31/10/24

Uomo che cade


 

Non è raro vederlo cadere da sedie, ruzzolare da scale, inciampare nelle superfici più levigate, rovesciare bicchieri e rompere oggetti delicati in genere, picchiare testa gomiti e ginocchia contro qualsiasi cosa sporga o coinvolto in incidenti stradali di varia entità mentre segue traiettorie che solo a posteriori, e ad un esame molto accurato, rivelano una possibile razionalità tutta loro. Assume allora un’espressione più che di sgomento di meraviglia, e quasi di ebbrezza pur nel dolore che si affretta a manifestare con accenti di preferenza e di proposito grossolani, che è il suo modo di nascondersi, ovvero di sminuirsi, di deviare l’attenzione verso il marginale. Gli occhi, già di solito allegri, potenziano la loro luce e si dilatano in un’espressione gioiosa, per quanto affermare che solo allora si sente davvero felice sarebbe francamente eccessivo.


22/09/24

Il boia, il decollato e l'osservatore

 


Il boia, che di spalle e con il capo coperto nega il proprio volto allo sguardo agli astanti, nega lo sguardo anche alla vittima (nel Martirio di Cosma e Damiano, l'Angelico mette anche la benda agli occhi dei martiri, e non solo perché così si usava o per gesto di pietà o per evitare al boia, qui a capo scoperto, lo sguardo su di sé)) e segnala in tal modo allo spettatore che anche al suo sguardo, che sembra dominare l’insieme della scena che gli è rivolta, qualcosa viene negato: che c’è qualcosa che gli sfugge, che inficia il suo sguardo e la sua pretesa di dominio, che lì è il punto critico, la violenza che subisce, e che è necessaria, fondante forse, per quella che esercita.
 

Ma si potrebbe anche dire così: Il pittore, rappresentando di spalle e con il capo coperto il boia mentre, decapitando la vittima, assieme alla vita  le nega la (sua più intima) possibilità (che si riassume nello sguardo), sottrae anche il suo volto allo spettatore, il quale, proprio mentre crede di dominare l’insieme della scena, nell’azione rappresentata e nella relazione dei protagonisti tra di loro e con lo spazio, non si accorge di ciò che al suo sguardo manca pur avendola sotto gli occhi: la figura di schiena, e, con essa, la propria centrale cecità anche su se stesso.

 

Oppure ancora: Il boia decapita il condannato e, ovviamente, con la vita gli sottrae ciò che lo caratterizza come individuo, lo sguardo. Il pittore lo rappresenta di spalle, sottraendo alla vista anche il suo, di sguardo. Lo spettatore ecc.

Inoltre: l’opposto della figura di schiena è Medusa (cfr Vernant), che cattura lo sguardo e uccide, obbligando chi vuole “affrontarla” a darle la schiena e a guardarla di riflesso (e forse anche si sbieco?). Poi diventa lei la decapitata che non può vedere, anche se la sua testa e il suo sguardo di morta continuano ad atterrire (vedi l’uso sugli scudi: naturalmente Caravaggio).

 
In certe rappresentazioni però (specie nelle teste del Battista sul loro bel vassoio) la testa tagliata ha uno sguardo e, che sia rappresentato come sguardo cieco o che gli resti un barlume di vita, è comunque inquietante. Inquietante al quadrato, tanto da avere un che di ridicolo, è una lunetta del 1430 della cerchia di Michelino da Besozzo che ho visto di recente al Castello sforzesco, in cui il Battista, integro, presenta con sguardo mesto la propria testa tagliata, nei cui occhi socchiusi la mestizia sopravvive, alla Madonna che la guarda con sgomento, come ritraendosi impaurita e per proteggere dalla sua vista il bambino, che invece se ne sta beato con la manina in bocca, mentre un altro santo, Pietro da Verona, che esibisce il falcastro (roncone o mannaia) con la tradizionale lama che l’ha ferito a morte conficcata nel cranio, guarda la scena sereno e composto, quasi distaccato. Cosa è più inquietante? Il dialogo, e la stessa presenza, di questi 5 sguardi (incluso quello del bambino), meriterebbero un sesto sguardo, da parte mia, meno frettoloso di quanto ora posso dedicare. Per il momento basti questo, sorpreso come quello di Maria.
 

 

19/09/24

Francesco Permunian, Elogio dell’aberrazione

 Luca Del Baldo, Ritratto di Francesco Permunian
 

Il mondo di Francesco Permunian è un mondo di mostri. I suoi libri sono ambientati tutti nella provincia in cui è sempre vissuto, prima nel Polesine dove è nato pochi mesi prima della grande alluvione del novembre del 1951 che ha spopolato quella regione lasciando segni indelebili nella vita e nell’immaginario del territorio e dei suoi abitanti, e poi, dai trent’anni, sul lago di Garda, con un impiego da bibliotecario ora in pensione, conducendo una vita comune tra gente comune. Niente di speciale, tutto normale: solo che per lui la normalità è popolata di mostri. È essa stessa mostruosa. E lo è tanto più quanto più normale appare e vuole mostrarsi, imponendo le proprie regole, che sono poi quelle di consuetudini e tradizioni secolari e, nel caso della religione, millenarie, ora tutte in sfacelo sebbene sempre incombenti, tiranniche, anche se ormai quasi nessuno vi aderisce più veramente, o solo in modi ridicoli o rivoltanti. Tanto più mostruose quanto più affondano nel passato e pretendono di dettare la normalità. Perché normalità non esiste. È un puro involucro. Puro packaging, che però stringe e soffoca come una camicia di forza, da cui si cerca di evadere in tutti i modi pur restando aderenti a questo o quel suo simulacro. Aberrazioni di nessuna norma. Perché non essendoci più norma, non resta che l’aberrazione. E allora tanto vale farne un elogio, come titola il suo ultimo romanzo (Elogio dell’aberrazione, Ponte alle Grazie, 2022). Paradossale, grottesco, blasfemo, collerico, insano, per usare i termini che ricorrono nelle sue opere e spesso anche nei loro titoli, che però non derivano tanto da una volontà di scandalizzare o dal desiderio moralistico o sociologico di scoperchiare sepolcri e denunciare di ipocrisie e malcostumi (c’è anche questo, certo), quanto da un vortice di ossessioni e disagi e convulsioni personali e di esistenze che ne sono tutte travolte e annientate, furiosamente ma anche pietosamente, vivi, morti, fantasmi e larve, quasi tutti “esattamente a metà strada tra la nostalgia e lo sfacelo” (Camminando nell’aria della sera, Rizzoli, 2001, p. 220).


Elogio dell’aberrazione porta tutto questo all’esasperazione grottesca sotto il segno della scatologia e della merda. Della merda vera e propria in cui si rivoltolano materialmente nei loro giochi erotici il narratore, vicecapo cronaca di un giornale locale, e la giovane moglie che condivide e esaspera le sue predilezioni, e che poi lo lascerà per un gigante del settore, un imprenditore di una ditta di spurghi, che a sua volta la lascerà sempre nella stessa sostanza; in quella morale e esistenziale in cui si dibattono quasi tutti i personaggi indifferentemente dall’età e dalla condizione; e in quella simbolica, ma realissima, del girone che le è dedicato nel pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma, di cui un velleitario regista aspira a girare un sequel con il sostegno del direttore del giornale che ne fa il suo amante.

Più che un mondo, quello di Permunian dovremmo dire allora che è un im-mondo, dove ogni cosa e persona e relazione è per almeno un aspetto sporca e rivoltante: e allo stesso modo lo sono anche l’immaginario, le visioni, gli incubi che perseguitano il narratore di questo libro, come quelli di tutti i libri dello scrittore, e quindi, dovremmo desumere, anche lui in persona, dal momento che essi ne condividono numerosi elementi biografici, anche se poi vanno tutti a confluire in caratteri e figure perfettamente compiute dal punto di vista narrativo, e quindi autonome e giudicabili solo in quanto creature di finzione. Infestanti come i ricordi (che sono sempre ricordi di morte: polvere, come La polvere dell’infanzia del titolo di uno dei suoi libri più belli, del 2015, edito da Nutrimenti) che scaturiscono come spettri dal mundus, la fossa al centro della città che i romani aprivano una volta all’anno per consentire la fuoriuscita dei morti e così esorcizzare la loro costante minaccia favorendone la momentanea circolazione, mentre per il nostro scrittore essa è sempre spalancata, tutto circola sempre, e tutto infesta, infanga e sommerge, anche la tenerezza e la nostalgia che sembra accompagnare le cose e le persone amate, anche i buoni propositi, i propositi di bontà a cui comunque non intende rinunciare anche quando lo vorrebbe, nemmeno quando l’immondo spinge a fare di ogni erba un fascio e che tutto e tutti sprofondino nella cloaca da cui provengono e a cui sono destinati.

 

I narratori e protagonisti di Permunian parlano in modo disincantato, cinico e feroce (i suoi numi tutelari sono, prevedibilmente, Céline, Bernhard, Cioran, ma anche Quinzio, Manganelli, Landolfi, la linea veneta da Piovene a Comisso, Parise e Zanzotto…), e si pregiano di chiamare ogni cosa con il suo nome, e di scegliere, quando i nomi sono numerosi, il più basso e scurrile, direttamente, senza tanti giri; e se qualche volta indulgono a metafore, sono perlopiù avvilenti, scatologiche e blasfeme. Quasi sempre segnati da qualche bella tara anche loro, o più d’una, nel corpo o nell’animo, sono parzialissimi, imperfetti, fegatosi: come credere alle loro pretese di oggettività, di spassionato resoconto libero dai vincoli di pregiudizi e convenzioni? Trasudano bile; il rancore è il loro ossigeno; la malignità pettegola il loro cibo. La distorsione quindi (cioè l’aberrazione) non può che essere la regola. Il tono ambisce al resoconto, alla verità, ma l’eccesso di umore rende tutto inattendibile, conduce altrove, fa errare.

Tarati, sono circondati da una corte dei miracoli di storpi, vecchie e giovani ninfomani, depravati di vario grado, velleitari e falliti, specie quelli con ambizioni artistiche, dalle infanzie infelici, dalle vite luttuose, violenti e oggetti di violenza, ripudiati quasi tutti, in primo luogo da se stessi. E se anche ogni tanto da qualche crepa o spiraglio soffia uno spiffero elegiaco, un accenno di nostalgia e di tenerezza, resta solo come traccia fuggevole e va a depositarsi chissà dove, come un fondo di umana dolcezza che non viene negata nemmeno ai narratori più crudeli e distaccati.

 


Come a quello di Elogio dell’aberrazione, che, al pari di quasi tutti quelli dei libri di Permunian, racconta a partire da un osservatorio privilegiato, da insider, addentro a ciò che narra o nella condizione umana e professionale di accedere a notizie e informazioni personali e persino segrete, ma conservando una posizione di distanza perché non aderisce al mondo che pure osserva dall’interno: come il servo felice rispetto alla sua padrona del primo giustamente celebrato romanzo, o come il dottore che sta alla finestra da cui può osservare la piazza ma che conosce anche vita morte miracoli deficienze e vizi dei suoi pazienti e dei loro famigliari, che gli spiattellano le loro confidenze più segrete in Camminando nell’aria della sera, (Rizzoli 2001 e ora in Costellazioni del crepuscolo, il Saggiatore, 2017, assieme a Cronaca di un servo felice), o lo pseudo Permunian che bazzica la stazione ferroviaria e conosce tutta la fauna che vi passa o vive in Il gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti 2013)… In questo Elogio dell’aberrazione, è l’“autorevole vicecapo” della cronaca locale (vero e proprio ossimoro ironico), che riceve lettere e confidenze dei lettori che narrano le proprie magagne e perversioni, insoddisfazioni e voglie di rivalsa di uomini e donne che si sentono “umiliati e offesi”, come lo sono i genitori del narratore e tanti personaggi maggiori e minori, che non trovano altro modo per vendicare (o alleviare) le proprie offese che riversandole su altri, di condizione inferiore a quella già bassa che è la loro, o come il prete pedofilo a sua volta vittima da bambino di un altro prete pedofilo in una catena che sembra il legante, con altri orrori, di quella chiesa cattolica che il protagonista, come altri protagonisti permunianiani, odia più di ogni altra cosa, anche dell’odiatissima ghenga di miserrimi tacchini ripieni di boria e ambizioni, e di vuoto  e insulsaggine e servilismo, che costituiscono la società letteraria e il suo contorno culturale e mediatico, “piccolo clan intrinsecamente incestuoso e onanista” che nella sua rincorsa alla visibilità lascia ai margini derelitti che non sanno tenere il passo e finiscono a dormire in macchina e a fare discorsi alle cerimonie di consegna del “diploma di Benemerito della Rotaia” in qualche stazione grande o piccola.

La polemica contro il sottobosco (ma anche il bosco e i forestali) letterario e editoriale e intellettuale è un’altra delle costanti di Permunian. Non ce la fa a lasciarlo al suo liquame, a non farne oggetto del disprezzo più vario nei toni e nei modi, andando a scovarne le vergogne in ogni piega e sfumatura: è una ferita che non si rimargina, un rancore non tanto con le persone ma per ciò che diventa nelle loro mani la cosa che a lui preme di più, la letteratura, il segno dell’importanza decisiva che vi attribuisce e di una delusione che torna a tormentare ogni volta che si volge a guardare da quelle parti, dove non può evitare di volgersi perché lì è la sua vita, e che non vuole spegnersi e morire. Come un’offesa personale non lavabile, come una ferita che continua a suppurare, dolorosa e straziante: ed è per questo che a volte il discorso diventa anche sgradevole, perché di fronte a ciò che si ritiene vero, la vera gentilezza non sono il silenzio o l’eufemismo, ma dire senza reticenze come si pensa che le cose stanno.

 

Si discostano, tutti, da una norma che non c’è e vanno alla ricerca di qualcosa che ne faccia le veci, che la surroghi in quanto negata, magari da loro stessi nell’impossibilità di raggiungerla o perché gli è stata indicata nella sua idealità e poi sottratta, o perché hanno scoperto che è fasulla, malata, e cercano di adattarsi in questa erranza, di farla propria e, per quanto possibile, di goderne, sfoggiandola anche come un vanto o addirittura come lo stigma della propria identità, in assenza d’altro. Poi si accorgono che tutti sono “via”, tutti espulsi, tutti lontani, tutti mostri.

Allora diventano spietati, cioè troppo immersi nel loro errore, nel loro dolore, per avere pietà gli uni degli altri, che diventano solo occasioni e strumenti del loro bisogno di sollievo, fisico oltre che mentale (non a caso Permunian ha intitolato La casa del sollievo mentale, Nutrimenti, 2011, uno dei miei libri preferiti) e il narratore spesso non fa eccezione. È solo quando il dolore lo raggiunge e, anche se non concede tregua, viene accettato come memoria, come nostalgia che arriva a ondate lancinanti, che anche gli altri, e il mondo, diventano sostenibili, e persino apprezzabili. È il fondo di lirismo di Permunian, sempre pronto a spuntare e a diffondere il suo profumo nei momenti più inattesi. È il senso della perdita originaria, dell’abbandono delle origini a cui periodicamente narratore e personaggi, come memoria compulsiva o realmente, si trovano costretti a ritornare, a cercare di riattingerle, riuscendoci solo in parte, in modo magari profondo ma effimero. La terra natale sconvolta dall’alluvione; i compagni dell’infanzia, i difetti di costituzione per il piccolo e brutto narratore di Elogio, il manicomio, i resti nauseabondi e incancellabili della repubblica di Salò sulle sponde gardesane, le doti senza sbocco (il professore che lo vede come un futuro Calvino) o con fioriture momentanee che sono sempre foriere del peggio… L’ironia, la perfidia, la ferocia, il grottesco, ne sono la naturale conseguenza: non una scelta di maniera o l’effetto di una volontà provocatoria, ma la loro forma espressiva momentanea e insieme necessaria, l’emanazione (la suppurazione) spontanea; e con essi la loro compagna inseparabile, la malinconia, la tristezza che affiora invincibile, la sua eterna palude.

 



 

Appunti sparsi

 

Come il protagonista-narratore del suo romanzo d’esordio, che non dico essere il suo capolavoro per evitare il tic di una certa critica che in tal modo implicitamente riduce il valore della produzione successiva di tutti gli esordienti che hanno avuto il torto di partire con un libro perfetto o quasi, anche Permunian è un servo felice, ma della scrittura, per quando ossessiva, angosciosa e torturante possa essere: perché è solo per raggiungere la felicità, o quella specifica, inarrivabile felicità che si può trovare o perlomeno intravedere nell’opera, che si scrive, andando incontro, e anzi chiamando a sé demoni e ossessioni e rabbie e infelicità e delusioni e memorie nere e gli anni andati, e tutti i cari con loro, nella solitudine assoluta che il loro assembramento assicura, e protegge, e insieme nella sola consolante compagnia che essi, lacerando, garantiscono. Nessuno entrerebbe in questa foresta, se in mezzo non ci fosse l’albero da abbattere che promette di dissolvere i demoni, come Rinaldo il noce nella selva di Saron (Gerusalemme liberata, canto XVIII).

 

Non per sfuggire o esorcizzare, ma per corteggiare e sedurre i fantasmi nelle forme di corteggiamento che essi agognano, per convocarli, perché la loro presenza perseguita, avvelena e insieme esalta la vita e la addolcisce.


Ossessionati dal chiacchiericcio intellettuale e letterario, dai riti e dai maneggi e dalle miserie dell’industria culturale, dalla pochezza artistica della letteratura e umana dei letterati, ecc., ma perché se ne interessano, perché le seguono? Appurato che è come l’industria degli elettrodomestici o del turismo o degli insaccati, perché non riservargli la stessa indifferenza e occuparsi solo di ciò che vale? Solo che, nel maremagnum come fare a distinguere senza provare a informarsi? Ma se l’informazione è bacata e parte dello stesso meccanismo ecc. ci si ritrova nel circolo vizioso.

E comunque tutto schifo non fa, pare, se i nomi che vengono citati con amore o con onore sono poi così numerosi in tutti i libri, di ogni tipo (narratori, poeti, giornalisti, fotografi): ci sono abbastanza isole, nella merda, per abitarle ignorandola.

19/08/24

Sbudellamento ben temperato (appunto per niente. Incompleto. Su Smilevski, La sorella di Freud)

Se qualcuno, con bel gesto, si sbudella davanti a me e mi rovescia addosso tutto il suo dolore con grido ben temperato, emesso con la giusta modulazione, in stile adeguato, allora non è lo strazio che guardo, ma il gesto; non è dal dolore che mi sento chiamato in causa, ma dallo stile. E solo quelli giudico.

Si creano delle false aspettative, e poi si squarciano il petto se le vedono disattese. Scassano i timpani, lanciano altissime grida con qualcuno che esiste in quanto da loro presupposto, e che se esistesse nemmeno si sognerebbe di ciò che questo o quell’altro gli addebitano. Non sopporto gli urlatori; soprattutto gli urlatori metafisici.

Farò un’azione scorretta: parlerò male di un bel libro. A stroncare le schifezze non c’è gusto: le si raddoppia solo. Si aggiunge facilità a facilità. Il libro è La sorella di Freud, di Goce Smilevski (Guanda, 2011). La scorrettezza sarà doppia, perché ne parlerò per dire altro. Chi legge è avvisato. Se vuole un giudizio sul libro, eccolo: è bello, e vale la pena leggerlo ben oltre ciò che ne dirò.

Accenna alla relazione di Freud con la cognata Minna sulla quale è trapelato qualcosa con la scoperta (o pubblicazione) recente di alcuni archivi. (cfr. Michel Onfray)

Sono un po' stufo di questi libri che partono da fatti di cronaca o infarciscono la trama di personaggi storici e eventi, in parte documentati, altri inventati (penso, per es., al libro sulla sorella di Freud, che nel lager fa amicizia con quella di Kafka e a Vienna con quella di Klimt, e tutte e due finiscono in un manicomio diretto dal nipote di Goethe, dove si possono fare disquisizioni su un sacco di cose, bei riassunti di questo e quello magari ben cuciti sugli eventi narrati, e che danno poi occasione a pezzi di scrittura, qua e là notevoli, ma in mezzo a bei laghetti di noia).

O penso a quelli che lavorano di bulino lo strazio, cesellano con lo stile l'indicibile nel momento in cui lo dichiarano tale, esibendo la "profondità" delle viscere ancora sanguinolente, ma ricamate di tutto punto.

 


 

 


09/08/24

La notte di Bateer


Mi bruciava ancora gli occhi la luce blu che avevo fissato per tutta la sera per non guardare la fila delle bottiglie sottostante e, dietro, fatta a pezzi nello specchio, la mia faccia. All’uscita dal locale la luce, che sfumava al rosa verso i margini, si era ristretta a una lama che mi tagliava le pupille, dividendo il mondo in due piani sovrapposti, che a causa sua non riuscivano a coincidere esattamente come avrebbero dovuto. Le due metà vivevano ciascuna per conto proprio, come se non avessero mai avuto niente in comune, e io spostavo l’attenzione dall’una all’altra senza nemmeno pensare alla possibilità di fare qualcosa per colmare lo spazio che le separava e ricostruire in modo plausibile la striscia slabbrata che la lama aveva inciso e rimosso; per suturare la ferita, che peraltro non percepivo come tale.

Mi muovevo spostando l’attenzione dall’universo di sopra, che mi sembrava più interessante, a quello di sotto solo quando un piede incontrava un ostacolo o poggiava male sul selciato sconnesso. Vedevo le persone senza testa, al contrario di ciò che accade di solito quando, a causa della mia altezza e dato che cammino guardando sempre fisso davanti a me, senza chinare il capo o prestare attenzione a ciò che mi sfila accanto, scorgo solo frammenti di teste: capelli, una fronte, a volte due occhi e solo raramente il cranio intero. Ieri sera, invece, non vedevo niente: le teste erano tutte scomparse, la luce blu le aveva ghigliottinate, inghiottite nel suo buio.

Ogni tanto incocciavo in qualche corpo che non riusciva a evitarmi, ingannato dai miei movimenti incerti, persi più in alto, forse ondeggianti per l’alcol. Allora allungavo le mani alla cieca e spingevo violentemente da parte, contro il muro o un’auto parcheggiata sul marciapiede, il malcapitato, che non reagiva e, presumo, se la filava velocemente imprecando dentro di sé. Di solito mi muovo lentamente, in linea retta, e ci pensa la gente a scansarsi, anche nei luoghi più affollati e a costo di urtare qualcun altro. Sono grosso e non ho l’aria conciliante, come ha provato a dirmi una volta, con parole sue, un tizio, prima che un ceffone lo facesse volare di traverso. Ho la faccia spigolosa, scura anche di pelle. Vesto come vesto, con quello che ho raccattato o che mi è rimasto dai tempi passati, e non mi lavo spesso. Dove dormo da qualche tempo, non c’è acqua corrente e non sempre ho i soldi per un bagno. E quando ne ho preferisco usarli per altro, più urgente o importante.

Vedevo la strada poco trafficata allungarsi verso una piccola nube gialla in fondo e, ai lati, file di auto parcheggiate e alcune chiome di alberi senza tronco. Ho camminato così per un’ora, con lo sguardo concentrato sulla nube come in attesa che si diradasse rivelando che cosa nascondeva, ma la strada non sembrava finire né la nube diradarsi o avvicinarsi. Sentivo le gambe stanche e la bocca secca, la laringe insabbiata su fino all’attaccatura del naso, quasi che una piccola galleria le collegasse, una galleria appena scavata, con i bordi ancora arroventati dall’attrito della trivella. Quando, qualche metro più avanti, ho scorto una figura uscire da un’auto lasciata accesa in seconda fila per entrare in una tabaccheria sulla destra, senza pensarci ho raggiunto di corsa la portiera, l’ho aperta, ho ingranato la marcia e sono filato via.

Della donna mi sono accorto dopo, quando doveva gridare già da un bel po’, concentrato com’ero a lanciare la vettura a tutta velocità e con la musica dello stereo a pieno volume, robaccia americana con un tizio incazzato che, lui pure, urlava piuttosto convinto la sua, non so cosa: certamente una di quelle che i neri americani si fanno un punto d’onore di non sopportare e che a me non interessano affatto. Neri e americani sono e neri e americani restano.

Ho rallentato, ho spento lo stereo e ho guardato la donna, che di colpo ha smesso di starnazzare e si è convertita a un lamento sommesso, farfugliando solo « Per pietà… per pietà…» ogni volta che piegavo il capo verso di lei. Allora ho frenato e le ho fatto segno di scendere, ma lei ha ripreso ad agitarsi, a chiamare aiuto, e quando mi sono chinato per aprire la portiera dalla sua parte ha pure accennato a graffiarmi, ragion per cui non mi sono fatto scrupoli a afferrarle un braccio e a scaraventarla fuori, con la sua borsetta stretta al ventre per proteggerlo. O per proteggere la borsetta. Nessuno dei due mi interessava.

Avevo già i miei problemi a districarmi nel traffico, anche se rado, per via della lama negli occhi che mi obbligava a guardare lontano o troppo vicino. Dovevo alzare il capo, con la testa schiacciata contro il soffitto, e concentrarmi sullo spazio di sotto se volevo vedere per intero almeno l’auto davanti a me, ma così perdevo di vista la strada. Per un po’ mi sono limitato a seguire l’auto, andando dritto quando andava dritto, curvando se curvava. Poi ho tastato a fianco del sedile in cerca della leva per spostarlo, in modo da allungarmi e assumere una posizione più comoda, ed è stato proprio allora che l’auto davanti a me ha rallentato all’improvviso e io le sono finito addosso.

L’auto, grossa e robusta, ha sbandato per qualche metro ma l’uomo alla guida è riuscito a frenare mettendola un po’ di traverso senza urtare nessun’altra vettura, quindi è sceso scagliandosi come una furia verso la mia, che per la botta si era fermata. Ha aperto la mia portiera e ha preso a insultarmi ancor prima di vedermi. E io, prima ancora di capire una sola parola, gli ho dato un pugno che l’ha steso sull’asfalto. Un fuoristrada che sopraggiungeva e aveva rallentato per quanto era successo, ma guardandosi bene dall’arrestarsi, ha sterzato con un’accelerata e è schizzato via evitando il corpo di pochi centimetri. Io sono sceso, ho dato qualche calcio al sacco di carne per terra, ho raggiunto la sua auto e sono ripartito con quella.

Lo sfogo dopo lo spavento mi aveva messo di buon umore. Alla prima curva ho svoltato e mi sono fermato per  accomodarmi il sedile. Ho guardato nel cassetto sulla destra e ho trovato una bottiglietta di cognac ancora sigillata, l’ho aperta e ne ho scolato d’un fiato quasi metà. Sia ringraziato il Signore onnipotente.

Quando ero ancora a casa mia, da ragazzo, ho massacrato di botte un pio pancione che aveva messo gli occhi su mia sorella: lei però non lo voleva perché era innamorata di un mio amico. Io non capivo questa storia che era innamorata, ma non capivo nemmeno che i nostri genitori le volessero far sposare il pancione, anzi contentissimi che l’avesse chiesta in moglie; così cui una sera gli ho dato il fatto suo, gli ho preso il portafogli gonfio e sono scappato. Mai sentito così bene. Non l’ho ucciso, ma ho dovuto lasciare il paese lo stesso: con il mio fisico non era facile nascondermi e quello mi faceva cercare. Forse se l’ammazzavo era meglio. Prima di approdare qui ho fatto un giro lungo e molte cose, che non mi sono tutte piaciute. Sono venuto qui perché c’era un mio cugino, ma quando sono arrivato lui era sparito senza lasciare tracce. O almeno nessuno me le ha indicate, né io le ho cercate. Affanculo anche mio cugino, come dicono qui.

 

Adesso stavo guidando questo macchinone, che si muoveva bene nonostante il baule sfondato. Mi sono diretto verso la periferia, ho preso la tangenziale e ho girato in lungo e in largo fino a che non ho terminato la benzina e il cognac. Il cognac molto prima. Dire che lo bevevo per far sparire la luce blu sarebbe falso, però lo speravo. E comunque, se la luce non si decideva a sparire, perlomeno mandavo giù l’alcol, e questo mi piaceva.

Quando ho sentito che il motore si spegneva, ho accostato sulla corsia di sicurezza, ho perlustrato l’interno alla ricerca di qualcosa che potesse servirmi (un pacchetto appena aperto di sigarette, un accendino di plastica, una confezione di fazzoletti di carta e qualche spicciolo; una miseria in rapporto al lusso del macchinone, ma qui sono così: prima l’auto, poi tutto il resto; scommetto che l’ometto la  stava ancora pagando) e mi sono incamminato nella direzione di marcia, con le macchine che mi sfrecciavano accanto strombazzando ogni volta che la mia andatura, non so perché, mi faceva deviare verso sinistra senza che me ne accorgessi.

La tangenziale faceva un’ampia curva, quasi impercettibile, e io fissavo, nel mondo di sopra, delle luci che mi sembravano quelle di un distributore con annesso autogrill o bar. Arrivato nel piazzale ho atteso appoggiato al muro dietro il bar, fumando una sigaretta dopo l’altra, che qualcuno si fermasse. Quando una monovolume ha parcheggiato, ho finto di dirigermi verso la porta avvicinandomi piano all’autista, l’ho preso per il collo della camicia, gli ho mollato due pugni, uno in pancia e uno in faccia, e l’ho trascinato, svenuto, al buio. Ho frugato le sue tasche, ho preso il portafogli e le chiavi dell’auto, l’ho raggiunta e sono partito. Al primo svincolo sono uscito dalla tangenziale per tornare in città, ma ho imboccato la curva a velocità troppo alta, almeno per la mia visuale e quindi per le mie capacità di  controllo, e sono finito con la fiancata contro il guardrail, che mi ha accompagnato per una ventina di metri finché non sono riuscito a focalizzare la parte bassa della strada e a riprendere il controllo della vettura, ammaccata ma senza danni rilevanti. Bella macchina.

La notte era calda ma non afosa, andavo piano con i finestrini abbassati e la testa chinata in avanti per inquadrare la strada con lo sguardo di sopra. Il traffico sempre più scarso mi permetteva di rilassarmi senza pensare a niente e ogni tanto di distrarmi sbirciando i rari pedoni, le puttane quando ne incontravo e soprattutto se c’era qualche locale ancora aperto. Al primo che ho incontrato mi sono fermato e sono entrato a bere un paio di birre gelate. Al banco era seduta una donna che mi ha ammiccato, ma io non ho risposto, anche perché non sapevo quanti soldi ci fossero nel portafogli. Quando l’ho preso per pagare, ho visto che c’erano abbastanza liquidi da comprarmi una bottiglietta di whisky e che ne avanzavano anche per la donna, volendo. Solo che in quel momento non lo volevo: l’idea mi ha raggiunto lentamente dopo che ho ripreso a girare in auto, ma allora non sono più riuscito a togliermela dalla testa.

Mi sono diretto verso le strade dove avevo incrociato delle puttane, ne ho passato in rassegna alcune con lo sguardo di sotto e alla fine ne ho scelta una bianca, slavata e sottile, una che avrei potuto facilmente spezzare, volendo. L’ho montata davanti e poi, non sazio, da dietro, e avrei voluto farlo ancora, se quella non avesse insistito prima a farsi pagare. I soldi che avevo bastavano appena per le due già fatte e quella non intendeva farmi nessuno sconto. Allora lo sconto me lo sono fatto da solo: le ho dato meno di quanto pattuito, perché sentivo il bisogno di un altro paio di birre, e con uno spintone l’ho scaraventata fuori dall’auto, dicendole di ringraziare il cielo di quello che le avevo concesso. Lei mi ha rincorso urlando maledizioni e io l’ho lasciata dire: andavo sufficientemente piano da non distaccarla, ma non abbastanza perché mi raggiungesse. Infine, ridendo, ho sgommato e sono andato via.

Quando montavo la puttana, per via della lama e della mia statura, era come se lei non ci fosse: o non la vedevo o focalizzavo solo dei frammenti dell’abito o delle braccia, poco interessanti; sentivo il rumore dell’auto provocato dai miei movimenti e quelli, professionali, emessi dalla ragazza, incluse alcune mezze frasi che non capivo, e in certi momenti percepivo vagamente lo straccetto di carne e ossa del suo corpo che, mentre pompavo, mi veniva l’impulso di accartocciare e gettare via. Dopo ero tutto accaldato, anche per l’alcol che avevo in corpo, e ho continuato a sudare nonostante i finestrini abbassati. Mi era tornata la sete e quando ho trovato un chiosco aperto dalle parti dello stadio, ho speso i soldi che mi erano rimasti per tre lattine di birra ghiacciata, che ho scolato una di seguito all’altra stando seduto in auto.

Vedevo con lo sguardo di sopra il piazzale dello stadio illuminato, enorme e vuoto, punteggiato da alberi che in proporzione mi sembravano minuscoli. Mi sentivo bene e mi è venuta voglia di urinare. Sul lato destro, lungo un viale costeggiato da una linea del tram, gli alberi erano più grandi e più invitanti, li ho raggiunti in auto, sono sceso lasciando il motore acceso e ho aggirato un albero in modo da poter sbirciare il piazzale mentre mi svuotavo. Quello spazio aperto mi affascinava, mi ricordava qualcosa, ma avevo la mente troppo confusa per ricordare esattamente che cosa. Non importa: averlo davanti mi bastava.

Stavo per finire quando ho sentito la voce di una donna che diceva: «si vergogni!». Non le ho badato e ho scrollato il pene per farlo sgocciolare prima di rimetterlo nei pantaloni. Allora la donna, che nel frattempo si era avvicinata, si è rivolta all’uomo che la accompagnava invitandolo a fare qualcosa. Cosa ci facevano in giro quei due in un posto come quello, a piedi, a un’ora così tarda? L’uomo ha sussurrato di lasciar perdere, che non ne valeva la pena. «Sei sempre il solito», ha ribattuto lei isterica. «Per te va sempre bene tutto, lasci correre, lasci correre… sei diventato una mezza calzetta, un mezzo uomo, ecco quello che sei diventato. E lei si vergogni!» ha ribadito proprio nel passarmi accanto. Io vedevo solo i suoi piedi, ma la voce è bastata a orientarmi e le ho rifilato un ceffone che l’ha fatta volare a tre metri di distanza. L’uomo ha abbozzato una protesta: in un primo momento, non so se per disprezzo o solidarietà, avevo pensato di risparmiarlo limitandomi a uno spintone per salvargli la faccia, ma quando, chinata la testa, mi è parso di vedere nei suoi occhi come un’espressione di gratitudine, ho pestato anche lui.

Gliele ho date di santa ragione, con una rabbia improvvisa uscita fuori da chissà dove, senza riuscire a fermarmi, finché non ho sentito la donna che mi supplicava di smetterla, di avere pietà, a qualche metro di distanza. Mi sono voltato dalla sua parte senza vederla, sono rimasto lì, immobile e in silenzio, per qualche attimo, e me ne sono andato. Non so perché, ma mi è tornato in mente quando facevo il muratore. Lavoravo in nero, guadagnavo bene e non sentivo la fatica. L’unico problema era rispettare gli orari, ma una volta in cantiere continuavo tutto il giorno e mi divertivo anche, con i compagni che passavano a prendermi sulla strada ogni mattina con il loro pullmino. Me la passavo bene, abitavo con altri compaesani, i soldi non mi mancavano, tanto che ne potevo spedire una parte a casa, e nemmeno le donne.

Non fosse stato per il capocantiere sarei andato avanti così anche per sempre, volendo. Il capocantiere aveva l’abitudine di sfogare certi suoi problemi famigliari trattando con i piedi il primo che gli capitava sotto tiro, cioè tutti, a turno, escluso il sottoscritto, che evitava accuratamente. Finché un giorno, forse sovrappensiero, se l’è presa anche con me, andandoci pesante, tra i risolini dei miei compagni, non so se diretti a lui o a me. Io guardavo sopra la sua testa e facevo finta di non sentire, ma più restavo fermo, più quello mi urlava di lavorare, aggiungendo altre considerazioni personali. Se ho ben capito, non trovava il mio livello intellettuale adeguato alla professione e credo abbia espresso anche qualche apprezzamento sulla mia terra d’origine e su tutto il mio parentado, che pure è piuttosto ampio.

Quando si è accorto che il bersaglio odierno ero io e che avevo deposto il badile per avvicinarmi a lui, le parole gli si sono strozzate in gola e s’è messo a tossicchiare, che era il suo modo per chiedere scusa, forse; se non che io avevo già iniziato a muovermi e non potevo più fermarmi: così l’ho pestato per bene, con calma e metodo, tra gli applausi silenziosi dei miei amici. Sono stati loro, in quattro, a fermarmi e spingermi via, consigliandomi di non farmi più vedere. Il capocantiere non mi ha denunciato, per paura di ispezioni, ma io ho perso il lavoro e non sono riuscito a trovarne un altro in zona, perché si era sparsa la voce. Del resto, mi era piombata addosso una stanchezza improvvisa e qualche soldo l’avevo messo da parte. Allora ho cambiato città.

Sono venuto in questa città, più grande, per nascondermi meglio e convinto che avrei trovato più facilmente da sopravvivere. Ho trovato da dormire qualche giorno dopo, su indicazione di un compaesano che abitava in un caseggiato abbandonato, occupato da decine come me che resistevano da mesi a ogni tentativo di farli sloggiare, appoggiati da giovinastri del posto che offrivano una solidarietà di cui nessuno sentiva il bisogno. Ma già che c’erano, ogni tanto qualcuno ne approfittava, anche se spesso a provocare le incursioni della polizia erano proprio loro. Soprattutto qualche femmina era particolarmente generosa, a volte: non erano granché, ma a caval donato non si guarda in bocca. Troppo magre e, secondo alcuni, non del tutto sane, ma quanto a questo ci pensavano loro a prendere le dovute precauzioni (forse pensavano che anche qualcuno di noi non era del tutto sano).

Un giorno la polizia è arrivata in forze e abbiamo dovuto sloggiare. Prima c’è stata una mezza battaglia, alla quale io non ho partecipato, perché quel mattino sono tornato tardi; quando ho visto lo schieramento, non ho nemmeno cercato di entrare. Avevo fatto tardi per via di uno di quei lavori ai quali avevo dovuto adattarmi anche se non mi piacevano. Me lo aveva trovato uno che non abitava lì, ma che uno che abitava lì conosceva. Non mi piaceva nessuno dei due, però guadagnavo bene. Tanto più che spendevo poco.

Mi ero rivestito da capo a piedi e così conciato non mi è stato difficile trovare un nuovo lavoro, all’ortomercato. Siccome si cominciava a lavorare presto e c’era molto spazio, con la scusa di fare un po’ da sorvegliante e visto che sono grande e grosso, dopo qualche tempo sono riuscito a convincere il mio capo a lasciarmi lì a dormire la notte, in un sacco a pelo da cui sporgevo a metà, su una brandina pieghevole che di giorno nascondevo in un ripostiglio. Non so come, ma quelli per cui lavoravo prima mi hanno trovato quasi subito e hanno cominciato a chiedermi dei favori: roba semplice, tipo dare dei pacchi ai camionisti o ritirarli in attesa che loro passassero a prenderli, di notte o anche in pieno giorno, confusi nel viavai di mezzi e facce di ogni tipo. Posso sospettare cosa contenessero, ma non mi sono mai preso la briga né di chiedere né di controllare. In cambio mi hanno procurato dei documenti appena un po’ modificati di uno regolare che era sparito tempo prima, più qualche guadagno supplementare. In seguito, grazie ai documenti, ho aperto perfino un conto corrente. Poi, come se niente fosse, da un giorno all’altro, sono spariti tutti anche loro.

Ogni tanto non si trattava di pacchi ma di veri e propri contenitori in legno piuttosto pesanti che scaricavo e ricaricavo con il muletto. Quando gli amici arrivavano, il mio capo faceva in modo di non essere mai sul posto e nessuno mi toglie dalla testa che per qualcosa c’entrava pure lui, oltre che, ovviamente, i camionisti che nascondevano tutto quel po’ po’ di roba tra le casse di arance, mandarini, mandorle, carciofi, pomodori e compagnia bella. Un giorno è arrivata un’ispezione a sorpresa e il mio capo è stato trattenuto a lungo in questura o non so dove altro. Il mattino dopo era sorridente ma piuttosto scosso: da allora di pacchi e scatoloni e excompari non ne ho più visti. Comunque, dopo un po’ me ne sono andato anch’io.

Il fatto è che mi ero messo con una del posto e che da qualche mese non mi fermavo più a dormire se non quando comandato. Le cose con la donna andavano bene, perché i nostri orari non coincidevano e potevamo continuare con le nostre vite separate e lei non faceva storie ogni volta che mi veniva voglia di montarla. Anzi, sembrava che non aspettasse altro. Non era speciale, quanto a bellezza, ma a letto mi lasciava fare quello che volevo senza mai lamentarsi, tutt’altro… Una vera troia insomma. Trovarne così! Invece è stata l’unica. Finché anche con lei qualcosa non ha tardato a guastarsi e io ho cominciato a picchiarla, senza esagerare, ma abbastanza, secondo lei, perché un giorno mettesse in pratica la minaccia di denunciarmi. Così son dovuto andar via anche da lì.

Nel frattempo avevo lasciato il lavoro e di cercarne un altro mi era passato l’estro. Passavo le giornate senza combinare niente, se non qualche cosuccia per fare un favore a questo o quell’amico, fino a quando non ho esaurito quasi tutti i risparmi. Mi ero anche abituato a bere roba forte e buona e non ho più smesso, a seconda delle possibilità: sempre roba forte, ma sempre meno buona. Quello che potevo permettermi insomma. La carità non l’ho mai chiesta.

Una notte che camminavo ai bordi di una strada di periferia dove avevo trovato un rudere in cui dormire, un tizio in auto prima mi ha strombazzato all’improvviso alle spalle, facendomi sobbalzare, e poi ha sterzato come per investirmi, forse per divertirsi, per dare un taglio alla noia con una bravata divertente. Io mi sono gettato contro il muro e ho rivolto un segno di minaccia contro l’auto che si allontanava. Il gesto non deve essere piaciuto al conducente, perché ha frenato bruscamente e è tornato in retromarcia verso di me, cercando di schiacciarmi contro la recinzione di cemento alla mia destra. Con un salto all’ultimo momento mi sono aggrappato al colmo della recinzione e mi sono tirato su, di modo che il paraurti è finito contro il cemento e si è ammaccato. Quando ho mollato la presa e sono tornato a terra, il ragazzone al volante è schizzato fuori dall’auto assieme all’amico che gli sedeva accanto. I due avevano in mano delle catene e ridevano.

Mi sono preso dei colpi piuttosto dolorosi, ma alla fine sono riuscito ad avere la meglio, e allora mi sono sfogato con gli interessi, tanto da lasciarli privi di sensi ai bordi della strada, rotti e insanguinati, forse morenti, non lo so e non mi interessa. Prima di lasciarli, però, li ho ripuliti di tutto quanto potevo portargli via: orologi, soldi, telefonini, sigarette, accendini, bustine di stagnola, un coltello a serramanico che il proprietario non era stato abbastanza furbo da usare, e le chiavi dell’auto con la quale me ne sono andato. Ero avvilito e euforico. Sono tornato in città e mi sono messo a girare finché non ho trovato qualcuno a cui svendere tutto quello che non mi serviva, inclusa l’auto, e mi sono preso una stanza in un alberghetto. Vi sono rimasto un paio di giorni, il tempo di ripulire me e gli abiti, di comprare un cambio di biancheria al mercatino rionale e di farmi lunghe dormite e una puttana.

Di questo episodio non ho fatto tesoro sul momento, perché con i soldi raggranellati ho potuto permettermi di rimanere in città per un po’. Sono tornato nei vecchi posti e ho riallacciato vecchie conoscenze, che tra l’altro mi hanno trovato un lavoro da buttafuori in un locale, da cui però sono stato cacciato dopo qualche settimana per eccesso di violenza. Approfittavo di ogni minima effrazione alle consegne per lanciarmi sui ragazzotti più esuberanti o sbruffoni. Se non stavano in riga, ci pensavo io a fare ordine, soli o in gruppo che fossero. Non ce n’era uno che mi fosse simpatico. Anche con le vecchie conoscenze faticavo ad andare d’accordo, mi parlavano di cose nuove, di imprese epiche, guerre e vendette che per me non significavano niente, e questo li offendeva profondamente, a quanto sembrava. Allora hanno cominciato a guardarmi con sospetto e io ho pensato bene di sparire un’altra volta.

 

Così mi sono trovato di nuovo per strada, ed è stato allora che mi è venuto buono il ricordo dell’aggressione. Quando proprio non avevo altre risorse, potevo sempre prendermele. A volte non c’era nemmeno bisogno di muovere le mani: bastava la mia presenza e la minaccia verbale. Aspettavo un passante solitario in qualche posto buio, lo afferravo per il bavero o per il braccio e gli intimavo di darmi il portafogli, il cellulare e quant’altro. Qualcuno provava a protestare, ma bastava un pugno nel ventre o una sberla, se donna, per ridurlo alla ragione. In fondo la maggior parte della gente è vigliacca e alla sola idea di qualche botta quasi tutti calano le braghe. Poi magari sopportano le peggiori umiliazioni senza battere ciglio e affrontano le malattie più gravi con un coraggio insospettato. Ma l’idea di essere picchiati a sangue, quella non la reggono, chissà perché. E’ solo carne molle, inutile. Meglio per me, comunque.

Ma non si trattava solo di reperire di che sopravvivere: se uno vuole e si accontenta, da queste parti ci riesce senza troppi sforzi e senza nemmeno dover fare chissà che di irregolare; il fatto è che a un uomo di solito sopravvivere non basta. Quando lavoravo più o meno regolarmente avevo frequentato scuole dove insegnavano a scrivere e altre belle cose utili, anche per sapere cosa evitare, o luoghi di incontro messi su da gente piena di buone intenzioni, e c’erano sempre signore molto gentili e spesso sole dalle quali non era difficile ottenere compagnia. A una, una semibalena stordita e entusiasta, davo addirittura la mia biancheria da lavare e lei me la riportava puntuale stirata e profumata: si vedeva che non lo faceva proprio volentieri, ma aveva vergogna a dire di no e io facevo finta di non accorgermene. Con altre si riusciva a ottenere anche di più, una o due volte, ma erano di solito vecchie o sposate. Non il massimo, ma sempre meglio di niente.

Quello che mi faceva imbestialire, anche se mi trattenevo, era che dopo piangevano. Se facevo la pantomima di forzarle, invece, si sentivano meglio, perché così la colpa ricadeva su di me e potevano evitare di riversarla su se stesse. Non che per me facesse differenza: anzi, se potevano manifestarmi il loro odio era più facile che si concedessero ancora. Io all’odio non ci faccio caso, mi rimbalza addosso; e poi quello era un odio annacquato, gentile a modo suo, quasi tenero. Più tardi mi sono ricordato di queste manfrine e non mi sono fatto scrupoli a forzare qualche giovincella reticente che intercettavo in luoghi isolati, o raccattavo fuori dai locali notturni o con l’auto, quando riuscivo a procurarmene una. Alcune piangevano anche mentre lo facevamo, altre prima e dopo, altre ancora solo prima. La cosa più difficile da interpretare era quando non dicevano niente, ammesso che interpretare il loro silenzio mi importasse. Il pianto invece mi eccitava.

Così, quando la donna ha cominciato a supplicarmi di smettere di picchiare l’ometto al quale fino a pochi istanti prima aveva ritenuto opportuno illustrare tutte le sfumature del suo disprezzo, a supplicarmi e a piangere, mi è venuta voglia di montarla. In un primo momento ho pensato di farlo lì, contro una pianta, con l’uomo che rantolava ai nostri piedi, ma siccome la cosa veniva scomoda e c’era il rischio che l’uomo si riprendesse, l’ho presa per il braccio e l’ho trascinata verso l’auto ancora accesa.

È stato allora che ho visto le luci di una gazzella della polizia dall’altra parte del piazzale. Muovevo la testa velocemente e passavo da sotto a sopra, con lo sguardo, in modo incontrollato, così che a un certo punto mi è parso di vedere non una, ma tante gazzelle che si dirigevano verso di me. Ho spinto a malincuore la donna in mezzo alla strada, sono balzato in auto e sono partito a tutta birra. Ma la lama blu mi segava ancora gli occhi e non riuscivo a vedere bene la strada. Allora ho deciso di entrare nel vuoto del piazzale e attraversarlo a tutta velocità. Effettivamente alla prima gazzella se n’era aggiunta un’altra sbucata da una via vicina e entrambe venivano verso di me da direzioni differenti. Io mi sono messo a zigzagare tra gli alberi e i lampioni del piazzale, non ci vedevo bene e correvo il rischio di sbattere contro uno di essi da un momento all’altro. La sbornia ormai l’avevo smaltita quasi del tutto, ma la lama ancora conficcata negli occhi, sottile, e il rumore delle sterzate che mi rimbombava in testa mi impedivano di ragionare.

Le due gazzelle mi erano sempre più vicine, a momenti mi seguivano in fila, in altri una mi affiancava o mi tagliava la strada. Non sapevo cosa fare, i miei inseguitori erano più veloci e più bravi nella guida, non sarei mai riuscito a seminarli; così ho provato a sbarazzarmene puntando direttamente su di loro. Quando quella che ogni tanto cercava di bloccarmi tagliandomi la strada mi si è messa davanti, invece di frenare ho accelerato e l’ho colpita nella portiera posteriore. Si è girata su se stessa e è andata a sbattere con la fiancata contro un albero, ma quella era un’auto robusta e è ripartita subito. Io ho sterzato a destra, ma il rallentamento dovuto all’urto ha permesso all’altro inseguitore di ripiombarmi addosso e di urtarmi a sua volta. Anche la mia auto allora ha preso a girare su se stessa finché non si è fermata lei pure contro un tronco e il motore si è spento. Ho provato a farlo ripartire ma non rispondeva, così sono sceso e invece di mettermi a correre mi sono appoggiato al cofano bollente.

Le gazzelle si sono fermate, come prescritto, una a destra e una a sinistra, in diagonale, per precludermi la fuga, poi ne sono usciti tre poliziotti con le armi in pugno, mentre un quarto probabilmente comunicava qualcosa alla radio. Mi hanno ordinato di voltarmi verso il cofano con le mani alzate; io invece mi sono scagliato contro quello isolato, un ragazzo dall’aria impaurita, e l’ho colpito con una ginocchiata ai testicoli e con un pugno al volto in rapida successione. È volato indietro lasciando partire un colpo per aria prima di accasciarsi al suolo, ripiegato su se stesso come un feto. Gli altri due sono rimasti basiti per la mia reazione e hanno avuto un attimo di indecisione; questo mi ha consentito di raggiungerne uno e di sferrargli un pugno che gli ha spiaccicato il muso. Soltanto allora l’altro si è deciso a spararmi.

Ho sentito la pallottola entrare nella mia carne e contrastare per un attimo con la sua spinta la mia, senza riuscire a frenarla del tutto. Poi una seconda e una terza mi hanno trapassato il fianco, sparate da terra dal compagno. Una luce nera mi è calata di colpo sugli occhi e la vista mi si è spenta, ma è subito ricomparsa, nitida e uniforme, e mentre crollavo, in un tempo rallentato che mi è sembrato infinito, ho potuto girare la testa a guardare il deserto luminoso del piazzale. Bellissimo, ho pensato, contento della mia fine.

Invece quegli imbecilli non sono nemmeno stati capaci di ammazzarmi.