18/12/25

Claudio Piersanti, provare a vivere. (La finestra sul porto. 2025)

 


“Quanti sono i momenti belli e importanti nella vita di una persona? ... Pochi giorni, …, forse poche ore, il resto è niente o male”, dice tra sé Roberto, avvocato quarantatreenne, protagonista dell’ultimo, perfetto, romanzo breve di Claudio Piersanti La finestra sul porto (Gramma, Feltrinelli, 2025). Siamo a metà del libro: la vita di Roberto ha da poco conosciuto il grande inatteso cambiamento che lui nemmeno sognava più e tra poco ne subentrerà un altro, negativo, conseguenza del primo e che rischierà di mandarlo all’aria e guastarlo per sempre.

Roberto, scapolo, con una vita professionale apprezzabile anche se meno di quanto potrebbe se, come dicono a scuola, si applicasse di più e fosse più pragmatico e cinico, e con varie storie sentimentali di poco conto alle spalle, ha da poco trovato modo di rivelare il suo amore a Maria, la donna di cui è stato innamorato fin dalla prima volta che l’ha vista in compagnia di Piero, il suo migliore, e anzi unico vero amico, che poi se l’è sposata. Si sono frequentati per anni, ma lui non ha mai lasciato trapelare il suo sentimento che è diventato con il tempo sempre più difficile da celare, tanto più che pian piano l’amicizia con Piero si era venuta allentando, così come il legame tra la coppia, soprattutto da parte di Maria, mentre Piero, narcisista ambizioso e collerico, ma anche brillante e generoso, dà per scontato che lei lo ami come sempre. Maria si accorge di quanto tiene a Roberto quando lui comincia a disertare le cene e non risponde alle sue chiamate, e scopre a sua volta con stupore e gioia di amarlo il giorno che lo cerca per chiedergli conto delle sue lunghe latitanze.

È un momento di grande trepidazione quello in cui si manifesta la reciproca attrazione, qualcosa che li travolge e sorpassa come può capitare solo a due adolescenti al loro primo amore. E difatti per Roberto lo è davvero, vertiginoso, mentre per Maria è una rivelazione improvvisa, come repentina è la sua accettazione, sia pure con un prevedibile sgomento: la scoperta che nella vita un po’ soffocante in cui stava cadendo, non fosse che per il lavoro di archeologa che la appassiona e le dona non pochi momenti di incanto, si spalanca una finestra da cui si scorge un nuovo orizzonte.

Ora la felicità è entrata a vele spiegate nella vita di entrambi, ma Piero ha scoperto il loro legame e sta per chiedere conto a Roberto del suo tradimento, che in seguito cercherà di far pagare a entrambi con un gesto terribile, ma, a conti fatti, solo per lui.

Fino ad allora, cioè a poche settimane prima di quel momento, la vita di Roberto era trascorsa pacificamente ma senza entusiasmi: orfano di padre dalla nascita, era stato cresciuto dalla madre infermiera nella città di mare dove lei aveva vinto un concorso, in un piccolo appartamento della città vecchia che lui aveva conservato dopo la morte di lei come suo rifugio segreto, che nessuno conosceva, e dove poteva ritirarsi ogni volta che voleva sparire o starsene per un po’ da solo in santa pace.

Ora invece finalmente ha trovato l’amore con la donna che aveva sempre desiderato. Il libro racconta questa storia. La storia di un amore felice. Niente di peggio per un romanzo, quindi, se, come dice Borges, “l’unica cosa senza mistero è la felicità, perché si giustifica da sé”. E senza mistero, niente storia. Ma siccome nessuna felicità è mai piena e senza smagliature, anche la sua manutenzione ha una storia e Piersanti, maestro nel raccontare esistenze all’apparenza banali e piatte, la racconta nelle sue differenti declinazioni e sfumature.

L’amore degli adulti è sempre stato uno dei suoi temi prediletti, oltre che il titolo del suo secondo libro, uno dei più fortunati peraltro (ultima edizione, Feltrinelli 2006), ma raramente lo scrittore ne aveva narrato la nascita e il consolidamento in modo così dettagliato, senza in apparenza inventare niente di nuovo, ma evitando al contempo qualsiasi occasione di déjà-vu, tanto da arrivare a costruire un edificio autonomo, con una sua singolare fisionomia e forza, e delicatezza. Perché, per quanto ciò che Roberto e Maria cercano e trovano non sia che una vita normalmente felice, e la normalità appaia “bellissima” a Maria quando considera la loro quotidianità dopo che hanno preso a vivere insieme, nessuna normalità e nessuna felicità sono banali, neppure quando appaiono scontate. Tanto più che a turbarle, e a metterle a rischio, arriva il suicidio di Piero, che forse era anche un tentativo di omicidio di Maria, alla cui possibilità nessuno aveva mai pensato, che accentua i sensi di colpa già avvertiti dai due innamorati per un tradimento che peraltro non sentono tale, e che non cesseranno finché non saranno loro a perdonarsi andando a chiedere perdono a Piero sulla sua tomba, estinguendo con il proprio pentimento anche la colpa.

Personalità equilibrata, in apparenza, e distaccata, Roberto, pur essendosi fatto del mondo un’idea non proprio lusinghiera, anche in ragione del campionario umano con cui deve trattare per professione ogni giorno, è nondimeno capace di empatia, per quanto malinconica e disincantata. Forse proprio in ragione del fatto che le sue idee sociali e politiche “poco realistiche” sono molto critiche e completamente pessimiste, si fa della compassione quasi un dovere, convinto che la pietà è “il più nobile dei sentimenti umani”, e rifugge da qualsiasi aggressività e rancore. Il rancore, una malattia sociale oltre che individuale che ricorre in tante altre opere di Piersanti e persino nel titolo della penultima (Ogni rancore è spento, Rizzoli, 2023: vedi la recensione di Chiara De Nardi), in questa affligge solo Piero, attore frustrato e invidioso della fama altrui, mentre è del tutto assente in Maria e in Roberto, che l’autore riesce nell’impresa di presentarci, senza enfasi e sdolcinature, come personaggi infine del tutto positivi.

L’atteggiamento di distacco, razionale più che morale, che contraddistingue Roberto, è anche in lui, come spesso capita, una difesa abituale e in apparenza consolidata, ma basta poco a Maria a infrangerlo portando in primo piano tutti i lati positivi che già contraddistinguevano la sua personalità, come segnalato dal suo cognome, Clemente, significativo come spesso nei personaggi di Piersanti.

L’amore accolto senza remore è un atto di liberazione, la conquista di una libertà che, se non esenta dall’assunzione di responsabilità, proietta la nuova coppia in una specie di innocenza che tuttavia non manca di un suo risvolto tragico e colpevole, che li tocca per quanto non ne siano oggettivamente responsabili.

Liberazione e responsabilità, innocenza e colpa sono tutte il risultato dell’abbandono, nel duplice senso del termine, che ha condotto alla loro unione: l’abbandono di un marito ormai insopportabile e di un amico carissimo con cui però la complicità e la confidenza si erano ormai consumate; e l’abbandono a cui finalmente cedono entrambi: l’uno nei confronti dell’altra e entrambi a ciò che di profondo c’è in loro stessi: al proprio desiderio, alla felicità, che non è mai gratis, come avviene quando si prende atto di una verità: perché anche allora “non si ottiene un sollievo totale, [e] all’improvviso scende un invisibile velo malinconico sopra ogni cosa”.

Piersanti riesce a raccontare con grande equilibrio, con una prosa pacata e dal ritmo sommesso e quasi inavvertito governato da una sottile musicalità, tutte le gradazioni di gesti e sentimenti, i dubbi e le decisioni a volte sorprendenti prima di tutto per chi le prende, senza mai cadere in psicologismi o in semplificazioni. Anche i momenti più drammatici e intensi sono narrati in un calibratissimo amalgama di focalizzazione interna, con uso misurato dell’indiretto libero, e distacco, come a sottoporli a un processo di raffreddamento che però non li spegne, senza la minima traccia di cinismo, in modo da lasciare che sotto la superficie piana del discorso continuino a agire, e a trasparire, le emozioni, le loro sfumature e tensioni, le differenti lunghezze d’onda e vibrazioni, e persino il loro tremolio, i loro fremiti, quando ometterli sarebbe una mancanza, un cedimento stilistico non minore di eventuali concessioni al lirismo o a colpi ad effetto sempre in agguato in quei frangenti.

È più difficile narrare un’apertura che una chiusura; parlare di qualcuno che prova a vivere che di qualcuno che si chiude e rinuncia e crolla. La misura stilistica della felicità è millimetrica e fragile. Piersanti in questo libro parla di persone che provano a vivere, senza eroismi e volontarie cecità. Alcuni ci riescono, altri no. “Aveva ragione Maria: erano anni importanti quelli che stavano vivendo, … e loro li stavano sprecando”. Tutti partono da una parvenza di vita soddisfatta, che forse per un po’ lo è anche stata, ma che con il tempo diventa consuetudine, irosa per qualcuno, placida per altri, rassegnata per altri ancora. Finché questa specie di equilibrio neutro, di un’infelicità talmente pervasiva da essere diventata consuetudine assimilata, si spezza, e i protagonisti si trovano nelle condizioni di arrendersi alla vita, di accettarne l’azzardo. Piero ci prova ma alla fine ne è vinto e rifiuta il cambiamento, a cui soccombe; accusando gli altri della propria mediocrità e fallimento non ha sospetti su di sé, finché non si trova davanti a una catastrofe che gli rivela il proprio vuoto e non sa affrontarla, tanto più che le uniche due persone che avrebbero potuto soccorrerlo sono quelle che l’hanno provocata. Anche lui, come loro, era il figlio disilluso di una generazione, quella del boom, “inutile” con i suoi “incomprensibili sogni rivoluzionari, le … fedi tutte rigorosamente autoritarie, le loro barricate, i loro riti” … e che non aveva lasciato loro “altra scelta se non quella di andarsene”.

 

Roberto ha questa tentazione di lasciare e di chiudersi nella sua vita costellata di segreti, che sembra quasi collezionare compiaciuto. “Nessuno in città sapeva niente del suo passato. O meglio, nessuno al mondo poteva affermare di conoscerlo veramente. I segreti che custodiva, non avendo più famiglia, erano segreti assoluti.” Non si tratta di chissà che misteri o colpe, ma solo di cose che egli non vuole che siano conosciute e che in un certo senso custodiscono la sua identità e la sua storia. Sono il nucleo in cui è racchiusa la sua vera identità, o almeno quella che lui ritiene tale e che quindi intende preservare ad ogni costo. “Soltanto la sua vita segreta aveva un senso”, scrive Piersanti all’inizio del libro, salvo poi aggiungere più tardi, dopo che alcuni erano stati rivelati, “ma non aveva mai saputo mentire”. Il che implica che nessuno li conosce perché nessuno ha pensato bene di interessarsi tanto a lui da chiedergli se ne aveva e quali; e viceversa che nessuno, prima di Maria, è stato per lui così importante, intimo e affidabile da suscitargli il desiderio, se non addirittura il bisogno, di confidarglieli, di poterglieli affidare. E infatti, nonostante tutti i contatti che la sua professione comporta e le fidanzate che si susseguono, “sentiva molto il peso della solitudine…, era sempre stato solo nella sua vita adulta. Un senso di solitudine che lo divorava e nello stesso tempo lo nutriva. Se si è soli meglio esserlo completamente”, pensava

Il segreto è la sua forza: da lì nessuno lo può attaccare; ma insieme è anche la sua debolezza: è il punto sensibile, quello che, se si incrina e cede, può portare al crollo e alla resa, ammesso che la resa sia sempre negativa, una sconfitta definitiva e non, talvolta, l’inizio di un nuovo percorso che potrebbe portare a una vera salvezza, una vittoria al di fuori della logica dello scontro, di una concezione bellica dell’esistenza e del rapporto tra gli uomini, come invece potrebbero indurlo a pensare i casi che deve affrontare quotidianamente nella sua professione. È la sua difesa: da lì non è esposto a nessun attacco, ma da lì non potrà neanche uscire, non si dice per attaccare, ma nemmeno per provare a espandersi verso l’esterno, ad allungare le proprie propaggini verso gli altri e il mondo per costruire altrimenti la sua vita. Ad aprire porta e finestre.

Quando questo, non a caso in un momento di debolezza reciproca con Maria a fare da elemento scatenante, troverà uno spiraglio da cui affacciarsi, tutta la strategia difensiva mostrerà la sua inconsistenza e la forza dell’irruzione sarà tale da smantellare ogni difesa, rivelandone a Roberto l’essenza, peraltro già sospettata (non è stupido) in quanto prigione. I segreti infatti sono meno ciò che egli racchiude, di ciò che invece racchiude lui. Un luogo (interiore prima ancora che fisico: la casa) in cui si sente sicuro, ma che rischia di soffocarlo tenendolo separato dal resto, con cui comunica (o crede di comunicare) solo da lontano, come guarda fuori dalla finestra che dà sul porto, dove persone e merci arrivano e partono e dove lui ha sì l’abitudine di recarsi a passeggiare e a fare colazione, ma sempre e solo per guardare, per assistere alla vita degli altri.

Dalla finestra però vede il mare, l’unica cosa che sembra rasserenarlo e appagarlo. Se era rimasto nella cittadina dove era cresciuto a seguito della madre, nonostante i concittadini gli fossero estranei e si fosse “sempre considerato apolide”, era stato “perché sentiva il bisogno di vedere il mare ogni giorno”. La finestra è l’apertura sul mondo, da lontano, restando nascosti, protetti, ma aperta all’incanto che dalla lontananza arriva: il porto e il mare. È la soglia protetta, segreta, tra interno (la casa, la piccola, simbiotica famiglia con la sola madre vedova, e con Maria poi) e esterno. Soglia che viene raddoppiata dal porto, dove però l’interno è soggetto all’irruzione anche violenta dell’imprevisto, come il litigio cruento dei due coniugi stranieri che lascia una forte impronta in Roberto e la cui memoria torna in alcuni contesti cruciali del libro, ma che comunica con il mare, aperto assoluto, che è bello guardare, che dà respiro, anche all’immaginazione, e che forse il figlio che alla fine Maria concepisce percorrerà, esponendosi a quei possibili che il padre si sarà negato, pago, alla fine, di quell’unico che per lui aveva importanza, e che con Maria si rivela ricco di tante imprevedibili, minime ma assolute, fioriture. Come se “alla fine tutto abbia un senso”.

 


 

 

 

 

 

 

18/09/25

Kafka, Diari, 20-1-1922 , vol. II p. 207 (Mia vecchia ediz. BMM)


 

“come se acquistassi il vero senso di me stesso solo quando sono insopportabilmente infelice. Ed è anche giusto che sia così.”

La prima frase suona convincente e vera. E non si può dubitare che così Kafka si senta, dal momento che lo scrive. Però mi sembra, quanto a ciò che dice, vera solo in parte. Perché l’infelicità, quando è insopportabile, se non annienta completamente la possibilità di pensare proprio in quanto insopportabile, tanto da non lasciare margine per nient’altro al di fuori di sé, può davvero portare a conoscere se stessi per avere allora raggiunto il proprio limite estremo, così che ci vediamo in modo radicale, privo di orpelli e superfetazioni morali o razionali, come ridotti al nocciolo essenziale del nostro essere nella vita, alla sua verità nuda e cruda. Ma che sia anche giusto, al di là del fatto che Kafka trova giusta ogni umiliazione e punizione e quindi ogni sofferenza, vero non è: nel senso che non c’è nessuna giustizia, nemmeno per chi si sente assolutamente colpevole, nell’infelicità, tanto più quando è estrema, al colmo della sua insopportabilità; e poi perché non può esserci senso vero senza quelli che sono ritenuti aspetti esteriori o superficiali o accessori, come la ragione e la morale ecc., senza i quali nessun discorso o definizione di verità può darsi né pensarsi. E infine perché un vero senso non si dà, tanto più unitario e immutabile, non soggetto ai continui mutamenti di ciò che sentiamo come noi stessi, se non come illusione prodotta dall’insopportabilità del dolore, che allora diventa un po’ meno insopportabile, dal momento che quanto meno elargirebbe la percezione del vero senso di se stessi. Cioè un po’ di consolazione. Resta vera solo l’insopportabilità percepita, la percezione di aver raggiunto una soglia oltre la quale non si può andare.

E però si va. Ci si tiene il dolore, si sta nella sua insopportabilità che prima o poi finisce. E allora si muore. O si allenta. E allora si scrive.

02/09/25

Rubens, Seneca morente

 


 

La carne rosa con velature grigie, che qualsiasi riproduzione tradisce, il rilievo più chiaro delle vene, i polpacci possenti rispetto alle cosce, ancora muscolose ma un po’ molli nell'incavo, come la carne del petto e dello stomaco, quasi cinerea, livida, come se la necrosi fosse già cominciata in vita, mentre il sangue ha appena preso a sgorgare solo dal braccio sinistro, quasi abbia subito una maldestra endovena: il corpo vecchio di un vecchio, senza infingimenti né compiacimenti, che non è seduto o immerso in una vasca, ma si erge con i piedi ben piantati in un grosso catino di ottone, un corpo che è stato possente e è ancora forte, monumentale, che va incontro alla morte senza timore né eroismo, solo lo sguardo rivolto in alto verso qualcosa di superiore, un principio che resiste, o di resistenza.

30/08/25

Le lumache non puzzano



Stamattina era tutto uno zigzagare tra lumache e qualche residuo lumacone. Prudentissime, affollano i marciapiedi, le corsie pedonali e i muretti e i bordi delle recinzioni. Ci tengono a non morire prima del tempo. Quando sono nate si sono trovate con una serie di istruzioni, con qualche libertà di variazione, e dei compiti precisi da eseguire, col solito tornaconto di piacere e gradevolezze varie (l’aria, la gradazione dell’umidità, le differenti temperature e superfici da cui farsi titillare ecc.), come da contratto, e loro si attengono alla programmazione senza bisogno che qualche supervisore controlli. Lo fanno volentieri e con leggerezza. Non dico velocità. Nemmeno quando si accoppiano, perché il compito principale è perpetuare la specie, ovvio: ma quello forse comporta qualche sforzo in più, non saprei, comunque premiato da un godimento adeguato. La natura non risparmia in merito. Meglio troppo che non abbastanza. Cioè, immagino, a partire dalla mia risicata esperienza, e dalla prosopopea dei discorsi dei miei simili, così come dalle reazioni di animali più facilmente osservabili. Va be’ che sto a dire? Ahi ahi! Comunque sia, io, che scelgo apposta strade senza traffico e gli ampi marciapiedi del quartiere residenziale che sono sempre deserti, tutti in casa o via di corsa nelle loro grosse macchine, e tutt’al più qualche disperato a perdere tempo in giardino o a curarlo, è lo stesso, perché così posso ascoltare musica, guardarmi attorno svagato, senza pensieri manco a volerlo, e senza dover stare attento a dove metto i piedi, cacche di cane a parte, abbastanza rare in questa zona, devo ammetterlo, se ora, per evitare inutili stragi, da aggiungere alle tante di cui leggo ogni giorno, uomini animali e piante mi è difficile fare distinzioni, tranne quando mi siedo a tavola, se ora, dicevo, devo camminare con la testa costantemente bassa, già che tendo a incurvarmi di mio oltre che per l’età, e con gli occhi fissi a un paio di metri davanti ai miei piedi, con il rischio di scontrarmi con qualcuno che inopinatamente arriva in direzione opposta intento a precauzioni analoghe, allora il gioco non vale più la candela. 

 

Qualche etologo mi dica quali sono gli orari preferiti per gli spostamenti di queste vagabonde, che io cerco di adeguarmi, sempre che non faccia troppo caldo. Altrimenti sarò costretto a passeggiare per i centri commerciali o per le vie delle città. Che però sono pieni zeppi di esseri umani che fanno tutto meno che camminare e ti arrivano addosso da ogni direzione. Brutti, cattivi e puzzolenti. Le lumache non ti investono, invece. Non grugniscono. E soprattutto non puzzano.


 

 

25/08/25


 

Nel polittico del Maestro Paroto, Madonna col bambino, donatore e santi, in prestito dalla Tosio Martinengo, in basso a destra c’è una santa Agata che, invece che adagiato in buon equilibrio con il suo gemello sul canonico vassoio, esibisce un unico seno tenuto delicatamente per un capezzolo, in sublime equilibrio, dalla stessa tenaglia che gliel’ha strappato e maciullato. Il seno con base resecata in alto ritrova grazie al martirio una sua perfezione iperuranica e forma con la tenaglia uno strano fiore, elegante e perturbante, una rosa, il cui colore viene ripreso e amplificato dal risvolto del lungo mantello che copre la figura slanciata, da cui spunta, specularmente rovesciata rispetto a quella che regge con la punta delle dita la tenaglia, una mano sottile, abbandonata con la stessa raffinatezza che caratterizza tutta la figura, dolce e rassegnata, più che orgogliosa, della santa. Noi la guardiamo senza orrore e senza malizia, con rispetto e tenerezza, e quasi con l’eco sommessa di un desiderio.