggio sulla giornata riuscita, trad.
R. Zorzi, Garzanti, 1993
Id.,
Epopea del baleno, trad. L. Salerno,
Guanda, 1993
Id.,
Intervista sulla scrittura, trad. M. Mechel,
Lubrina, 1990
si
veda anche: http://www.doppiozero.com/materiali/interviste/handke-lidentita-dello-scrittore
di Luigi Zoja
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