“Maledite i dettagli, la posterità li ignora tutti”, ha scritto Voltaire, che vedeva in essi qualcosa di superfluo e sviante rispetto alle cose essenziali, quelle che veramente contano. Eppure c’è gente, evidentemente di poco conto, che ne è attratta, a volte persino in modo morboso. O ridicolo, a seconda dei punti di vista. Prendiamo la pittura. Non è raro vedere alle mostre uno spettatore che si china verso un quadro facendo scattare l’allarme o la ferocia di un custode perché si è accostato troppo per vedere meglio questo o quel particolare o solo la traccia di una pennellata, un grumo o la trasparenza di un colore, spinto da un impulso che a volte nemmeno lui si sa spiegare. Vignette e immagini in merito si sprecano. Niente di più banale che farne la parodia, a rischio di tratteggiare senza saperlo anche la propria, con l’idea di essere molto più intelligente; ma vorrei sapere chi non lo ha mai fatto. Quale più quale meno, ogni opera chiama ad avvicinarsi, chiede di entrare in essa, non solo per vedere meglio cosa rappresenta ma anche per capire come funziona, secondo quali criteri è costruita, quali idee stanno alla sua base o in essa si nascondono, cosa dice col suo specifico essere che non può, e spesso non deve, essere detto altrimenti.
Abbiamo tutti questa inclinazione voyeuristica, questa pulsione settoria, la voglia di aprire il congegno, di metterci le mani, per vedere come è fatto o solo per toccare. Daniel Arasse, nel classico libro Il dettaglio, ora ristampato da il Saggiatore in una sontuosa edizione di grande formato con bellissime e accuratissime illustrazioni a colori, ha innalzato questa attrazione a procedimento di lettura e a strumento di interpretazione non solo dei meccanismi compositivi e formali delle singole opere, ma anche di aspetti e momenti decisivi della storia dell’arte, delle cornici teoriche e sociologiche che vi presiedono. E nel farlo ha messo in evidenza anche il ruolo di eccezione e contraddizione, o di paradosso e disarticolazione e negazione del senso che i dettagli incarnano all’interno delle opere e dei generi, delineando in tal modo una sua peculiare storia dell’arte, interiore e, direi, passionale.
Il dettaglio, che è la prima sistematizzazione di un percorso che è poi stato sviluppato in tutta la produzione dello studioso francese, è infatti prima di tutto un libro appassionato, un libro d’amore. Per la pittura, per il vedere e il guardare (e l’immaginare – soluzioni, strumenti, collegamenti ecc.) per arrivare a capire, anche, cosa accade nella mente e nel corpo di chi dipinge e di chi osserva.
Scopofilia vera e propria che trova nella visione ravvicinata, nell’approccio all’interiorità dell’opera, la procedura privilegiata di interpretazione e nel dettaglio il suo strumento più efficace e il luogo di affezione dove passa la sua intensità e si radica la sua soggettiva verità. L’amore indaga la superficie, la carezza, si avvicina e poi si allontana, non si sazia di nessuna vista generale, che pure è necessaria, e indugia su ogni piccolo particolare, lo ricerca, lo inventa operando inquadrature e tagli, da cui il termine ‘dettaglio’, appunto.
Arasse trasforma questa passione in metodo di cui affina potenzialità, limiti e modi di integrazione con la storia e lo studio dell’arte tradizionale secondo i criteri di quella che lui chiama iconografia analitica in opposizione all’iconologia classica, in quanto fa ricorso anche a discipline in questo ambito tradizionalmente poco canoniche, come la psicanalisi la semiotica e la filosofia, che possano risultare utili alla lettura e all’interpretazione delle opere non come supporti esplicativi esterni, ma nella loro interna e autonoma specificità. Per farlo, approfittando di una distinzione che è presente in italiano ma non in francese, in primo luogo procede a definire la differenza tra il dettaglio e il particolare: mentre questo è una parte di un oggetto in qualche modo circoscritto: una figura, un corpo, un paesaggio e in genere dell’insieme di una composizione (una testa, un piede, un ramo, una roccia, un ponte, ma anche una figurina minore ecc.), il dettaglio propriamente detto è un piccolo elemento ri-tagliato dall’insieme dell’opera dall’osservatore o immessovi dal pittore, spesso volontariamente, a volte meno, dallo statuto figurativo meno definito. E’ il frutto di un’azione, e a volte di un “programma d’azione” (Omar Calabrese) che dipende dal punto di vista del “dettagliante”, dal suo investimento personale, scatenato in genere dalla sorpresa o da un senso di stupore, che “per dirlo con l’eleganza di Roland Barthes, è “il timido inizio” del godimento”.
Del dettaglio, Arasse distingue poi due tipi fondamentali: il dettaglio iconico (“che fa immagine”), che riguarda qualcosa di riconoscibile e determinabile (una mosca, i quasi invisibili capelli che sfuggono al velo dell’Annunziata di Antonello, ecc…) e il dettaglio pittorico, che non rappresenta nulla, ma ha molto a che fare con il modo di dipingere (una macchia, delle pennellate, degli effetti di materia, grumi o velature, fino a certe ombre, alle forme che si intravvedono nei panneggi, come nella Serratura di Fragonard …) che proviene da o segnala qualcosa di indefinibile e di indicibile ma che caratterizza profondamente il quadro.
Delimitato il campo e i termini principali, attraverso una cospicua serie di esempi e di analisi che poi proseguiranno in tutto il volume (segnalo quelle, splendide, sulla Merlettaia di Vermeer; sulle varie forme e firme e immagini del pittore nel quadro; sui panneggi; sulle mosche e una lumaca…), di cui costituiscono le sezioni più illuminanti e godibili, come la sua scrittura del resto, Arasse passa a studiare e differenziare ulteriormente la tipologia dei dettagli e la loro funzione e incidenza nella effettiva emergenza nella storia della pittura a partire dal medioevo, evidenziando la diversa considerazione di cui hanno goduto (o sofferto) nel suo sviluppo e le varie funzioni che si sono trovati a svolgere in rapporto alle opere a cui appartengono e alle idee e forme che in esse si incarnano.
Il ruolo del dettaglio dipende infatti dall’opera e dalle idee che ad essa soggiacciono, dal pensiero che contiene e produce, anche se poi esso lo mette in crisi, lo fa vacillare o addirittura lo nega, presentandosi come espressione di un pensiero solo pittorico, perturbante e portatore di intensità anche emotiva: un discorso su ciò che la pittura indica e suggerisce senza dirlo, sull’indicibile in (della) pittura, come il Cane di Goya.
Perché si dia dettaglio occorre che ci sia opera. Il dettaglio da solo non fa opera, se nega o disturba ci devono essere un’affermazione e un ordine. Il dettaglio devia, scarta, e è a sua volta uno scarto, ma occorre che esista una norma, o che chi opera lo scarto ne abbia in mente una, più o meno definita.
In sé peraltro, a differenza del particolare che come dice il termine è una parte dell’opera facilmente riconoscibile da uno sguardo appena attento, il dettaglio non esiste, non è altro che ciò che risulta da un’operazione, duplice, del pittore e, più ancora, dell’osservatore: ma mentre per il pittore è più un’intenzione, la creazione di qualcosa che ha uno scopo, esplicito o criptato, o che viceversa, come un tic o un sintomo, gli è in qualche modo sfuggito (ma che poi ha lasciato: e allora…), per l’osservatore è invece un prelievo intenzionale, anche quando la sua attenzione è stata calamitata o provocata da qualcosa che il pittore ha messo apposta per chi fosse capace di vederla e intenderla (o ha nascosto pensando che non potesse essere notata, per quanto questa sia una pia illusione: prima o poi qualcuno vede: e molti vedono anche quello che non ti sei accorto di aver messo).
A seconda dei momenti storici e delle tendenze i dettagli assumono caratteristiche e scopi diversi. Per esempio nella tradizione religiosa esercitano una funzione di aiuto alla memoria, come nelle immagini degli strumenti della passione, ma “devono essere sorprendenti e inconsueti, perché lo scarto dall’abitudine permette di memorizzare più facilmente la nozione associata a questo o quel dettaglio”; e devono averne anche una emotiva, perché “costituiscono un punto di sostegno privilegiato per instaurare il patetico dell’immagine”, per esempio per “gustare la passione di Cristo”, come scrive Caterina da Siena.
Più avanti, nel ‘400, avranno al contempo il ruolo di “indicatore della scienza del pittore”, del suo “saper fare”, della sua capacità di riprodurre alla perfezione la realtà e insieme quello di un indizio che si tratta comunque di un artificio (la mosca a grandezza naturale sulla figura dipinta, per esempio, che nel momento in cui viene riconosciuta essa pure come supremo artificio mette in crisi lo statuto di mimesi del resto del quadro), ma anche del suo “saper giudicare” cosa è opportuno inserire nella composizione e cosa no, determinando in tal modo il peculiare statuto della “verità in pittura” nei differenti momenti della sua storia, che modello di rappresentazione del mondo in essa trova la sua emergenza.
Dentro ogni opera c’è la sua teoria, ed è questa che il dettaglio permette di riconoscere e aiuta a definire anche quando “scompagina il dispositivo spaziale codificato” e lo mette in discussione. L’opera è un sistema di rappresentazione che pensa autonomamente (è carico di un pensiero e di un sapere pregressi, impliciti nel fare, nell’immaginare e nel formare…) ed è lei stessa a dettare le regole della propria decifrazione.
Per questo occorrerà controllare l’occorrenza del dettaglio onde evitare che chi guarda, perdendosi in esso, si adagi nelle proprie fantasie e speculazioni perdendo di vista l’insieme, l’armonia della costruzione e la congruità di ogni particolare che in essa trova spazio e senso, che è quanto dovrebbe essere trasmesso all’osservatore ideale, dal suo bel punto di vista già predisposto a cui restare fedele, ricompensato con la bellezza e la conoscenza che il quadro dispiega al suo occhio, lì, in un certo senso, inchiodato, o medusato.
Attratto dal dettaglio, invece, l’osservatore reale si ribella alla dittatura di quello ideale, incorporeo e monoculare, presupposto dal punto di vista, per andare a vedere da vicino, con entrambi gli occhi, e anzi con tutto il corpo, mosso da un desiderio visivo e anche tattile, il corpo della pittura, a ispezionarlo, ritagliandolo e facendo proprio come il lanzichenecco che si narra sia stato tanto folgorato dal paesaggio delle Nozze Mistiche di Santa Caterina del Lotto ora in Carrara, da ritagliarlo e portarselo via con sé, come una specie di pin-up della pittura, incarnazione del suo desiderio erotico, desiderio che può essere anche mortale, come avviene per il Bergotte di Proust con “la piccola ala di muro giallo” della Veduta di Delft di Vermeer.
L’investimento dell’osservatore è simile, ma non uguale a quello del pittore, che inserisce dettagli a volte criptici, personalissimi e non destinati a nessuno spettatore, perché chi guarda ritaglia dove e come gli pare l’immagine o la superficie dipinta, anche in modo indipendente da ogni strategia messa in opera dal creatore. Il dettaglio nasce dal capriccio della ricezione, chi lo ritaglia è il suo creatore, anche se lo studioso non può evidentemente fermarsi all’attrazione soggettiva, ma cerca sempre poi, per noi che lo leggiamo di analizzarne ruolo e caratteri, per quanto sappia che al fondo di questa attrazione e della relativa analisi, resta, all’inizio come alla fine, un non-detto, e un indicibile.
Normale che esso si eserciti spesso quindi laddove l’indicibile si coniuga con il non voler o il non poter dire dell’artista, con il suo erotismo in rapporto alla figura rappresentata oltre che al gesto del rappresentare, come la macchia di Ingres sul meraviglioso abito di Madame Moitessier e i tanti nudi della storia della pittura, a partire da Marte e Venere di Botticelli Botticelli, Giorgione e Tiziano, soprattutto, per arrivare a quelli scandalosi di Courbet e Manet e oltre.
A proposito di Courbet, apro una parentesi su L’origine del mondo, che non è un dettaglio. La pulsione che agisce in essa non è quella del dettaglio, per quanto forte sia quella innescata dall’oggetto del quadro. Esso infatti non è un particolare, ma un’opera che rappresenta una parte del corpo: esattamente quella la parte di un corpo che costituisce il suo centro, la sua origine, il prototipo del desiderio, la sua incarnazione… tutto quello che si vorrà (le interpretazioni si sprecano, naturalmente: poche cose ne meritano altrettante), ma non è un dettaglio. Come opera è completa, anche se l’intenzione in certa misura paradossale e provocatoria di Courbet è stata quella di fare un’opera con una parte, una parte che contiene il tutto (come una sineddoche), o che ha in sé tutto.
A parte ogni altra considerazione, il quadro di Courbet è la rappresentazione della parte di un corpo elevata a opera. Completa. Totale. E’ il taglio, del corpo e nel corpo, del pittore, e quindi di tutto il sistema del dettaglio che invade l’opera, la sostituisce e la costituisce.
[qui c'era la riproduzione di L'origine du Monde, di Courbet, la cui vista disturbava le anime sensibili di tanti aficionados dei siti porno e di violenze efferate]
Il piacere di Arasse che individua e analizza i dettagli e quello dello spettatore che visita una mostra o un museo, sono anche quelli del lettore che scorre questo libro, con i suoi innovativi approfondimenti storici e teorici, e soprattutto con la bellissima serie di analisi di quadri singoli o raggruppati per tipologie o parentele.
La nostra sete di dettagli, trova di che dissetarsi, ma anche motivo di riflessione a proposito del loro odierno dilagare in ogni aspetto della comunicazione, che si nota banalmente anche solo scorrendo social e giornali, oltre che in molta produzione saggistica e narrativa. Siamo attenti ai dettagli perché abbiamo perso la visione d’insieme, o quantomeno l’illusione di averne una. Non restano che frammenti sparsi che si presentano come insiemi autonomi e unitari, che però fatichiamo, di nuovo, a vedere come tali, così che avviciniamo ancor di più l’occhio e ritagliamo altri frammenti che speriamo così di poter riconoscere e dominare; poi da lì cerchiamo nel nostro cestino dei rifiuti altri dettagli simili e proviamo a collegarli tra di loro sperando di riuscire a mettere insieme qualcosa di più ampio che abbia un senso, trascurando di fare questo con gli insiemi da cui abbiamo estratto i dettagli, perché troppo ampi, ingovernabili, e che quindi, invece di soddisfare in qualche modo il nostro bisogno di coerenza, ci mostrano un caos nel quale ci smarriamo, disperando di venirne a capo. Ma tutto ha un senso. Ogni frammento e ogni loro insieme e ogni insieme di insiemi. E noi siamo ciechi e sordi e muti, o balbuzienti, nello stesso momento in cui gli diamo la forma in cui siamo immersi senza saperla riconoscere. E così via. E così via…
Il libro di Arasse ha parecchio da dirci anche a questo proposito.