27/04/18

Dino Garrone, Prose scelte (ed Sestante, 1993)



È bello poter parlare di un libro come questo, che non solo è la testimonianza della fedeltà alla memoria di un uomo morto giovane e che in vita non aveva pubblicato nemmeno un libro, una memoria che continua a rinnovarsi propagandosi, senza clamori ma tenace, da coloro che lo avevano conosciuto e amato ai loro amici e da questi ai propri e così via, ma permette anche a un pubblico più ampio di conoscere un’opera finora nota quasi ai soli specialisti. Altrimenti il nome di Dino Garrone, nato a Novara nel 1904 e morto di setticemia a Parigi nel 1931, avrebbe corso il rischio di confondersi tra i tanti citati più o meno di sfuggita nei capitoli che le storie letterarie dedicano alle riviste minori e regionali del ventennio fascista.
Dai frammenti citati nella sua intensa introduzione dal curatore di queste Prose scelte, Francesco Scarabicchi, e in un saggio posto da Luigi Russo in appendice a La critica italiana contemporanea, sarebbe anzi auspicabile anche una riedizione delle Lettere, pubblicate per la prima volta nel 1938 a cura di Berto Ricci e Romano Bilenchi, che ha poi parlato di Garrone anche nel suo libro Amici.
La figura che risulta anche da queste testimonianze è tanto interessante da obbligare quasi ad una lettura bifocale di queste prose, sovrapponendo alla sorpresa e agli stimoli che esse suscitano, l’inutile gioco del vagheggiamento di come avrebbe potuto evolvere un’opera già valida di per sé. Ma, per quanto comprensibile, sarebbe un errore, perché, oltre a distogliere da esse l’attenzione che meritano, quando la morte lo colse, la parabola di Garrone era in qualche modo già compiuta, e non tanto perché la morte proietta sempre retrospettivamente una forma compiuta sulla vita che interrompe, quanto perché Garrone stesso sembrava aver prefigurato nei propri testi, quando non desiderato, questa conclusione che a noi appare prematura.
Lo si vede  sia da numerosi passaggi delle sue lettere, sia soprattutto dal ricorrere di fantasie apocalittiche in molte delle sue prose, tanto che sono proprio esse a fornire loro il tono dominante che permea anche gli altri motivi ricorrenti, quelli del viaggio (qui i treni, le macchine della Mille miglia, le navi della gente marchigiana; nella sua vita il sogno di viaggi lontani e la realizzazione della traversata su un cutter dell’Adriatico in tempesta, oltre che l’emigrazione a Parigi alla ricerca di un ampliamento dei propri orizzonti culturali e esistenziali) e della patria, che non ha niente dell’oratoria fascista e rileva invece di un radicamento ad una terra e ai segni, di carattere e moralità, che essa imprime in chi la abita e che niente potrà mai cancellare.
Questo senso di una fine sempre imminente non contrasta con quella che il Russo chiamò una “ritardata avidità romantica” di vita, ricca di “gusto veloce e bruciato, di esperienze e avventure molteplici, generosamente indistinte”, pur nella consapevolezza che “la vita è uno sbatter di teste, è un patimento oscuro infinito, è un bere l’acqua nera.”
E allo stesso modo questa consapevolezza non smorza, e al contrario esalta impulsi ideali che se lo indussero a partecipare alla vita del suo tempo (basti pensare all’adesione entusiastica al fascismo, mai rinnegata  neppure quando onestà e rigore intellettuale lo avevano portato su posizioni critiche e osteggiate dalle gerarchie) secondo istanze di “verità” “coraggio” e “purezza” che se ai nostri orecchi mandano un suono fesso e dubbioso, nondimeno per lui si manifestarono come assenza di piccinerie e compromessi e soprattutto in un inflessibile impegno nei confronti della scrittura, inteso all’obbiettivo precipuo di “dipanare la propria musica”.
Le prose e i racconti di questo libro sono, di questo impegno, l’effetto e la testimonianza anche quando non del tutto compiuti sono i risultati, quando cioè spuntano debiti non ancora risolti con aspetti della letteratura che altri suoi contemporanei si erano già lasciati alle spalle, come una certa propensione per la prosa d’arte e per l’abbozzo di “caratteri” e certa vena popolareggiante patetica. Ma non qui va cercato Garrone; come scrive Scarabicchi, Garrone va “individuato dove la parola è essenziale, dove il referto aderisce alle cose, dove la nominazione si infittisce (...) e dove l’ascolto (...) si fa “stile e “sostanza” opponendosi alla grammatica calligrafata, alla “maniera”, alla verosimiglianza, all’imitazione”. E soprattutto va cercato nell’espressione tesa della “coscienza senza sonno” (B. Ricci) di “un uomo e di uno scrittore, “nomade e dissipato” (Russo) quanto accorto e sorvegliato sulla pagina tenuta al morso del talento”.

Dino Garrone, Prose scelte, ed. Sestante, p. 155, £ 17.000



17/04/18

Anna Seghers, La gita delle ragazze morte (30-09-1981)



Anna Seghers (pseudonimo di Netty Reiling) nasce a Magonza nel 1900; suo padre è un mercante d’arte e lei si laurea con una tesi su “Ebrei e ebraismo nell’opera di Rembrandt”; nel 1928 pubblica il suo primo romanzo, La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, che per molti resta il suo capolavoro, ed entra, per non lasciarlo più, nel Partito comunista tedesco; nel 1933 emigra in Francia, dove continua a scrivere e a partecipare alla vita politica; passa poi in Messico durante la Seconda Guerra mondiale, per tornare alla sua fine in Germania, a Berlino Est, dove vive tuttora, scrittrice affermata e autorità morale riconosciuta.
Il suo è un caso molto interessante: per un verso infatti riporta alla mente polemiche trentennali sui rapporto tra intellettuali e politica (indicative al riguardo sono le date, e il luogo, delle sue prime traduzioni italiane: Einaudi, 1949 e 1950 rispettivamente per La rivolta... e E sette nella miniera); per un altro si ricollega anche a problematiche oggi di stretta attualità; e infine dimostra come entrambi questi aspetti possano convivere con una tensione in primo artistica e di scrittura, e ne escano anzi rafforzati.
Basta leggere, per rendersene conto, La gita delle ragazze morte, che contiene anche un bel saggio di Christa Wolf sull’opera e la personalità della Seghers.
Sono quattro racconti scritti tra il 1927 e il 1945, che si riallacciano ad alcuni dei più importanti momenti della storia tedesca di quel periodo e sembrano quasi un felice campionario dei temi maggiormente investiti dagli odierni intellettuali tedeschi nella rivisitazione del loro recente passato. Solo che la Seghers li ha scritti mentre le cose stavano succedendo, con una capacità di distanziazione spesso non minore e insieme con una notevole partecipazione emotiva, acuite entrambe, invece che dallo scarto temporale, dalla lontananza dell’esilio e dalle convinzioni politiche e umane.
la progressiva proletarizzazione di una famiglia borghese negli anni della crisi; una manifestazione a favore di Sacco e Vanzetti; la rievocazione di una gita scolastica alla vigilia della Grande guerra che si protende fino alla Seconda nel destino delle ragazze che vi parteciparono; il fallito tentativo di reinserimento nell’anonimato di un SS nel 1945: gli argomenti dei racconti sono quelli classici della letteratura realistica e impegnata, e altrettanto classici sono i tranelli che quasi automaticamente ne derivano: schematismo ideologico, psicologia “orientata”, naufragio della vita individuale nel flusso storico, tendenziale ottimismo programmatico, realismo come panacea...
È molto raro però che la Seghers vi incorra. Infatti, anche se la realtà resta in un certo senso il suo punto di partenza e di arrivo, e proprio perché conosce, forse esagerando un po’, il valore di impatto dell’arte nella sua epoca, non la piega a fini estrinseci, ma semmai li “contiene”, cioè li fa emergere dall’interno del lavoro artistico stesso.
Così, per esempio, la storia si diffrange sempre a partire da un soggetto caratterizzato nella sua individualità non tipica, anche laddove un’interpretazione a posteriori ne possa estendere la portata; né l’adesione né il contrasto ideologico portano a cadenze extranarrative o a riflessioni astratte, qui ridotte all’osso anche nei casi in cui sarebbero più giustificate, data la predominanza di una scrittura molto secca e oggettiva nella quale gli scatti emotivi, e le inserzioni poetiche e fantastiche, sono tutti devoluti ad un uso abilissimo del discorso indiretto libero e del montaggio dei paragrafi: e se, come dice la Wolf, per la Seghers l’artista “deve trovare il coraggio e la responsabilità di ‘puntare sulla realtà’ spericolatamente”, esercitando una critica produttiva “rispecchiandosi nel conflitto che da secoli lacera il popolo tedesco e ha germinato in esso un ‘sentimento scisso della vita’, giacché nella sua storia ‘rivendicazioni sociali e nazionali non sono mai avanzate insieme’”, d’altra parte deve anche avere la “capacità di impedire che il mondo perda ogni incantesimo (...) e di accendere e tenere desta la ricettività per quanto nel reale vi è di magico, per i suoi aspetti prodigiosi – una sensibilità di cui l’essere umano ha bisogno per vivere”, unendo in tal modo le due linee che fin da giovane avevano affascinato la scrittrice: “raccontare quello che mi interessa oggi, e la ricchezza dei colori delle fiabe”.
Forse non sempre la Seghers si è attenuta a questo programma; a volte urgenze di altra natura l’hanno spinta in altre direzioni e con differenti risultati, con accentuazione dei dati psicologici e di realismo speculare, seppure di rado platealmente; altre volte sono stati gli intenti didattici o la materia stessa a prendere il sopravvento, a far pendere la bilancia più da un lato che dall’altro, occorre però dire che laddove, come in La rivolta.. e nel racconto che dà il titolo al libro qui recensito, le due linee sono fuse, al di qua di ogni intento programmatico, i risultati sono incantevoli: qui infatti non si tratta tanto di prefiggersi un compito e di “dominare in qualche modo il tempo”, quanto di “arrendersi umilmente ad esso” eseguendo un compito che nella storia della scrittura è radicato molto lontano.

Anne Seghers, La gita delle ragazze morte, La Tartaruga, Milano, 1981



12/04/18

Aldo Busi, Seminario sulla gioventù (27-07-1984)





Credo valga la pena di ritornare* su Seminario sulla gioventù di Aldo Busi (Adelphi, 1984, p. 353, £ 16.000) e di analizzarlo più da vicino, come romanzo, non tanto per interesse locale o perché è stato presentato come l’ennesimo caso e scandalo letterario, quanto perché, pur tra i molti problemi che suscita, il libro lo merita, per le doti che lascia intravedere e le ambizioni che lo animano. Un po’ di ambizione non guasta certo quando un libro è costato venti anni di lavoro e quattordici stesure, ed è anche un sintomo di positiva vitalità, specie laddove il libriccino lindo e ben curato sembra essere la mediocre norma.
Busi ne è cosciente (dal suo secondo libro, già pronto, si aspetta infatti che lo riconfermi “non solo scrittore italiano ma anche scrittore europeo”; bisogna accertarsi però che tale lo riveli il primo) e non ha paura della dismisura, che è anzi una delle costanti del suo romanzo, anche a rischio di tonfi e stonature.
Non mi riferisco tanto alla dismisura vitale sistematicamente perseguita da barbino, il protagonista, quanto a quella stilistica, che della prima è fors’anche il riflesso o il prodotto necessario, ma che può abbassare il livello della narrazione alzando invece quello retorico. Certo, con un personaggio e situazioni come quelle di Seminario, e se programmaticamente non si rinuncia dire nulla, bisogna anche avere il coraggio di rischiare la retorica (a meno di procedere a una quindicesima stesura e ad ampi tagli, o di cambiare in gran parte il tono del discorso), e questo rischiare ed esporsi piace, ma quando le cadute si infittiscono, allora crescono anche i dubbi.
In una sua intervista Busi accenna al “diaframma che separa la verità dalla scrittura”: i fatti narrati sono veri, ma il tempo del ricordo e l’azione della scrittura ne fanno “fiabe apocrife” che dovrebbero ubbidire solo alle leggi della finzione romanzesca. Dico “dovrebbero”, perché proprio da qui credo derivino le maggiori difficoltà del libro. Ora, l’attraversamento del diaframma e le leggi del romanzo, lungi dall’essere fissate una volta per tutte, devono essere rifondate o ristrutturate da ogni scrittore, ma è appunto questo che Seminario non sempre riesce a raggiungere. Busi infatti compie un continuo andirivieni al di qua e al di là del diaframma, incapace non dico di rinunciare a uno dei due versanti, ma di subordinarlo all’altro in modo coerente, così che anche le leggi del suo romanzo ne risultano talvolta confuse, a grave discapito delle numerose parti di impianto per lo più tradizionale nelle quali la narrazione è stilisticamente più fluida e non meno interessante. Tale confusione agisce a più livelli che cercherò di esemplificare schematicamente.
Quando un fatto, o una frase o un sentimento entrano in un romanzo, poco importa che corrispondano a qualche verità esterna: è al romanzo che da quel momento appartengono. Così, che il padre fosse veramente tale, che la Nanda sia veramente diventata una puttana, che la levatrice abbia veramente detto la frase storica sull’“è funesto a chi nasce il dì natale” ecc., poco importa, se poi ricalca cliché adusati e aumenta la prevedibilità romanzesca. Se invece le cose non sono “veramente” andate così e sono state inventate apposta, è ancora peggio. Già la loro scelta implica la coscienza di eventuali richiami e corrispondenze, soprattutto quando si tratta di modelli largamente noti.

Così anche il protagonista (la cui infanzia, che pure non manca di episodi notevoli, risponde al principio didascalico: ecco come ti fabbricano, o cresce, il futuro omosessuale-artista nel cupo mondo contadino), quando viene presentato come maudit è ai maudits letterari che deve essere rapportato, sia che lo si intenda seriamente sia che si segnalino le distanze. Come maudit però è in ritardo, a mio parere, e anche poco estremista, tanto che la sua volontà di “infettare il mondo” non si preoccupa di coniugarsi con sentimentalismi caramellosi da bravo ragazzo compassionevole (“povera Arlette”, “povera Comare Volpe”, poveri tutti; ... e il cioccolatino di papà che ti fa piangere di gioia, e la sberla data alla sorella che pesa e peserà più di tutte quelle prese...). Anche la volontà di scandalizzare e di prendersi rivincite, che non mancano di certo (sia detto per inciso, trattandosi di aspetti secondari) mi sembrano l’una ultradatata, l’altra poco pertinente: se Busi ha scritto il suo libro per scandalizzare beghine e circondario, sicuro che ci riuscirà, ma se l’ha scritto per scandalizzare e rivendicare a più largo raggio è fatica sprecata, c’è già arrivata anche la televisione a queste cose; né questo basta a scrivere un buon libro, come non basta la volontà di rivincita, che pure può essere un ottimo motivo per cominciare a scriverlo, il libro.
Tutto ciò, e l’inflazione retorica e degli stereotipi, credo dipendano dalla fondamentale confusione tra chi narra e il protagonista (non dico tra Busi e barbino, anche se spesso c’è motivo di pensarlo), dalla difficoltà di distinguere chi sta parlando. Se l’ironia del titolo e i paragrafi iniziale e finale istituiscono infatti una distanza rispetto a ciò che è narrato e detto, ciò non basta ad introdurla anche nel resto del testo, che deve quindi essere accettato seriamente (salvo non prendere sul serio nulla), tanto più che di ironia sul protagonista non ce n’è mai, o è tanto diffusa da sembrare invisibile, né si può dire che egli cambi in modo tale da differenziare i punti di vista da una fase all’altra della sua vita e della narrazione.
L’unica carriera che Barbino si riconosce infatti è di “diventare ‘io’”, ma questo “io”, eccetto forse la fase infantile in cui impara a riconoscerlo, egli teleologicamente già lo possiede dall’inizio, né cambia pur nel gusto conclamato della metamorfosi, nella sua attitudine a eclissarsi e a inventarsi i propri passati ecc. La felice riuscita del progetto è così assicurata, ed egli diventa “io” talmente bene da assimilarsi anche tutto il resto o quasi: niente cioè (o quasi) è quello che è, ma solo (o soprattutto) lo spunto per riflettere, riflettersi addosso, spiegare e spiegarsi, privando spesso di interesse anche ciò che potrebbe suscitarlo e trascinandolo nella maniera. Non a caso le parti migliori del libro, più numerose nella seconda metà, sono quelle in cui Barbino, pur raccontandosi, per così dire si dimentica e diventa personaggio tra gli altri, che in tal modo riescono a raggiungere una loro autonomia.
Ma eccessiva rimane la tendenza al giudizio e alla massima esistenziale e morale (evidenziata dalla frequente collocazione in chiusura di paragrafo), tanto che Barbino finisce per identificarsi in un moralista non privo di sensi di colpa, molto propenso a giustificarsi e nemmeno troppo cattivo (semmai troppo poco). Un bravo ragazzo anzi, come dicevo, ingenuo e disinteressato, che ha solo spostato il suo grande desiderio di purezza dalle azioni al proprio io, che deve essere mantenuto rigorosamente incontaminato; poi, come per certi eretici e mistici, è possibile fare tutto, ad anzi peggio si fa dal punto di vista “normale” e meglio è (magari con la complicazione del “così imparano”: il padre, Giacomino ecc.). Ma poi che male fa Barbino? Niente di niente, a nessuno. E’ omosessuale; e con ciò? C’è chi si indigna, ma qualcuno disposto a indignarsi lo si trova sempre. Barbino, lui, è onesto, sincero, non tradisce i segreti, non si fa comprare: è puro insomma. Sarebbe molto meglio se qualche volta rinunciasse a dire la sua su tutto e che in compenso narrasse di più, visto che quello dimostra di saperlo fare bene e che di storie da raccontare ne ha, facendo attenzione a non ripetere quelle che già conosciamo.


* Brescia Oggi aveva già pubblicato una recensione del libro



09/04/18

La biblioteca sul treno



Mi piacerebbe che ci fosse una biblioteca mobile.
L'ideale, per me, sarebbe su un treno, tipo Orient Express, con tavolini e lampade come alla vecchia Bibliothèque Nationale. Dovrebbe fare ogni giorno un percorso a caso, a volte uguale o simile, altre diverso, e girare 24 ore su 24 passando da casa o nelle vicinanze tre o quattro di volte per poter salire o scendere alla bisogna. Se fossero più d'uno, con territori diversi, ma imprevedibili, non programmabili, meglio ancora. Ci dovrebbero essere varie fermate, nel caso volessi scendere e fare due o quattro o diecimila passi, e per imbarcare altri viaggiatori, non necessariamente lettori accaniti o studiosi, per variare anche il paesaggio interno dei vagoni e stimolare lo sguardo e la fantasia quando gli occhi si alzano dalla pagina. Visioni istantanee, o contaminazioni con ciò che la lettura sta suscitando. Allora credo che la mia testa funzionerebbe meglio e io, cullato dal movimento e dal ronzio del treno, sarei più tranquillo. Non dico soddisfatto, ma di sicuro meno agitato e insoddisfatto.
Credo.
Nell'attesa prendo il treno ogni volta che posso. Alzo gli occhi, guardo fuori, l'umidità vela il finestrino, fuori piove e sto bene. Cioè, abbastanza. Riprendo il libro, mordicchio la matita, sottolineo una frase e prendo un appunto. 
Non questo.



Non questo.

06/04/18

Le ombre di Barthes. Un divertimento (I parte)


Ho letto Le plaisir du texte in una piccola libreria di Rue Cujas nel febbraio del 1974. Non male come inizio. Ero a Parigi da due o tre settimane, per preparare la tesi. C’ero arrivato senza prenotazioni e senza conoscere nessuno. Avevo solo l’indirizzo dell’amica di un’amica, che sono andato a cercare appena sceso dal treno per farmi dare qualche suggerimento, o forse per non sentirmi sperduto. Ma non credo: ero spavaldo, allora, e non sentivo il bisogno di raccattare umanità. Era domenica mattina, abbastanza presto probabilmente per gli standard metropolitani, e il quartiere dove abitava la ragazza era deserto. L’unica persona che c’era in giro, la prima che ho visto per le strade di Parigi, la stazione e il metrò non contano, è stato un clochard che frugava in una poubelle. L’incontro con la capitale dei miei sogni è stato un cliché. Mi sono sorpreso: che la realtà imiti la finzione, per me era solo una vaghezza teorica, allora. Ho riaggiustato la visuale immediatamente. Del resto Parigi per me non era mai stata altro che un luogo immaginario. E tale è rimasta, nonostante il tempo in cui ci ho vissuto e le volte che ci sono tornato. Certi quartieri li conoscevo così bene che davo indicazioni ai turisti. Una soddisfazione! Mi accontento di poco, io. C’ho una morale ascetica, in fondo. Di un ascetismo tenue, vago, per niente atletico. Sempre ascetismo, comunque. O così mi piace pensare. Non so perché racconto queste cose. Alcune le ho già scritte e odio ripetermi quando scrivo. Quando parlo è un altro paio di maniche: ma anche allora, per quanto cambi l’interlocutore, ad ogni ripetizione mi ritrovo umiliato. Eppure mi ripeto. Sarà che sto invecchiando? Sia quel che sia, la letteratura che indulge alla memoria non mi piace lo stesso. Va be’, avanti. Concediamoci questa debolezza. Non imparerò mai a essere indulgente con me stesso. Non è il caso di vantarsene, comunque. Per tirare un’ora decente sono entrato in un bar a prendere un caffelatte con un croissant. Prima delusione. Il croissant era caldo ma non buono. Unto, molle, elastico come un chewing-gum. Il caffelatte già me lo aspettavo schifoso, e quindi l’ho bevuto con piacere. C’era le tele accesa, e parlavano, ricordo, del Loto. Non sapevo cosa fosse e l’ho guardata per un po’ senza ascoltare. Che razza di trasmissioni fanno alla domenica mattina in Francia! Nel frattempo ho fumato la seconda Gitanes maïs che mi ero affrettato a comprare in un bar della stazione dove avevo trangugiato un primo caffelatte, dopo la notte in treno senza viveri e bibite. Ho anche sfogliato un giornale. Quando mi sono deciso a suonare alla porta della ragazza c’era un po’ più di gente per strada, saranno state le dieci e mezza, tardissimo per le mie abitudini, ma alla porta è comparso un tizio in pigiama, tutto assonnato, che mi ha guardato con la faccia stranita. Una figura uguale uguale l’avevo già fatta qualche anno prima alla porta di Ugo Carrega. Non mi è servita a niente, a quanto pare. Va detto che allora erano le 8 e mezza! Il giovanotto in pigiama era il compagno della ragazza. Quasi subito è arrivata anche lei, pure in pigiama, e mi hanno invitato a fare colazione con loro. Praticamente era la terza, ma ho accettato per non essere scortese. Già ero in imbarazzo per i pigiami! Quasi quasi toglievo dalla valigia il mio. Volevo limitarmi a un altro caffè. Abbastanza buono questo. Per la contentezza mi sono preso anche una fetta di pane con la marmellata. Il pane era fresco. Come poteva essere fresco se erano ancora a letto? Un mistero. L’avevano comprato all’alba, prima di rientrate a casa? Lo spediscono per posta pneumatica? La ragazza mi ha dato alcune indicazioni che non mi sono servite a nulla e mi ha invitato a tornare a trovarli, o lì, o alla libreria che il suo compagno, un libanese druso, gestiva assieme a un bretone nel quartiere latino. Mi sono arrangiato per conto mio e sono stato un paio di settimane da solo, senza parlare con nessuno, a studiare, a girare la città e i musei e a andare al cinema. Quando ho deciso che era ora di parlare con qualcuno sono andato alla libreria. C’era solo il libanese, un bel ragazzo, gentile, che mi ha invitato a sedere da qualche parte in attesa che la ragazza arrivasse. Lei non era granché, invece. Come dice mia moglie, i bei ragazzi stanno quasi sempre con racchie. Io non sono d’accordo. E’ lei che vede racchie dappertutto. Io no. Io le racchie non le vedo proprio. Forse non ce ne sono. Forse c’è solo carne. Carne in attesa. Ho scordato i nomi di entrambi. Ho spulciato gli scaffali e quando mi è capitato in mano il libretto di Barthes ho cominciato a sfogliarlo, poi mi sono seduto in un angolino vicino alla stufa, come da piccolo con i fumetti nell’officina di mio papà, e l’ho letto tutto. Nelle pause scambiavo qualche parola con il libanese. Tra l’altro mi ha parlato della sua intenzione di tornare in patria, dove la situazione stava peggiorando e una guerra era più che probabile. Davvero? Più che probabile: inevitabile! Non ero molto al corrente. Una guerra! Esattamente quello che è avvenuto. Le guerre avvengono. I verbi mentono. I verbi? Che dire degli aggettivi allora? Mi è tornato in mente, lui, non quando la guerra civile è effettivamente esplosa, ma al ritorno dei miei genitori dalla loro prima crociera, per le nozze d’argento, quando mi hanno raccontato che la loro nave è stata l’ultima a approdare a Beirut proprio a causa del conflitto. Come si distende la sintassi, appena scatta la memoria! Ci dev’essere qualcosa, nel ricordare, che lo esige. A meno che non sia il contrario. La sintassi che presiede al ricordare! Che lo scioglie e costringe. Un nodo! Un groppo. Un’armatura! E allora via, tagliare! Spezzare. Se possibile. La zona turistica era ancora sicura però, hanno detto. Ho tremato per la loro incolumità retrospettivamente. Loro invece si erano divertiti e hanno sempre ricordato Beirut come una città bellissima e piena di vita. Allegra. Solo quello e nient’altro. Lo erano anche loro, a quei tempi. Felici, erano. La loro prima crociera! Il primo vero lusso, la prima vacanza senza figli. Ancora giovani e sani. Mi viene un tuffo al cuore a pensarci. Amen. Così, bellissima e piena di vita, sembra che sia tornata, la città, con tutto quello che è successo poi. Quella guerra e altre e tutto il resto. Sarà vero? Riuscirà a durare? Riusciranno a dimenticare? Chi è lontano lo ha già fatto. D’altronde anch’io ricordo solo scemenze.
 
 
Tornando a Barthes, sarà stato il posto, il momento, la circostanza che per la prima volta leggevo in tutta calma in una libreria senza che nessuno avesse da ridire, il calduccio, l’impaginazione e i caratteri, la carta, tutta roba che conta!, boh, fatto sta che Le plaisir du texte è stato una rivelazione. Avevo letto altri suoi libri, in italiano prevalentemente, già dal liceo. Ricordo Miti d’oggi pappato tutto in classe, durante le lezioni, e poco dopo Il grado zero, entrambi in edizione Lerici mi pare, e mentre il primo non mi aveva molto colpito, ovviamente perché ero troppo acerbo, dal secondo avevo imparato molto di più, anche se a proposito di scrittura avevo un altro riferimento, Derrida, sul quale avevo già deciso di fare la tesi ancora prima di iscrivermi all’università. Anche cose come queste avvengono. Le fissazioni che si hanno a quell’età! Bizzarre. Marchiate a fuoco! Poi restano solo le cicatrici. Il marchio. Vero cuoio. O magari no. In fondo, ma restano. Non le smuove più niente e nessuno. Accipicchia! Per cui Barthes mi sembrava sorpassato. I riferimenti orientano e accecano. Cercavo solo ciò che volevo trovare, o gli immediati paraggi. Solo ciò che mi importava, che mi premeva già prima cioè. Il resto quasi non lo vedevo, a parte quando leggevo poesia e narrativa. Un po’ come Barthes guardava le fotografie. Così è stato anche per gli Elementi di semiologia, che però devo aver letto all’università. Un ripasso, mi è sembrato. Nessun’altra traccia, se non che ero d’accordo sulla tesi di fondo. Bontà mia. Tutti i linguaggi in subordine e relazione a quello verbale, e così il loro studio. Ben detto! Anche queste sono cose che ti segnano. Vizi d’origine. La radice! Marcita quella, marcisce tutto il resto. Op!, e sei fregato per sempre. E così è stato per me. Pazienza. Mi ha fregato ben altro, poi. Di nuovo pazienza. Per Kafka, se non sbaglio, la pazienza è la virtù più grande. Per altri no. Io mi sono ritrovato a esercitarla tutta la vita. Ma con che risultati non saprei. E’ una citazione di Ornella Vanoni. Ci mancava anche questa! Ancora pazienza.
Ma io non dovevo scrivere di Barthes? Non importa. Avanti. Le plaisir du texte è stato la rivelazione di ciò che già sapevo, ma era bello sentirselo confermare in modo così autorevole e convincente. Ciò che già praticavo e credevo di sapere. Potenza degli equivoci! Ciò che ho creduto di sapere già, mentre leggevo quel libro. Qualcosa che autorizzava le mie debolezze. Non cerco altro. La debolezza, il piacere, di leggere tutto quello che mi andava e come mi andava. L’ho detto che era una fregatura. Borges d’altronde sosteneva di essere più orgoglioso dei libri che aveva letto che di quelli che aveva scritto. E bravo Borges! Però lui di libri ne ha scritti di niente male. E’ stato più o meno ai tempi di Miti d’oggi che ho letto Finzioni per la prima volta. Quella sì che è stata una vera rivelazione! La moda di Borges non era ancora esplosa. Che colpo è stato! Un diretto allo stomaco! Di quelli così forti che capisci subito, anche se sei un ragazzo, che devi tenertene alla larga. Pericolo di morte! Come con Kafka e Beckett. Leggere tutto ma non imitare! La civetteria è insopportabile negli uomini, anche in quelli grandi. Nelle donne dipende. Dipende se la sfoggiano per me, o in generale. Se per me, non mi disturba affatto. Ma può essere incantevole anche vista da lontano. O da molto vicino, o da lontano, tertium non datur. In entrambi i casi in modo esclusivo però. In un caso perché ne sono il destinatario, o il bersaglio, nell’altro perché non lo sono. Dovrei stare zitto, perché io per primo mi affanno a affascinare, quando posso. Le contraddizioni della vita. Resta una debolezza. Tuttavia, quando il giochetto mi riesce, vedo che gli altri sono contenti. Allora non è del tutto male, forse. Perché la debolezza diventa la loro. Niente scuse però. Resta anche mia. Vaffanculo.
A volte penso che l’educazione cattolica mi abbia fatto anche bene. Poi passa. C’è questo miscuglio di indulgenza e intransigenza che ritrovo, spesso, anche in Barthes. Intransigente nel suo lavoro e, immagino, grandemente indulgente con coloro che amava. Come potrebbe essere altrimenti? E tuttavia bisognerebbe essere intransigenti anche con loro. Io mi amo? Non ne sono sicuro, a giudicare dall’intransigenza che ho nei miei confronti. Vuol dire che non me lo merito. Gli altri li amo anche senza merito, di solito. L’amore è gratis. Mi piace amare. Con me no, invece. Sarò un cretino! Ma anche l’intransigenza ce l’ho tenue, vaga. Mi fa difetto l’accanimento. Per uno che si occupa di certe cose, è grave. La perseveranza non basta. Barthes invece questo accanimento l’aveva. Secondo me però gli faceva difetto l’abbandono. Secondo me, si abbandonava solo nel privato. E non tanto nemmeno lì. Nel privato più privato, diciamo. Ma in modo molto garbato. Per cenni impercettibili, con dolcezza rattenuta, che capiva solo chi poteva capire. Chi era come lui. Con quella reticenza discreta che ritrovo anche nei suoi scritti quando si avvicina a ciò che veramente importa. Toh, come il sottoscritto e sua mamma. Cribbio, sono proprio in vena di confessioni! Basta però. Per ora. Barthes aveva questo accanimento, questo metodo. Gli dicevano: scrivi di questo, e lui zac!, lo faceva. Scriveva solo su ordinazione, pare. Ma di cose che lo interessavano, sia chiaro. Poteva permetterselo. Se l’era guadagnato. Scrivere su ordinazione, o su invito di amici è una buona cosa. Così uno si costringe a parlare anche quando crede di non avere niente da dire. E’ quasi un verso di Eluard. E magari non ce l’ha sul serio. Se non che, scrivendo, qualcosa ti viene prima o poi. E impari quello che ti importa sul serio. Magari ci vuole tempo, ma se non sei del tutto stupido, prima o poi lo impari. Barthes secondo me l’ha imparato tardi. Non perché era stupido, ma perché non lo era abbastanza. Perché era troppo intelligente e ci teneva a esserlo. Anch’io voglio sempre essere intelligente, ma non essendolo molto, o quanto meno non nella misura in cui vorrei, come Dio per esempio, mi ammanto spesso di stupidità. Me ne incappuccio, direbbero i maligni. Dico e scrivo stupidaggini. Come qui? Non mi importa. Una volta mi sarebbe importato, ora non più. Credo che sia una delle grandi conquiste della mia vita. Un po’ tardiva, ma ce l’ho fatta. Champagne per tutti!
Per esempio: un’altra volta che ricordo quando ho letto Barthes, è stato fuori dalla Fondazione Corrente, a Milano. C’era stato un convegno su di lui a Reggio Emilia credo, a Reggio Emilia i convegni sono di casa, c’hanno la fissa lì, e qualcuno mi aveva procurato i fascicoletti stampati per l’occasione. Erano quattro o cinque, semplici, di colore diverso, tonalità pastello. Belli. Mi sono messo a leggerne uno lì fuori, sul marciapiede. Era da tanto che non lo leggevo. Non era un critico fondamentale, per me. O così era diventato nella mia testa, nel tempo in cui non lo avevo più letto. Avevo appena tenuto una delle mie primissime conferenze, chiamiamole così. Ero insieme eccitato, euforico e, come mi capita spesso, un po’ deluso, con il dubbio di essere stato superficiale, di avere mancato l’essenziale. Forse l’essenziale lo manchi sempre. O forse ti delude quando lo cogli, proprio perché si è lasciato cogliere. Perché allora scopri che non era poi così essenziale. O che un essenziale c’è. Fatto sta che stavo scivolando in una leggera depressione. Omne animal! Avevo in mano i libretti, li ho sfogliati distrattamente e ho cominciato a leggiucchiare quello con gli inediti. Mi sono appoggiato al muro e ho continuato. La depressione incombente è volata subito via. Grazie Barthes! Sempre Borges diceva, grossomodo, che a un vero lettore basta una pagina per dimenticare tutto, problemi preoccupazioni umiliazioni e delusioni, tutta l’enciclopedia del dolore. Non sempre è stato così per me. Molto spesso sì, però. Quasi sempre. Ergo non sono un vero lettore. Sono un lettore quasi vero. Quella volta sì. Ma forse perché la depressione era solo all’inizio. Robetta. Fatto sta che leggere Barthes mi ha fatto bene. Certo, vi vedevo confermato il mio dubbio di avere mancato l’essenziale anche quella volta, ma non mi pesava, prevaleva la gioia di leggere e la leggerezza che ti dà il piacere di ammirare. Ho invertito i sostantivi apposta. Di ammirare senza invidia e riserve. Ogni tanto veniva qualcuno a farmi dei complimenti, e contrariamente al solito non andavo a immaginare sottintesi o cortesie di maniera. Li guardavo semplicemente, come faccio sempre, con sorpresa e gratitudine. Il sospetto, però, dopo poco o tanto affiora sempre. Quella volta dopo tanto, e leggero leggero. E’ la cultura in cui sono nato. La bruma dell’infanzia. Pussa via! Non sono mai sicuro di niente. Uno deve dirmelo chiaro e tondo che mi ama. E non basta. Deve dimostrarmelo, buttarsi dal ponte per me. Poi lo trattengo prima che ci provi davvero. Lo afferro al volo e gli dico, ma sei scemo? Se ci riesco. Se no sono guai. Questo ha qualcosa che non va, mi dico, se mi fa i complimenti per davvero. Non può essere serio. E’ una mezza calzetta, non c’è altra spiegazione. Però mi fanno piacere, i complimenti e chi me li fa. Senza inorgoglirmi più di tanto. Lui resta una mezza calzetta comunque. Un brav’uomo, ma mezza calzetta. Più o meno come me. 


Ecco come funziono io! C’ho un superego davvero super. Ci fossero concorsi, li vincerebbe tutti a mani basse. Lui. Le olimpiadi, vincerebbe! E’ ora il turno della categoria superego, fuori i concorrenti! Tatàaa!!! Ci prende gusto a torturarmi. A mazzolarmi! E’ l’altro lato dell’educazione cattolica. Tutta colpa del mio papà. Una vacanzina ogni tanto, no eh? Sempre al lavoro. Infaticabile! Indistruttibile. Inespugnabile. Proprio come il mio papà, appunto. Chissà se gli ho voluto davvero bene. Ma sì, credo proprio di sì. Ma credo di averlo dimostrato solo quando lui ha mostrato la sua debolezza. Che era mortale. Sarò un cane! Quando si portava in giro la sua morte e io non potevo fare altro che stare con lui. Con lui che mi cercava. Fargli compagnia. Parlare. Ascoltarlo senza riserve né benevolenza. Essere lì e basta. Era contento, allora. E anch’io. Per favore niente commenti insulsi. L’ho sempre amato, ma senza manifestazioni eclatanti. Niente effusioni! Le parole tenere vietate. I gesti pure. Non ci sfioravamo nemmeno. Come con mia mamma del resto. E così loro. Non ce n’era bisogno. C’erano. Erano lì entrambi, per me e i miei fratelli. Erano sempre lì. Mio papà anche quando non c’era. Era al lavoro, ma c’era. E tanto bastava. Non mi chiedevo niente. Non avevo dubbi. Mi amavano e basta. E io loro. Morti, ora. Li amo ancora.
Suo papà, Barthes non l’ha conosciuto. Lui avrebbe detto: mio padre. Per me, padre e madre sono parole che non ho mai usato parlando dei miei genitori. Mamma e papà, e basta. Vorrà dire qualcosa. Fa niente. E anche mamma e papà li usavo solo quando li chiamavo. Mia mamma spesso, mio papà quasi mai. Li penso solo in dialetto. Papà resta uguale. Mè papà. Mamma no: in dialetto suona “mè mama”. Me m’ama. Me, mi ama. Con un raddoppiamento rafforzativo. Ama me. E’ mia e mi ama. Come sono possessivo! Forse avevo bisogno di convincermene. Non si è mai sicuri di essere amati. Anche quando si sa di esserlo. Ma basta un calo di tensione, un istante, e op! ti invade il dubbio. E’ che non lo meriti. Pensi di non meritarlo. E ci sono anche gli altri. Accidenti a loro! Lo so che si può amare più di una persona contemporaneamente. Una mamma lo può. E’ la mamma. Ovvio. Lo so, eppure nessuno riuscirà mai a convincermi del tutto. Ama un altro perché non le basto. Non le basto perché non merito tutto il suo amore. E’ così semplice! Secondo me Barthes questi dubbi li aveva. Cavoli, sua mamma aveva lui, il marito si era tolto di mezzo subito. Lo si poteva onorare  in absentia. Che è il modo migliore. Amarlo perché non era tra i piedi. Troppo bello! E lei cosa ti combina? Va a cercarsi un altro uomo. Che per fortuna tra i piedi non ci viene. Ma che le lascia un ricordino. Un altro figlio! Che poi si dovrà anche amare, per giunta. Come mamma, lei, e come fratello, lui. Amare il guastatore! E’ il colmo! Eppure lo si ama. Perché è lì. C’è. Quanto mi piacciono questi schematismi! Torniamo alle parole. Anche l’ordine di pronuncia è significativo: mamma e papà; padre e madre. Se qualche volta ho usato padre e madre in qualche conversazione è stato per debolezza, per adattarmi a consuetudini altrui. Per debolezza o gentilezza. Ci sta anche questa. E’ bello essere gentili. A me, credo mi venga facilmente. E ne vado fiero. Anche se mi è capitato di usarle, sono parole che non mi appartengono. Non appartengono alla mia sfera privata cioè. Le sento come un indizio di estraneità, come una forma di distacco o di formalismo che non ho mai vissuto con i miei. Il rispetto è un’altra cosa. Ci può essere rispetto anche nella più grande intesa. Come con mia mamma. Ridevamo sempre.
Ecco, un’altra cosa che non riesco a immaginare di Barthes è la sua risata. Secondo me non rideva mai. O poco poco, comunque. Ironico sì. Sorridente pure. Malinconico di preferenza, però. Di quelli che ogni tanto si infiammano. Che si arrabbiano di brutto, anche. Riesco a immaginarlo, perso nei suoi pensieri, che sbotta all’improvviso e fa una scenata o se ne esce con un’osservazione che ti brucia. O magari no. Troppo fine per queste cose. Solo il veleno verbale. Ma pare che si arrabbiasse davvero, ogni tanto. Avrà avuto le sue buone ragioni. Ragioni che magari lasciavano gli altri di stucco. Cose che per lui erano importanti e per gli altri no. Per superficialità, approssimazione. Perché gli interessava chiacchierare più che le cose dette. La gente fa così. Lui no. Ecco cosa succede a essere troppo intelligenti! Ironia sì, risata no. Mi sono fatto quest’idea. Da quello che ho letto, naturalmente. Per certi aspetti è un pregio. Ma io, questo difetto preferisco averlo. A ciascuno i suoi. Per me, uno non può amare davvero la letteratura se non sa ridere. Se uno non sa ridere e dice di amare la letteratura, è perché questa gli serve ad altro. Kafka rideva. Scommetto che rideva anche Beckett. Secondo me, pur con quelle facce così affilate, consunte, quando lui e Giacometti si incontravano si facevano delle grasse risate. Non me lo toglie dalla testa nessuno. Anche quando scriveva, secondo me Beckett rideva. Come capita a me, fatte salve le proporzioni. Lui è meglio come scrittore, ma forse io rido di più. Non è detto però. Anzi, rideva di più lui. Kafka rideva anche quando leggeva. Mi inchino profondamente. Barthes non me lo vedo che ride, tanto meno mentre scrive. Qualche sorrisetto sotto i baffi, al massimo. Tra sé e sé. E chi vuole intendere intenda. Non vuole essere filosofo, ma profondo sì. Profondamente serio. Mi piace per questo. L’attrazione degli opposti. Non che io non voglia essere, qualche volta, profondo. E’ che non ci riesco. Però riesco a vederlo sereno, Barthes. Sereno! Vuoi mettere? Mica poco! Io lo sono stato fino all’adolescenza. Alla tarda adolescenza. Ero un po’ lento. Sereno stabile! Anche dopo lo sono stato. Per lungo tempo, ma non più stabile. Come per un effetto di deriva. Per il capitale che avevo accumulato prima. Abbastanza cospicuo però. Non mi lamento. Ogni tanto mi capita ancora. Sono i doni della grazia. Ti arriva la grazia non si sa da dove, e tu, grato, la accogli. E la consumi. Tanto quella è infinita, e prima o poi ritorna. E se non ritorna, è già bello che sia passata di qui. Grazie grazia!