a Michela Aiezza e a Maurizio
Luisa, preziosi informatori. Grazie
La prima volta l’impiegata ha
sgranato gli occhi per la sorpresa. La seconda, poiché è una donna sveglia e
sbrigativa, mi ha rivolto uno sguardo divertito e mi ha chiesto se per favore
potevo ripetere la domanda. Quando gliel’ho ripetuta pronunciando con chiarezza
ogni lettera, ha assunto un’espressione seria e mi ha ribattuto con tono fermo
che non aveva tempo da perdere e che non era disposta a farsi prendere in giro.
A queste parole, le persone che mi seguivano nella fila hanno cominciato a
drizzare le orecchie e, mentre ribadivo con la massima serietà la mia
richiesta, alcuni hanno preso ad agitarsi, presagendo, se non dei fastidi,
perché la situazione poteva presentare dei lati divertenti, quanto meno una
perdita di tempo che non avevano messo in conto.
“Insomma,” ho detto con
gentilezza ma senza tentennamenti, “quello che le chiedo è molto semplice:
voglio sapere che pratiche devo fare per diventare apolide. Se non lo sa, mi
dica almeno a quale ufficio o funzionario devo rivolgermi per avere le
informazioni necessarie.”
“Ma lei non può voler seriamente
rinunciare alla cittadinanza; è una cosa impossibile, che io sappia”, mi ha
allora risposto, con tono meno sicuro.
“Non solo lo voglio, ma, dato che
sono ancora un cittadino, penso che sia un mio diritto poterlo chiedere e poi ottenere.
Vorrei quindi sapere quali sono i passi necessari per rinunciare a questo
diritto, e eventualmente per esigere che venga rimossa anche ogni traccia del
mio precedente statuto di cittadino. In poche parole, non solo non voglio
essere un cittadino, ma non voglio esserlo mai stato. Ci sarà pure qualche
legge che preveda una richiesta del genere. Non penso che sia poi così
peregrina. Se lo Stato ha il diritto di togliere dei diritti a un cittadino,
anche questi può avere il diritto di rinunciare a tutti i suoi diritti, a
partire da quello di essere un cittadino.”
La donna si volta a chiedere ai
due impiegati che condividono il piccolo ufficio e, poiché entrambi le
oppongono una faccia sbigottita, a meno che l'espressione ottusa non sia un
loro appannaggio fisiognomico naturale, o professionale, prega uno di loro di
andare ad informarsi negli altri uffici e, me, se in attesa delle informazioni
mi posso per favore accomodare fuori dalla fila per consentirle di proseguire
il suo lavoro e assolvere alle richieste degli altri cittadini. Dice la parola
senza rimarcarla. Una sfumatura che apprezzo. Mi piace l'ironia. Le sorrido. Ma
appena appena.
Approfitto dell'attesa per uscire
a fumare, tra gli sguardi pure sbigottiti dei presenti, alcuni dei quali, che
mi conoscono di vista, salutano cercando di celare il loro sbigottimento. In
paese godo di una certa stima. Il cielo sulla piazza è azzurro, con un paio
uccelli in volo, il parcheggio semideserto, la gente chiusa nei bar, l'aria
ancora fresca. Sto bene, la sigaretta mi sembra più saporita del solito. Forse
è la chimica di tabacco, aria e saliva del momento specifico; forse è perché
sono soddisfatto della decisione presa. O forse sto bene e basta. Perché
chiederselo?
Quando rientro l'impiegato non è
ancora tornato. Mi accomodo su una delle due sedie, incrocio le gambe e guardo
i manifesti e i comunicati appesi alle pareti. Alcune teste si girano verso di
me. I bisbigli cessano. Se l'impiegato non è ancora tornato vuol dire che
nessuno sa cosa rispondere alla mia richiesta e quindi che qualche altro
impiegato di livello superiore o il segretario comunale, o addirittura il
sindaco, che tra l'altro conosco, si staranno consultando tra di loro o
telefonando a destra o a manca per informarsi.
Dopo venti minuti arriva la
risposta, categorica: non è possibile. "Impossibile," faccio io,
"qualcosa si deve poter fare". "Mi spiace", dice
l'impiegato con una faccia per niente dispiaciuta, e anzi con un che di
maligno, non dico di intelligente, negli occhietti, che non riesce a
mascherare, "ma questo caso non è previsto da nessuna legge."
"Va bene, vuol dire che mi informerò altrove," rispondo,
"qualcuno un po' più ferrato di voi ci sarà. Buongiorno." Eppure non
sono meschino. "Auguri", mi fa il bellimbusto. Non ribatto. Giusto così.
Gli lascio il piccolo trionfo dell'ultima parola, che si gode cercando
approvazione a destra e a manca. Qualcuno gliela concede. Avranno qualcosa da
raccontare, nei prossimi giorni. Avrò innescato delle storie. Mi torna la
soddisfazione.
Appena uscito, telefono a
Maurizio, un amico avvocato, persona simpatica e intelligente oltre che molto
preparata, il quale mi chiede a cosa mi serve questa informazione un po'
strana: per qualcosa che voglio scrivere? Pur conoscendomi da anni, apprezza
quello che scrivo. Forse non è così intelligente come sembra. O forse sì.
Deficit extraprofessionali sono ammessi. Non glielo dico. Prima mi comunichi
quello che sa, poi soddisferò la sua curiosità. Ha bisogno di un po' di tempo,
mi dà appuntamento per l'ora dell'aperitivo, che io non prendo mai. Ma conferma
che così, di prima impressione, anche lui crede che sia impossibile non solo
rinunciare alla cittadinanza, ma ancor più cancellare ogni traccia precedente.
Ci vorrebbe un diritto creativo, dice ridendo. Sogno a occhi aperti. Un diritto
che crea, la creazione del diritto, il diritto alla creazione... Non è così?,
dico, e chiudo.
Arrivo al bar in perfetto orario,
ma lui non c'è, e allora lo aspetto fuori, fumando una sigaretta e guardando i
passanti, che mi sembrano tutti strani. Tutti, dal primo all'ultimo. Come
diavolo fanno a essere come sono? Ma d'altra parte che ne so io di come sono?
Però, strani, sono strani davvero. Alcuni ricambiano il mio sguardo. Le
espressioni sono varie, incomprensibili. I pochi sorrisi ancora di più. Un paio
sembrano ostentare una certa superiorità. Quella degli imbecilli. Finalmente,
dopo mezz'ora, con passo calmo, come se niente fosse, e uno sguardo di aperta
simpatia (questa sì che la capisco), elegantissimo come sempre, arriva Maurizio.
Fare aspettare è la prassi per gli avvocati e gentaglia consimile. Non si
scusano nemmeno. Si meraviglierebbero del contrario. Lui si scusa, e io dico:
fa niente, come è prassi mia; mi son guardato in giro. Hai visto qualcosa di
interessante? Sì. Cosa? Non te lo dico. Decidiamo di non entrare nel bar e di
parlare passeggiando. L'aria è tiepida, la luce morbida. Andiamo verso il
fiume.
Mi racconta del caso recente di
una bambina, per quale i genitori, stranieri, non riuscivano a ottenere il
certificato di nascita, con tutto ciò che ne consegue, perché nata su
un'eliambulanza. Poiché questi elicotteri non atterrano in un aeroporto civile,
il comandante non può fare rapporto ufficiale e quindi registrare la nascita.
C'è un vuoto legislativo in merito. Pare che abbiano ovviato mediante un
accordo tra comandante e un sindaco di buona volontà. Roba del genere. Il
trionfo del buonsenso, una volta tanto, dal momento che questo è ciò che
desideravano i genitori. Ma un apolide in meno, penso io; una possibilità gettata
al vento. Nel mio caso, invece, il problema è chiaro: nel nostro Stato e in
quelli dell'unione c'è una legislazione per i casi di apolidia preesistente, ma
nessuna per una pretesa come la mia. Non mi piace la parola pretesa, e glielo
dico. La nostra nazione, continua lui, fa di tutto per evitare casi di
apolidia. Si può rinunciare alla cittadinanza solo quando se ne chiede un’altra
presso una nazione che, secondo accordi internazionali o per la loro assenza,
non concede la doppia cittadinanza e quindi esige la preventiva cancellazione
della prima, originaria o acquisita che sia. Altri casi non sono previsti.
Ma io non voglio chiedere nessuna
nuova cittadinanza: voglio essere apolide! Anche se potrei chiedere la
cittadinanza di qualche altro stato la cui legislazione prevede la possibilità
successiva di recedere senza doverne per forza richiedere una nuova. Ammesso
che ce ne siano. Ma se voglio rinunciare a qualcosa, perché dovrei chiederne
un'altra in tutto e per tutto uguale? Non ha senso.
Veramente, dice Maurizio, senza
molto senso è piuttosto la tua pretesa. E dài! Insiste per sapere perché. E me
lo chiedi? E poi, dato che ne ho sentito la necessità, ora intendo fare di
tutto per portarla a compimento. E' una questione di principio. Una necessità
non ti benedice ogni giorno. Va assecondata. Una questione di principio tu? Sì,
proprio io. Se non ci sono altri interessi sottesi, come di solito avviene, le
questioni di principio sono le uniche che valga la pena di sostenere e
perseguire fino in fondo. Non capisce. Andiamo avanti piuttosto, invito io. Ci
sarebbe, dice lui, oltre al caso di uno che avendo stabilito la sua residenza
all'estero con relativa nuova cittadinanza rinuncia a quella d'origine, la
possibilità che la cittadinanza venga tolta a titolo sanzionatorio. Ma io non
voglio avere la residenza da nessuna parte, né ho fatto o intendo fare nulla di
così grave da richiedere una sanzione come la revoca della cittadinanza. Non
deve essere lo Stato che me la toglie: non la voglio io. C'è una bella differenza!
L'acqua del canale che costeggia
il fiume è ferma, di un verde marcio che riflette un cielo che non c'è. O come
se il colore venisse dal fondo. Ha un suo fascino. Quello dell'opacità. Saliamo
sulla lunga passerella di ferro e legno e andiamo verso la riva opposta,
boschiva. Intanto Maurizio mi illustra i casi di revoca della cittadinanza:
traditori che chiedono la cittadinanza di un paese nemico durante un conflitto
o che addirittura combattono per esso; avventurieri che assumono ruoli
istituzionali in paesi o organizzazioni non riconosciute dagli organismi
internazionali e non rinunciano nemmeno dietro richiesta esplicita dello stato
di origine. Gente interessante, ma che non fa al caso mio.
Mi parla dei criteri fondamentali
per l'attribuzione della cittadinanza, lo jus sanguinis, lo jus soli
... E poi ci sarebbe il caso di un figlio minore, o adottato o convivente con
un soggetto di origine straniera che ha acquisito la cittadinanza, che al
compimento del diciottesimo compleanno, purché in possesso di un'altra
cittadinanza, può rinunciare alla nostra. Si chiama juris communicatio. Communicatio!
Le parole! Io però non sono figlio di stranieri e i diciott'anni me li sono
lasciati alle spalle da un po', senza rimpianti. Non li rimpiange nemmeno lui.
Lui perché è soddisfatto; io perché non lo ero nemmeno allora.
L'acqua del fiume è invece
trasparente e scorre lenta. Gli alberi, il cielo e il ponte si rispecchiano con
docile narcisismo. Nei pressi dei piloni molti pesci, quasi tutti cavedani, si
lasciano ammirare dagli sfaccendati e ignorano i pochi pescatori. L'unica cosa
che potresti fare, dice all'improvviso Maurizio, come colto da
un'illuminazione, sarebbe un atto di rinuncia unilaterale, senza alcun valore.
Un atto che non ha validità ma
una certa efficacia... azzardo. Neanche quella. Allora è nullo! Sarebbe un atto
simbolico e basta... in realtà non esiste. Ma la realtà è piena di atti
simbolici. Nel diritto non esistono atti simbolici, solo atti simulati, che
hanno pure una validità e non sono unilaterali. Gli atti simbolici non hanno
nessuna validità. Ma qualcuno, simbolicamente, li può riconoscere, e io
stenderò questo atto. Per cominciare.
Nel frattempo siamo arrivati
sulla punta della lingua di terra che separa il fiume da un secondo canale,
dalla corrente sempre ripida e insidiosa. A pochi passi dalla riva c'è un cippo
funerario circondato da un tappeto di fiori, in mazzi coloratissimi disposti in
vasi di varie misure o appoggiati alla lapide di marmo rosa marezzato assieme a
un paio di crocefissi. Sulla lapide, stagliato su un fondo azzurrissimo, c'è il
faccione rotondo di un uomo di mezza età, stempiato, con pochi capelli già
bianchi ai lati e gli occhi, chiari, spalancati; sotto, due date e nome e
cognome, (M**i F****u), albanesi. Si è gettato in acqua vestito per salvare due
fratelli che stavano annegando: il secondo che si era gettato per salvare il
primo. Appena deposti i ragazzi dove potevano toccare, la corrente si è portato
via lui. Aveva da poco avviato le pratiche per ottenere la cittadinanza.
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