Quando sentì lo sterrato sotto la ruota, Mario frenò di
colpo e sterzò. Nonostante andasse a meno di cinquanta all’ora, il furgone
prese a slittare di traverso sull’asfalto bagnato, con i pacchi che
rimbalzavano da una parete all’altra, finché non si arrestò sulla corsia
opposta, le ruote anteriori fuori dalla strada e il muso a pochi centimetri da
un palo di legno che una volta doveva aver sostenuto il filo della luce o del
telefono.
Mario fissò il palo per qualche istante, poi riaccese in
tutta fretta il motore, inserì la retro e recuperò la propria corsia senza
controllare se qualcuno stava sopraggiungendo. Del resto controllare sarebbe
stato inutile: la nebbia era così fitta che persino i fendinebbia sarebbero
spuntati solo a pochi metri; e poi confidava che la strada, deserta già da
molti chilometri, lo restasse ancora quel tanto che gli serviva per la manovra.
Mise la prima e accelerò fino a raggiungere i quaranta, poi passò velocemente
alla seconda e alla terza e proseguì a quella velocità.
Come diavolo aveva fatto a non accorgersi che stava
uscendo di strada? Va bene che erano già parecchie ore che stava guidando nella
nebbia, ma non era da lui perdere la concentrazione in modo così stupido. Forse
lo aveva distratto l’assenza di veicoli e di qualsiasi altro segno di vita che
ormai si protraeva da tempo immemorabile: cosa insolita ma per niente
straordinaria in quelle condizioni; forse questo l’aveva indotto a perdersi
dietro a pensieri che ora non era in grado di ricordare, come protetto, invece
che minacciato, da un’assoluta solitudine che niente sembrava poter infrangere.
O forse era solo stanco e aveva bisogno di una pausa, di sgranchirsi le gambe,
stirarsi la schiena e guardarsi un po’ attorno, lasciando che gli occhi scivolassero
su qualche oggetto concreto e che le palpebre si abbassassero per qualche
secondo sulle loro tracce fino a dissolverle quietamente nel buio. Ma dove
fermarsi in quel deserto? E poi non era affatto stanco: aveva una consegna da
fare e per la stanchezza ci sarebbe stato tempo, semmai, solo dopo.
Era partito al calare del
buio per viaggiare con meno traffico in modo da arrivare a destinazione senza
affanno. Il tragitto non era lungo per gli standard di un camionista, meno di
cinquecento chilometri, ma la nebbia che da qualche giorno ricopriva la pianura
gli aveva suggerito di avviarsi con molto anticipo, perché i tre pacchi
dovevano assolutamente giungere a destinazione entro le 8 del mattino
successivo. Se non ci fossero stati intoppi, avrebbe potuto fermarsi a dormire
qualche ora in autostrada, o in un piazzale una volta arrivato. Invece in
autostrada non era nemmeno entrato, perché il display prima del casello aveva
segnalato file lunghissime per a una serie di incidenti, uno con dei morti,
come aveva specificato la radio su cui si era immediatamente sintonizzato ma
che aveva altrettanto immediatamente spento, e per sempre, al termine del
notiziario stradale, quando gli speaker avevano ripreso a snocciolare le loro
sciocchezze. Si era quindi rassegnato alla statale, benedicendo l’idea della
partenza anticipata.
Viaggiare con la nebbia non
gli era mai dispiaciuto, anche se da qualche tempo si guardava bene dal dirlo,
non tanto perché tutti gli davano del matto, quanto per risparmiare spiegazioni
inutili a chi non era in grado di capirle. E siccome la stessa procedura
l’aveva applicata anche ad altri argomenti, aveva finito col non parlare più
con nessuno, con gran soddisfazione di tutti probabilmente. Sua, di certo. Se
veniva interpellato, però, rispondeva, laconico ma cortese; a volte si lasciava
persino andare, quando la compagnia occasionale gli appariva per qualche motivo
stimolante, o quando la molla delle parole scattava automaticamente per qualche
suo insondabile ritmo circadiano o astrale. In quelle circostanze poteva
riuscire pure simpatico, irresistibile se gli interlocutori erano di bocca
buona o disposti a condividere il bolo delle sue rimuginazioni, ma con la
tendenza a esagerare, quasi per involontaria compensazione, come a risarcire le
parole che si era vietato di dire: ragion per cui in seguito si infliggeva una
proporzionale penitenza del silenzio, che a lungo andare aveva imparato a
apprezzare di per sé. (Ma allora come penitenza non vale più, osservava il
chierichetto che sopravviveva in lui. E chi se ne frega, rispondeva poco
convinto il Mario adulto.)
Proprio in occasione di una
di quelle rare serate, in un ristorante per camionisti della provincia, Mario
aveva conosciuto Vittorio St… (non ricordava più il cognome, ma era quasi
sicuro che cominciava per St; o per Sc… Sco, Sca, Scu; non Sce né Sci; o Sp; o
Sd?; no, Sd no; più facile Sp, o St; sì, St), l’uomo che gli aveva telefonato
attorno alle tre di quel pomeriggio per chiedergli se poteva fargli il favore
di rimpiazzarlo per un trasporto urgente, dato che all’improvviso, dopo aver
già caricato la merce, gli era venuto un febbrone da cavallo. Vittorio, che gli
aveva promesso di aiutarlo qualora ne avesse avuto l’occasione, si era
certamente inventato la malattia per evitare il nebbione, sapendo che la
situazione precaria in cui Mario versava lo avrebbe indotto ad accettare
qualsiasi proposta, ma non per questo Mario gli era meno grato.
Si era affrettato a
raggiungere Vittorio all’indirizzo indicatogli e lo aveva trovato, tutto
imbacuccato e tremante, già accanto al suo camion stipato di casse di ogni
tipo. Vittorio gli aveva chiesto di scaricare i tre pacchi, di peso e volume
modesto persino per il suo furgone, che dovevano essere assolutamente
consegnati a un magazzino presso un porto al di là delle montagne entro le 8
del mattino seguente. Poi gli aveva dato la bolla intestata a una ditta dei
paraggi con il nominativo del trasportatore malamente scarabocchiato, gli aveva
fatto qualche accenno circa il pregio della merce e la “delicatezza”
dell’incarico (aveva pronunciato delicatezza come se avesse le virgolette,
lasciando intendere chissà che, certo per dare importanza al favore richiesto)
e si era premurato di passargli subito, in contanti e di tasca sua, metà del
compenso, che avrebbe poi saldato alla riconsegna della bolla timbrata dai
destinatari, la sera successiva, in quello stesso posto. Mario aveva rifiutato,
ma Vittorio aveva insistito perché accettasse almeno i soldi per il carburante
e l’autostrada, che lui aveva intascato per non offenderlo (e anche perché gli
facevano comodo). Poiché però il magazzino avrebbe chiuso ben prima del suo
arrivo anche se fosse andato spedito, non era partito subito e aveva deciso di
aspettare il buio nella speranza, infondata come avrebbe presto verificato, di
trovare meno intralci.
Per un paio d’ore se n’era
stato buono buono in mezzo alle file di luci che, davanti a lui e sulla corsia
opposta, lo incanalavano su un binario sicuro: bastava un po’ d’attenzione e
mantenere la distanza di sicurezza. Poiché il traffico procedeva lento e le
luci non mancavano, aveva avuto anche il tempo di sbirciare i cartelli più
bassi per controllare la direzione, finché una lunga fila causata da un nuovo
incidente appena dopo il ponte sul Po non lo aveva costretto a deviare nella
prima laterale che aveva incontrato, una strada provinciale che non aveva mai
percorso. Si era fermato su uno spiazzo per dare un’occhiata alla cartina e
studiare bene la strada stretta e piena di curve; ma poi il traffico era come
sparito tutto d’un tratto e si era messo a viaggiare di buon umore. È vero che i fari delle altre macchine
facilitavano l’orientamento, ma, per quanto non fosse di quelli che si
spazientivano alla minima fila, preferiva essere lui a decidere il ritmo del
viaggio: meno vetture aveva attorno, più si sentiva tranquillo e sicuro. Tutto
infatti sarebbe dipeso dalla sua sola attenzione, ora rivolta esclusivamente
alla strada, senza doversi preoccupare per le sempre possibili balordaggini
degli altri autisti, magari inesperti o resi pericolosi proprio dall’eccesso di
prudenza indotto dalla nebbia.
Per quasi un’ora non aveva
incrociato anima viva. La nebbia era sempre più fitta e il buio attorno
assoluto, poiché nessun lampione costeggiava l’asfalto, se non nei rari borghi
che il furgone attraversava come macchie fosforescenti e incorporee. Mario
preferiva così: nella nebbia, la luce dei lampioni in genere è dannosa, crea
illusioni vaporose, informi, che inducono a presagire chissà che e alterano il
senso delle distanze, sia pure di breve raggio, che i fanali delineano. Le
strisce sui bordi e al centro dell’asfalto erano ancora quelle originarie, di
quando la strada era stata tracciata nella notte dei tempi, quasi cancellate
ormai, o nei tratti meglio conservati stinte, discontinue, e lui aveva dovuto
rallentare: non abbastanza tuttavia da non ritrovarsi davanti all’improvviso,
quando ormai si era convinto di essere rimasto solo nella pianura, una macchina
che procedeva a meno di venti all’ora e l’aveva costretto a frenare per non investirla.
Di solito, quando incappa in
una vettura lenta che non può sorpassare, Mario rallenta ancora di più o
addirittura si ferma alla prima piazzola e spegne il motore per un po’, ma
stavolta non aveva incontrato piazzole e pertanto si era rassegnato a seguire
l’auto senza azzardarsi a sorpassarla, finché all’entrata di un borgo una
piazzetta incongrua, illuminata come gli Champs Elysées, non l’aveva convinto a
farlo, sperando che nessuno attraversasse proprio in quel momento. La macchina
aveva poi cercato di tenere il suo passo, ma ben presto, nonostante la velocità
contenuta, i suoi fari erano scomparsi dal retrovisore. Forse era arrivata alla
meta, o forse aveva deviato in qualche laterale che lui non aveva notato. O
forse persino quell’andatura prudente era parsa eccessiva all’inseguitore.
Comunque sia, quando non si era visto più nessuno alle spalle, Mario aveva
accolto la rinnovata solitudine con un sospiro di sollievo.
Non erano ancora le 9 e gli
restavano poche decine di chilometri prima di arrivare alle montagne, dove
quasi certamente la nebbia sarebbe scomparsa. Aveva accettato la proposta di
Vittorio perché negli ultimi anni la vita del trasportatore indipendente si era
fatta dura. Le grandi case internazionali, che coprono in modo capillare tutto
il territorio e assicurano consegne in tempi veloci a costi contenuti, si erano
ormai accaparrate anche le spedizioni più modeste dei privati, dei piccoli
commercianti o di quegli imprenditori che, avendo i propri mezzi occupati, in
precedenza si rivolgevano a quelli come lui, sempre disponibili, che non si
facevano problemi di orari e distanze (né domande sulla merce trasportata). Il
lavoro scarseggiava. Gli restavano ancora incarichi occasionali, che alcuni
clienti della zona gli assicuravano grazie ai prezzi stracciati che era
costretto a fare, o per amicizia o per buon cuore, come si dice. A volte veniva
assunto per qualche settimana, o al massimo due o tre mesi, quando qualche
autista era malato o per circostanze particolari, ciò che gli permetteva di
sopravvivere alla benemeglio ma non garantiva la benché minima sicurezza per il
futuro. Questo incarico poteva aprirgli le porte di nuovi clienti: forse
Vittorio si sarebbe rivolto a lui anche in seguito, o quelli del magazzino
presso il porto e i loro eventuali consociati, a cui avrebbe lasciato la
propria totale disponibilità, o chissà… Prima poteva permettersi addirittura di
scegliere e, specialmente dopo che la sua compagna lo aveva lasciato (“per
sistemarsi una volta per tutte”), di alternare periodi in cui lavorava a spron
battuto ad altri in cui si dedicava a ciò che voleva, fosse pure quello che la
gente chiama non far niente di niente. Quando doveva trasportare merci in
luoghi lontanissimi, gli capitava anche di fermarsi qualche giorno per visitare
la zona, se gli piaceva, o semplicemente per starsene su una veranda o a una
finestra a guardare un paesaggio diverso.
Quello di trasportatore non era stato il primo mestiere che aveva fatto. Dopo aver interrotto gli studi universitari al terzo anno (racimolando solo sette esami), aveva prestato il servizio civile e questo gli aveva facilitato alcune assunzioni temporanee prima presso un Comune vicino, poi in ditte della zona. Si trattava in genere di lavori di ufficio, facili quanto noiosi, che aveva svolto con sufficienza distratta, e che si erano trascinati fino a quando il padrone dell’ennesima ditta della serie gli aveva chiesto se era disposto a fare anche l’autista. Lui, tanto per cambiare, aveva accettato. All’inizio si era arrangiato con gli automezzi consentiti dalla sua patente, quindi aveva preso quella per i camion, appassionandosi sempre di più al nuovo lavoro, tanto che in capo a qualche anno, messi da parte un po’ di risparmi, aveva comprato a rate un grosso furgone per iniziare un’attività autonoma. Non l’aveva fatto per una questione di soldi, che peraltro allora per le sue esigenze bastavano e avanzavano: la decisione l’aveva presa per decidere da solo cosa e quanto fare, per poter gestire il proprio tempo come voleva, per darsi il tempo che voleva per ogni cosa gli venisse in testa di fare (tutte cose essenziali peraltro, a suo dire).
Anche il tempo speso guidando
gli apparteneva, dal momento che era solo e non doveva rendere conto a nessuno,
entro certi limiti, di come lo impiegava, tanto più che, non essendo avido, in
genere si asteneva dall’affrettare i ritorni per aumentare il numero dei viaggi
- a parte i periodi in cui lo prendeva una forma acuta di voracità chilometrica
(la “dipendenza da asfalto”, come la chiamava tra sé), nei quali non lasciava
il volante se non per caricare e scaricare, se stesso oltre che il furgone. La
ragione dell’appagamento che gli offriva la guida non risiedeva però nella
possibilità di divagare con lo sguardo o il pensiero, altrimenti avrebbe odiato
guidare con la nebbia, quanto, tutto all’opposto, nella concentrazione da essa
richiesta, che proprio la nebbia intensificava al massimo grado. Anche per
questo la amava. Nella nebbia, diceva, sei così concentrato a controllare le
strisce sull’asfalto che non hai né tempo né voglia di guardarti attorno o di
pensare ad altro. Men che meno al motivo per cui sei in viaggio. Ne va della
vita. Sei tutto intento a non uscire di strada, a evitare qualsiasi ostacolo
improvviso ti si pari dinnanzi; se alzi lo sguardo non vedi niente, i
cartelloni pubblicitari sono ridotti ai pali di sostegno, a lettere tagliate a
metà, le immagini a frammenti talmente insignificanti che non viene nemmeno lo
stimolo di ricostruirle, e l’unico momento in cui ti distogli dalla carreggiata
è alle rotonde o quando incroci altre strade che potrebbero farti risparmiare
tempo o file, e solo per controllare i cartelli e le indicazioni, quando sono
visibili. Tempo per altro non resta: il tempo che hai è quello in cui sei,
concentrato al massimo grado.
Eppure, non appena per
qualche metro la nebbia sembra diradarsi o una promessa di rettilineo si
profila, la strada scompare dai pensieri. Conti i chilometri, guardi tutti i
quadranti del cruscotto, regoli il riscaldamento, ipotizzi varie velocità medie
e calcoli i corrispettivi tempi che separano dalla meta, se non sai la distanza
esatta ti arrangi col pressapoco (poi si vedrà), verifichi a brevi intervalli
su quale media ti stai assestando, ti impegni a raggiungerne una più elevata o
ti accomodi a un passo più rilassato pur tenendo conto di possibili
rallentamenti, progetti soste che poi rimandi a tempo indefinito perché finché
tutto fila liscio è meglio continuare, e poi allenti la tensione delle braccia
e delle spalle, ruoti lentamente la testa sul collo, concedi alle palpebre
riposi fulminei, alzi il piede dall’acceleratore e fai brevi esercizi per
sciogliere il polpaccio, quindi stendi la gamba sinistra, la pieghi e la porti
ritmicamente dal basso in alto e viceversa, alzi il bacino e ti appoggi con
forza contro lo schienale; e intanto nella testa cominciano ad affacciarsi
parole.
Spesso sono parole
smozzicate, indesiderate, accenni di parole o suoni che si coagulano in termini
isolati, naufraghi, ma che lentamente prendono ad allinearsi per proprio conto,
a formare frasi che in genere assomigliano a litanie propiziatorie, stereotipi
personali di riti che tuttavia sul momento ignori, mentre talvolta assumono la
forma di un breve pensiero che ti sorprende come un camion che spunta
all’improvviso su quella che credevi fosse la tua corsia, così che d’istinto
sterzi o freni; o un solitario podista che caracolla stremato sul bordo
dell’asfalto, come quello in calzoncini e maglietta fosforescenti, con un
sacchetto di plastica in testa, che Mario aveva incontrato attorno alle 10, a
parecchi chilometri di distanza dall’ultimo paese, e che gli aveva suscitato
un’irrefrenabile tentazione di travolgerlo, assommando alla punizione che si
stava infliggendo da solo anche la sua, prima di riconoscere in lui una qualche
fratellanza, diretta o bastarda, la stessa consanguineità che abbiamo coi
macachi e altri nobili animali (ma appunto: una ragione in più per non
resistere).
Quando la visuale è ampia e
la strada si spalanca prevedibile e sicura, o comunque non assorbe tutta
l’attenzione, è come se tradisse il tuo interesse e l’impulso a divagare
diventa automatico, così che ti trovi costretto a respingerlo, perché odii i
pensieri oziosi, e la concentrazione richiede uno sforzo supplementare: ora
invece, nella nebbia (ma forse è sempre così), è un breve gironzolare del
pensiero subito interrotto, un susseguirsi molto intervallato di false partenze
che tuttavia non mancano mai di sfiorare qualche nervo scoperto, di convogliare
sbuffi di aria gelida verso qualche carie nascosta, incipiente o in momentaneo
letargo, dalla quale si allontana poi in tutta fretta (il dolore rimane però:
indefinito e pungente). Basta questo a distrarre, e allora, come niente, alla
subitanea sterzata del pensiero si accompagna un movimento impercettibile del
braccio, che inclina il volante tanto che la ruota anteriore scalina dalla
carreggiata e la percezione improvvisa dello sterrato sotto la ruota fa
scattare la reazione automatica che porta a girarlo bruscamente in senso
opposto e a frenare, incurante dell’asfalto reso viscido dall’umida sporcizia
che la nebbia vi ha depositato per lunghi giorni, con la pazienza del peggio.
Solo dopo le manovre
concitate di riassestamento, raggiunta una prudente andatura di crociera, Mario
ebbe modo di pensare al pericolo corso, squassato da un brivido talmente
fulmineo che se ne accorse solo a posteriori, dal tremore residuo e dal
prepotente bisogno di urinare. Lo aveva già sentito in precedenza, ma aveva
soprasseduto, come al solito, perché nella sua personale psicobiologia della
guida ha sempre considerato la vescica incendiata come una compagna premurosa
che aiuta a stare all’erta. Si sarebbe liberato più tardi, pensava, quando
proprio non sarebbe più riuscito a resistere, o quando avrebbe raggiunto le
montagne. Se fosse stato in autostrada, si sarebbe fermato a un autogrill a
mangiare qualcosa di caldo e a bere un caffè prima di andare alla toilette, ma
su questa strada sperduta non ricordava più quando aveva intravisto l’ultimo
bar, e con questa nebbia l’idea di fermarsi sul bordo non era nemmeno da
prendere in considerazione. Era sua convinzione che urinare è una cosa seria,
che va fatta con calma e in totale libertà di spirito, e non col furgone
parcheggiato a metà sull’asfalto con la paura che qualcuno arrivi
all’improvviso senza accorgersi che è fermo: meglio trattenersi quindi, anche
se costa fatica. Il differimento della soddisfazione, così sperava, la renderà
ancora più intensa, anche perché in tal modo non sarà obbligato a trascurare la
componente contemplativa che rende perfetta la minzione, che è minata
dall’assenza di riferimenti, come avviene nella nebbia, mentre viene
corroborata dalla presenza di un limite uniforme, quali un muro o delle
mattonelle, o di uno spazio aperto, come quello che era convinto di trovare
sulle montagne, dove avrebbe potuto lasciar finalmente vagare lo sguardo giù
per qualche valle, nell’aria pulita e pungente, disseminata di luci lontane.
(Sull’argomento, uno dei suoi
preferiti al pari di tutti quelli relativi alle funzioni corporali, Mario
sarebbe però ritornato dopo aver compiuto l’atto, accorgendosi, con l’incerto
sussidio dei suoi studi remoti, di aver fatto un po’ di confusione e di avere
indebitamente mescolato due forme distinte di minzione, sia pure a modo loro
perfette: quella lirica, sognante e fantastica, con qualche spruzzo
cosmogonico, delle mattonelle e del muro, e quella epica, sublime e onnipotente
degli spazi sterminati; mentre forse la forma più perfetta di minzione, la più
pura, sarebbe raggiungibile solo quando l’atto si compie e si consuma in sé,
senza bisogno d’altro, in una dimensione metafisica che proprio la nebbia
potrebbe invece agevolare; ma si tratta di sottigliezze, avrebbe infine
tagliato corto, che niente aggiungono alla pienezza del piacere, che è ciò che
solo conta.)
Mangiare invece si può, anzi
devo, pensò Mario, che dal mattino aveva messo sotto i denti solo la miseria di
una mela. Sfilò dal sacchetto sul sedile accanto uno dei due panini che aveva
preparato prima di partire, gli affibbiò un bel morso e prese a masticare
lentamente. Ogni tre morsi, sorseggiava una bottiglia di acqua minerale tiepida
che aveva messo nel sacchetto accanto ai panini: un’imprudenza che accentuò il
bisogno di urinare, che alla lunga divenne irresistibile. Si trattenne ancora
però, finché non trovò un spiazzo dove fermarsi senza pericolo.
Appena sceso, si accorse che
nell’angolo opposto dello spiazzo baluginava un piccolo fuoco accanto al quale
si stagliava una figura scura, che alla vista dei fari si affrettò nella loro
direzione. Lui intanto si era allontanato di qualche passo per urinare, quando
la figura scura emanò dei suoni bassi e rasposi che dicevano: «Scopare venti, pompino quindici». Immediatamente il suo meccanismo si
bloccò. «E tu che ci fai qui, in una
notte come questa?», disse Mario
sorpreso. «Scopare venti, pompino
quindici», ribadì la figura scura,
che intanto lo aveva raggiunto e stava fissando il minuscolo aggeggio che Mario
teneva in mano e che il freddo e l’imbarazzo rattrappivano ulteriormente. «No, grazie», disse seccato Mario, «mi
ero fermato per un’altra ragione, come vedi.»
«Scopare quindici, pompino dieci»,
ribassò allora la donna, piccola ma con mammelle e sedere spropositati. «Ti prego», sussurrò Mario affranto, «ti
prego, lasciami in pace. Ho bisogno di stare solo». «Scopare dodici,
pompino otto», supplicò allora
quella, che evidentemente non capiva o fingeva di non capire. «Senti»,
disse infine Mario, «te ne do dieci
se mi lasci in pace. Per favore…»;
e, senza rimettersi niente a posto, prese una banconota e la diede alla donna.
Lei la afferrò, la fece sparire da qualche parte e si inginocchiò davanti a
lui. Mario allora rinunciò definitivamente al suo proposito, si rimise in
ordine in tutta fretta e si incamminò verso il furgone con la massima dignità
di cui era ancora capace. Quindi ripartì. “Un pompino con la vescica pronta a
esplodere!” pensò, mentre tornava a perdersi nella nebbia. Ma la vescica
restava sul punto di esplodere comunque.
Si trattenne quanto gli fu
possibile, pacatamente orgoglioso del suo eroismo, trascurabile forse nella
gerarchia ufficiale degli atti eroici ma non per questo meno significativo, con
la testa in fiamme, oltre che la vescica, man mano che i chilometri passavano,
finché, stremato da una tensione che il resto del viaggio aveva tradotto solo
in banale acido lattico, dovette cedere. Accostò con prudenza e dispose il
triangolo a una ventina di metri dal furgone, pronto a balzare nel campo che
costeggiava la strada se qualcuno fosse sopraggiunto; tornò indietro lasciandosi
il furgone alle spalle e si abbandonò a quella che gli parve una liberazione
primordiale, nella sua violenza: una palingenesi.
Ne riemerse effettivamente
rinnovato, sebbene meno di quanto avesse sperato, ma con un residuo come
placentare addosso, con la leggerezza sventata delle origini, che poco si
curano delle conseguenze di ciò che stanno combinando nell’ebbrezza di una
crescita ancora informe. Invece di tornare al furgone, si mise infatti a
camminare, quasi a correre nella nebbia, etereo, come in un brodo primigenio,
avvolto da un silenzio mai prima udito, respirando a pieni polmoni tutte le
oscure schifezze attorno a cui l’umidità si addensava. Erano i momenti in cui
la sua scelta di fare quella vita lo ricompensava con i dividendi più esaltanti,
perché non cercati e nemmeno immaginati. Proseguì per qualche minuto, poi, più
lentamente, appagato, tornò al furgone. Cinque minuti dopo essere ripartito si
ricordò di aver dimenticato il triangolo. Pazienza.
Le montagne non dovevano
essere lontane e Mario si scoprì ad aspettare con ansia il momento in cui la
nebbia sarebbe scomparsa. Gli sembrava che avesse ormai esaurito tutte le sue
funzioni, ma quella perdurava sempre più fitta, intessuta di macchioline gialle
che quando sfioravano il cofano arroventato schizzavano via come gocce d’olio,
senza evaporare, e poi venivano risucchiate ai lati, stampandosi sulla
carrozzeria, credeva Mario, fino ad avvolgerla con una membrana fosforescente
che ne illuminava i bordi per pochi centimetri e proteggeva veicolo e
conducente dal collasso definitivo nel buio. Era come se il furgone avanzasse
circonfuso da un alone di santità, un alone fragile e provvisorio che sarebbe
bastato un soffio a revocare, ma che, finché durava, gli conferiva il passo
sacro di una processione, cadenzato dal ritmo del motore con i toni bassi, tra
il solenne e il funebre, della banda che apre il corteo.
Allora Mario prese a
canticchiare inni latini di cui aveva dimenticato, di ogni parola, almeno una
sillaba, che sostituiva a orecchio, con la soddisfazione di chi reinventa una
lingua scomparsa, un’antenata più dolce di quelle che nel tempo l’hanno
surrogata. Per accompagnare meglio il canto, lasciava talvolta che il motore,
pian piano, cadesse di giri, fino a raggiungere, prima di inserire una marcia
inferiore, i toni più cupi di un ritmo costipato, vicino a esalare. Ma non
cambiava prima di aver dato, in folle, dei colpi secchi all’acceleratore, come
barriti che annunciassero un nuovo passo, l’inizio di un’oltraggiosa corsa a
perdifiato. Invece, inserita la marcia, recuperava subito l’andatura meditativa
precedente, solo di un semitono più alta, come la memoria di una gioia che era
più bello negarsi. E siccome era solo e la strada era diritta, o era resa
diritta dalla lentezza, per un po’ Mario giocò a questa alternanza di
soffocamento e di espirazioni violente, finché il suo affetto per il motore non
prese il sopravvento, anche se ora lo immaginava lui pure contento di essersi
potuto in qualche modo sfogare.
Dopo la sbandata, Mario aveva
guidato con molta prudenza, ma doveva avere percorso parecchi chilometri,
eppure delle montagne non c’era ancora traccia. Gli corse l’occhio all’orologio
e vide che mancava poco a mezzanotte. La cosa lo insospettì: non era possibile,
anche a quella velocità la strada avrebbe perlomeno dovuto cominciare a salire
già da un bel po’. L’unica risposta che gli venne in mente era che era tornato
indietro senza accorgersi, prendendo la direzione che gli era sembrata più
ragionevole alle varie rotonde, oppure che stava girando a vuoto, sempre sulla
stessa strada che forse a un certo punto, invece di condurre alle montagne,
compiva una serie di impercettibili conversioni e ritornava alla pianura.
Cominciò a sembrargli strano
che, oltre alla prostituta, non aveva più incontrato né una persona né un
centro abitato né una macchina. Peggio: non ricordava nemmeno di avere
incontrato delle rotonde o di aver più visto una segnalazione da gran tempo.
Attento a non uscire dai minimi segmenti che a fatica gli si aprivano dinnanzi,
non aveva più pensato alla direzione; era così sicuro di essere sulla strada
giusta che non ci aveva più fatto caso. Sulla cartina era segnata solo quella,
il resto erano sentieri o carraie che si sarebbe certo accorto di imboccare, se
gli fosse capitato. Impossibile sbagliarsi, anche se con questa maledetta
nebbia…, pensò per la prima volta. No, impossibile…, e decise di proseguire
prestando maggior attenzione agli eventuali segnali ai bordi della strada. Non
gli restava altro da fare: di tempo ne aveva a iosa e non era il caso di
agitarsi, si disse fiducioso, ma in fondo sgomento.
Tuttavia dalla nebbia
continuava a non affiorare niente. Per cercare di capire dov’era, Mario prese a
fermarsi ogni tanto, ormai convinto che nessuno sarebbe arrivato, e a esplorare
qualche campo confinante, ma ovviamente gli spazi striminziti che riusciva a
vedere non si distinguevano l’uno dall’altro. Più il tempo passava e più
cominciava a odiare la nebbia. L’inconsistenza della sua antica predilezione,
quella sì che gli appariva ora in tutta la sua evidenza: quel non vedere
niente, chiuso in un bozzolo, solo con se stesso e la strada; oppure
quell’intravedere le cose che spuntano a una a una nella compiutezza del loro
essere lì, esattamente come sono, come venute a esistere proprio in
quell’istante nella loro forma essenziale, priva di ogni orpello, anche del
colore, che tutt’al più si accenna col pudore di una velatura quasi
impercettibile; o ancora quando si stagliano a gruppi in tanti fondali,
separati e insieme connessi da un vuoto che in lontananza si addensa, lasciando
però a ciascuno la sua coerenza: tutte scemenze. (Anche se…)
Fu mentre si voltava verso
destra per posare sul sedile la bottiglia vuota che gli parve di scorgere una
tenue luce sfilargli accanto, come quella di un’insegna al neon. Vide che
l’asfalto scendeva con una leggera pendenza verso quello che sembrava uno
spiazzo in terra battuta e decise di fermarsi. Parcheggiò il furgone e si
diresse verso la luce, che risultò essere l’insegna di un bar. Davanti all’ingresso
erano parcheggiate alcune auto, provenienti da chissà dove e giunte lì chissà
da quanto. Com’era possibile che ci fosse tutta quella gente in giro quando lui
da ore non incontrava nessuno? Non provò nemmeno a rispondersi e entrò.
Il locale era
spropositatamente ampio, se si pensa al deserto circostante, e arredato lungo
le pareti da poltroncine imbottite che formavano semicerchi attorno a tavolini
ovali, dal piano di cristallo, e al centro, disseminati senza criterio, da
tavoli quadrati che all’occorrenza potevano essere tolti o accostati per
lasciare spazio a una pista da ballo. Le luci erano soffuse e da qualche parte
usciva della musica indefinibile a basso volume, per tamponare il silenzio. Un
pub!, pensò con sorpresa Mario; squallido nella stessa misura delle sue
pretese. Ad accrescere questa impressione era forse il numero degli avventori,
esiguo rispetto a quello dei tavolini. Erano quasi tutti soli ai tavoli,
immobili e assorti, a parte due gruppetti che parlottavano seduti nelle poltroncine
più lontane dall’ingresso. Uno era composto da tre coppie vestite con grande
eleganza, come se si stessero recando a una festa; gli altri avventori, invece,
erano vestiti nei modi più vari, ma quasi tutti con un che di trasandato.
Molti, per quanto cercassero di darsi un tono, avevano l’aria smarrita. Chi era
seduto da solo aveva lasciato almeno un tavolino libero tra sé e il vicino,
tranne alcuni che, costretti a stare l’uno accanto all’altro, o si davano le
spalle o si ignoravano ostentatamente.
Mario si avvicinò al lungo
bancone, davanti al quale due avventori erano appollaiati su alti sgabelli.
Dietro però non c’era nessuno. Dopo aver atteso un po’, si arrampicò su uno
sgabello e chiese al suo vicino di destra che fine avessero fatto i baristi. Quello
gli rispose di aver sentito che ce n’era uno solo, il quale se n’era andato
dopo aver ricevuto una telefonata dicendo che sarebbe tornato immediatamente.
Ma era già passata almeno un’ora da quando lui era arrivato e il barista non
era ancora tornato. «E chi vuole
bere qualcosa?» «Alcuni si sono spazientiti», rispose l’uomo, «e si sono serviti da soli».
«Sono curioso di vedere chi pagherà», aggiunse.
Mario non sapeva cosa fare,
voleva un caffè ma non era capace di farselo; sete non ne aveva. Allora, scusandosi,
importunò di nuovo il vicino, chiedendo se sapeva dov’erano di preciso e quanto
mancava alle montagne. Quello gli fece il nome di una località sconosciuta, e
poi gli disse che erano più vicini al mare, all’altro capo della pianura, che
alle montagne. Ne era sicuro? In risposta Mario ricevette un’occhiata offesa.
Per la prima volta parlò il secondo vicino, che affermò risoluto che era vero
che erano a pochi chilometri dal mare, ma che il nome del paese era un altro.
Mario li fissò entrambi
disorientato e per un po’ se ne stette in silenzio a pensare, mentre i due si
scrutavano a vicenda come a chiedersi la ragione dell’altrui vaneggiamento.
Infine si decise a ripetere a voce alta le stesse domande a tutti i presenti.
Come prima risposta ricevette solo sguardi oltraggiati, di chi è bruscamente
svegliato da un sogno o ha ricevuto una richiesta importuna e assurda; ma
presto, dopo una pausa imbarazzata, prima un uomo seduto al centro del locale e
poi altri avventori presero a dire ciascuno dei nomi diversi e a dargli le
indicazioni più disparate, relative a una geografia forse coerente e
verosimile, ma di una parte del mondo a lui del tutto ignota. A quelle parole,
sia coloro che avevano parlato sia quelli rimasti in silenzio si guardarono
attorno con aria stupita, quasi accorgendosi solo in quel momento della
presenza degli altri, e iniziarono tutti a discutere animatamente, alcuni
persino a litigare, a parte un paio che sorridevano tra sé dall’alto di una
superiorità le cui ragioni erano note solo a loro.
Mario rinunciò presto a
seguirli e si appoggiò al bancone con le gambe penzoloni dallo sgabello. «E chi se ne frega dove siamo», gli sussurrò il suo vicino di sinistra,
versandosi da bere una robaccia biancastra dalla bottiglia quasi vuota su cui
aveva tenuto tutto il tempo la mano. Mario lo guardò senza assentire, scese
dallo sgabello e se ne andò.
La nebbia, se possibile, era
ancora più fitta, tanto che Mario stentò a ritrovare il furgone nello spiazzo
che ora gli sembrava immenso. Accomodatosi, si cullò alcune volte contro le
molle del sedile stirando all’indietro le spalle con mosse secche e decise e
sporgendo in avanti il collo come una tartaruga; prese la cartina che aveva
squadernato sul sedile accanto e senza consultarla la ripiegò ordinatamente, la
ripose nello stipo e ripartì. Pochi minuti dopo, la strada cominciò a salire e
la nebbia, lentamente, a diradarsi.
Ora Mario poteva guardarsi un
po’ attorno, ma ancora per molti chilometri non incrociò nessun cartello e
tanto meno un centro abitato. Il livello del carburante era ormai prossimo alla
riserva, ma per fortuna aveva sempre una tanica di scorta che gli avrebbe
assicurato almeno cento chilometri supplementari. Non era però scritto che
avrebbe dovuto servirsene: anche se nelle valli che attraversava non baluginava
la benché minima luce, era senza dubbio a causa della residua foschia, e prima
o poi da una curva confidava che sarebbe spuntato qualche paesino con il suo
bel distributore automatico.
Tuttavia il tempo passava e,
nonostante la nebbia fosse sparita, attorno il buio restava così compatto che
nemmeno gli abbaglianti riuscivano a penetrarlo, a parte le rocce sui fianchi
della montagna e il limitare di alcuni prati o gruppi di alberi ai bordi della
strada, coperti qua e là di neve. Era una notte senza luna, o forse la luna era
coperta da una di quelle cortine di nubi che si addensano sulle montagne anche
in assenza di perturbazioni, col preciso intento di non andarsene prima di
essersi completamente sgravate di tutta la neve che le gonfia. Difatti, non
appena le pendenze si fecero più ripide, cominciò a nevicare. Una neve calma,
che cadeva a fatica in grossi fiocchi asciutti, quasi al rallentatore, come
respinta dall’aria pesante, senza vento. Nemmeno il furgone, che ora correva
veloce, riusciva a smuovere i fiocchi che gli cadevano accanto, più propensi a
incollarsi alle fiancate che a fuggire sfarfallando alle sue spalle.
Presto la visuale si ridusse
di nuovo a pochi metri, con il rischio supplementare che il fondo ghiacciasse o
che la neve si accumulasse tanto da rendere molto arduo, se non impossibile,
l’avanzamento. Allora Mario, intanto che l’asfalto era ancora sufficientemente
libero, decise di accelerare ulteriormente, nella speranza di raggiungere il
passo e di scollinare prima che la neve avesse tempo di porre in atto tutte le
sue minacce. Rischiare era contrario alle sue abitudini, ma stavolta ne valeva
la pena: aveva un carico da consegnare entro una precisa scadenza, un carico
per lui prezioso perché dalla consegna poteva dipendere il suo futuro.
Di solito non pensava a ciò
che trasportava (né al futuro, del resto), se ne dimenticava non appena l’aveva
caricato, così come, per lunghi tratti, dimenticava persino la destinazione,
non solo, come è naturale, quando il tragitto comprendeva principalmente
autostrade, ma anche quando non prevedeva che strade statali o provinciali. Una
parte di lui registrava tutto il percorso alla partenza e non c’era più bisogno
di richiamarlo, se non per singoli dettagli ogni tanto, e sempre in modo automatico.
In quei lunghi intervalli si
lasciava portare dal furgone come se fosse dotato di una coscienza autonoma,
dimentico anche di se stesso. Ne seguiva fiducioso ogni scelta, adattando il
ritmo del respiro al suo, quello del sangue alle pulsazioni del motore. In quei
momenti i suoi sensi percepivano tutto, il paesaggio attorno, il traffico con
le sue variazioni, il trascorrere dello spazio e del tempo, ma senza che fosse
necessario prestarvi attenzione, sigillato in una bolla di beatitudine che si
nutriva di se stessa, in una sorta di appagamento erotico asessuato, minerale.
Trasportare qualcosa da un posto a un altro, pensava sorridendo di se stesso
quando usciva da questo stato, era solo una scusa, o piuttosto ne era il
presupposto, indispensabile ma secondario quanto alle sue specifiche modalità.
A mente fredda pensava invece il contrario. (Deciditi!, si diceva allora, come
se decidere fosse importante.)
Fortunatamente la neve
continuò a cadere asciutta e lenta fino quasi al passo, formando una coltre sottile
ma non troppo pericolosa. Come è ovvio, Mario dovette rallentare, anche a causa
della pendenza più marcata, ma meno del previsto. Solo a un chilometro dallo
scollinamento la nevicata si trasformò in bufera, con fiocchi più umidi che
turbinavano velocemente quasi volessero aggredire il furgone e impedirgli il
passaggio. Mario pensò se mettere le catene, ma calcolò che non ne valeva la
pena. Il tempo speso avrebbe consentito alla neve di accumularsi ulteriormente
e la vetta era vicina.
Andava così a passo d’uomo,
in prima, in mezzo alla carreggiata, trascurando la possibilità che qualcuno
sopraggiungesse in senso opposto ma pronto a sterzare verso le rocce alla sua
sinistra e disposto a accettare anche uno scontro frontale, che a quella
velocità non avrebbe causato seri danni se non alla carrozzeria, piuttosto che
rischiare di cadere nelle scarpate alla sua destra. Il motore ululava dalla
disperazione come un animale sgozzato e la frizione mandava odore di bruciato,
ma di mettere la seconda per farlo riposare non se ne parlava, perché anche
così le ruote spesso slittavano. Il livello della benzina era quasi a zero e
quello della temperatura dell’acqua al massimo, a dispetto della ventola che da
mezz’ora girava all’impazzita.
Per la prima volta in tutta
la sua carriera Mario dovette farsi forza per respingere le ondate di panico
che lo assalivano a intervalli sempre più ravvicinati. Respirava velocemente
sbuffando a colpi secchi alternati a brevi serie di inspirazioni profonde che
poi rilasciava con un lungo soffio continuo, trattenendo a fatica l’impulso di
liberarsi e aspettando più che poteva prima di ricominciare. Gli occhi
schizzavano dalla strada ai bordi alla consolle, e su questa da un led
all’altro e ai quadranti analogici, prima di costringersi di nuovo a fissare la
carreggiata ormai invisibile che solo la roccia da un lato e il dirupo
dall’altro segnalava.
Si accorse di aver scollinato
solo dal cambio di pendenza. Era fradicio di sudore, con le braccia e le gambe
anchilosate e gli occhi bruciati dall’attenzione e dalla lucentezza abbagliante
della neve. Decise di fermarsi, bufera o non bufera. Spense il motore, tirò il
freno a mano e chiuse gli occhi, la testa rovesciata all’indietro contro il
sedile. Pensava di sostare almeno un quarto d’ora, anche per far raffreddare il
motore, ma dopo cinque minuti la mano afferrò da sola la chiave dell’accensione
e mise in moto.
Altri cinque minuti e la
bufera cessò del tutto, senza preavviso, con un taglio netto. Un istante
turbinava ferocemente, quello dopo era sparita, senza nemmeno un fiocco
disperso a segnare il passaggio, come due mondi paralleli, infinitamente
contigui ma per sempre non comunicanti. Uno di luce accecante, l’altro di
accecante oscurità, che Mario accolse però come la benedizione di un abbraccio.
Tuttavia la strada scendeva così ripida, con numerosi tornanti che nessun
cartello preannunciava, che rinviò l’euforia ancora per un po’.
Affrontò la discesa usando al
più la seconda marcia e ogni tanto in folle per timore di restare a secco in mezzo
alla strada, finché trovò uno slargo e si fermò di nuovo. Tutti avevano bisogno
di una pausa: il motore, i freni e anche lui.
Appena dischiuse la portiera
l’aria gelida lo colpì come uno schiaffo, ma benefico. Era ancora accaldato,
sia per il riscaldamento che aveva fatto girare al massimo per l’intero tratto
montuoso, sia per la tensione accumulata. Le guance avvampavano, come la testa,
tanto che l’aria, venendone a contatto, pian piano gli formò attorno come un
alone di tepore, un’aureola che vibrava di tenue luminosità, mentre agli occhi
si sovrapponeva una lente di ghiaccio, sottile, trasparente, che tuttavia non
infastidiva né lui né la sua visione, che anzi sembrava capace, ora, di
addentrarsi nel buio, di scandire i contorni di forme nascoste, di dar loro un
corpo e riconoscerle e nominarle. Non era molto quello che riusciva a
percepire; ciononostante, un blocco alla volta, andava a comporre un paesaggio
che gli appariva smisurato, cosmico, pur sapendo che si trattava solo di una
modesta parete di roccia scavata per ricavarne uno spiazzo di emergenza. A ogni
respiro sentiva l’anima che si sturava sempre più, per usare le sue parole, e
si colmava di un vuoto quieto, che si traduceva in ondate di riflusso organico,
quasi di carezze. Se le concesse solo pochi istanti però, per timore di esserne
sopraffatto fino a crollare al suolo e lì addormentarsi.
Si sentiva bene. Troppo. E,
come sempre quando gli accadeva, si irrigidì di colpo, incapace di abbandonarsi
– sempre con una buona scusa.
Stavolta la scusa era che il viaggio non era ancora concluso; che, anche se già
gli pareva di sentire l’odore del mare, di scorgere in lontananza il baluginio
delle stelle sulla superficie appena increspata dell’acqua, il tratto da
percorrere restava lungo e le difficoltà da non sottovalutare, se l’esperienza
serve a qualcosa. Tra poco la discesa sarebbe finita e poi avrebbe potuto
immettersi nell’autostrada, presumibilmente non affollata, e godere di una
buona visibilità, ma preferiva non allentare ancora la tensione e spingere al
massimo per dormire eventualmente due o tre ore all’arrivo. Svuotò la tanica
nel serbatoio e ripartì.
Per alcuni chilometri la
discesa si snodò ancora ripida, tra tornanti che ne attenuavano la vertigine
solo per sostituirgliene un’altra, diversa ma non meno perturbante; poi la
strada si fece più comoda, alcuni brevi rettilinei preannunciarono la pianura e
Mario cominciò a vedere qualche casolare ai bordi della strada, una fila di
lampioni in fondo a una valle, delle nubi luminose che stagnavano a mezz’aria
sopra la macchia nera di un bosco, finché in fondo a un rettilineo più lungo
comparvero le confuse costellazioni dei paesi del litorale. Come dal nulla
spuntarono anche decine di cartelli che segnalavano tutte le possibili
direzioni e distanze. Dapprima Mario venne assalito dal desiderio di dirigersi
verso la litoranea per fermarsi a sgranchire le gambe sulla battigia, poi seguì
i cartelli che indicavano l’autostrada e la imboccò senza rimpianti.
Raggiunse la zona industriale
vicino al porto quando mancavano ancora un paio d’ore all’alba, col segnale
della riserva di nuovo acceso. Trovò facilmente la via e si fermò al primo
parcheggio. Scese dal furgone e urinò sulla striscia d’erba e sabbia che lo
costeggiava, forse un progetto abortito di aiuola, e al ritorno in cabina si
tirò addosso una pesante coperta con l’idea di sonnecchiare fino all’orario di
apertura di fabbriche e magazzini. Non puntò la sveglia, sicuro che il sonno,
se mai fosse giunto, sarebbe stato leggero e che sarebbe bastata la ripresa del
traffico a svegliarlo.
Alle sette e mezza la
giornata lavorativa sembrava già al suo colmo. Macchine, camion e operai a
piedi o in bicicletta andavano e venivano lungo la strada. Gli spazi per il
parcheggio erano quasi tutti occupati e presso l’entrata dei magazzini si
stavano già formando file di clienti e fornitori. Mario controllò il numero
sulla bolla di accompagnamento, se la mise in tasca e, visto che era abbastanza
vicino, lasciò il furgone al suo posto e si diresse a piedi verso il magazzino.
Il sole stava raggiungendo le cime dei capannoni e intiepidendo l’aria. Mario
camminava tranquillo sul marciapiede, come uno sfaccendato a passeggio,
guardando nei cortili e sbirciando in qualche portone spalancato. Pochi passi
erano bastati a dissolvere tutta la stanchezza accumulata: si sentiva leggero,
sciolto, la testa al pari delle membra. Aveva calcolato qualche centinaio di
metri, data la dimensione dei capannoni, e non si sbagliava; ma quando giunse a
dieci numeri da quello che cercava, i capannoni terminarono; poi non c’era che
terreno vago. La parte più vicina alla strada era ricoperta di immondizie e
masserizie di ogni genere, vecchie biciclette senza ruote né manubrio,
materassi, pezzi di macchinari arrugginiti, sacchi di iuta sventrati da cui
fuoriuscivano resti di oggetti irriconoscibili, dai colori slavati, disossati
dall’invisibile formicolio della decomposizione.
Controllò di nuovo la bolla e
vide che non si era sbagliato. Allora, con la bolla in mano, entrò nel
capannone più vicino e chiese se qualcuno sapeva dove fosse la ditta che vi era
indicata. Nessuno ne aveva mai sentito parlare, nemmeno quelli dei magazzini
adiacenti. Mario scrutava i suoi interlocutori con aria sempre più incredula:
alcuni sembravano veramente interessati a quanto diceva, altri abbozzavano dei
sorrisini. O forse era Mario, che cominciava a farsi un’idea, a vedere quei
sorrisini sui loro volti, a disegnarli per proprio conto decifrandoli da quelle
che erano solo smorfie, rughe di per sé inespressive, insignificanti come
coloro che ne erano marcati. Finalmente qualcuno ebbe l’idea di verificare su
un elenco telefonico, ma Mario se n’era già andato prima che quello tornasse
con la risposta.
Raggiunto il furgone, aprì lo
sportello posteriore e trascinò a terra uno dei pacchi. Con un temperino tagliò
l’adesivo che lo sigillava e cominciò a togliere l’imballaggio. Dentro c’erano
solo coriandoli di carta da giornale e dei sassi, per fare peso. Fece per
cercare il numero di Vittorio, ma rinunciò prima di digitarlo. Pur immaginando
già la risposta, telefonò invece alla ditta dell’intestazione, dove l’impiegata
dichiarò che nessun Vittorio faceva trasporti per loro e che l’azienda non
aveva clienti da quelle parti. Allora Mario prese anche gli altri pacchi e li
scaraventò sull’asfalto dietro il furgone. Ebbe l’impulso di prenderli a calci,
ma si trattenne. Indietreggiò verso il furgone, chiuse lo sportello e vi si
appoggiò, guardandosi attorno. Si sforzò di respirare lentamente, a fondo,
trattenendo l’aria fino quasi a scoppiare, prima di lasciarla uscire, con gli
occhi chiusi, in un solo flusso, continuo e silenzioso. Riaprì gli occhi e
inspirò di nuovo. Dietro i capannoni doveva esserci il mare, ma Mario non lo
vedeva. Le esalazioni delle fabbriche e del traffico soverchiavano il profumo
di salmastro; eppure, con un po’ di attenzione, si sentiva lo stesso.