Quando siamo arrivati a valle era di nuovo buio, squarciato solo dalla luce giallastra dei fari delle jeep degli ufficiali e degli autocarri schierati ai fianchi della strada, nelle spianate e negli spiazzi accosto, nei cui fasci sfarfallava la neve che ancora cadeva o che il vento portava qua e là scuotendo i rami degli alberi vicini o spazzolando le rocce scoscese. Sulle jeep se ne stavano al riparo solo gli autisti, mentre i pezzi grossi erano scesi e facevano il saluto militare, impettiti, sull’attenti, alla nostra colonna che sbucava dal bosco e imboccava la stradina più larga di fondovalle. Noi eravamo distrutti dalla fatica e da tanta rabbia che, non ci fosse stato il vento, sarebbe bastata da sola a smuovere l’aria e a fare turbinare la neve tutto attorno. Un estraneo ci avrebbe visto una di quelle scene epiche hollywoodiane dove i sopravvissuti eroici ritornano in patria accolti da tutti gli onori, accompagnati da una musica struggente; invece io, allora, e anche ora nel ricordo, vedo solo lo squallore dell’inutilità di tanta morte e della prosopopea e idiozia di quella gente decorata e gallonata, per cui quella era solo una parata, l’occasione di qualche posa monumentale, della cerimonia del “rendere onore” che certo non era una farsa solo per chi lo riceveva ma anche per chi lo rendeva, ammesso che gli restasse un briciolo di intelligenza. Passandogli accanto, ma non proprio accanto, perché non si erano spinti fino ai bordi del sentiero, e tuttavia ancora a portata di voce, molti di noi hanno recuperato un po’ di forze nervose e quella voglia di parlare che, una volta usciti dalla trappola dell’alta valle sommersa dalla neve, ci aveva abbandonato, perché non c’era più nulla da dire, ogni parola, anche la più compassionevole e saggia, sarebbe stato solo una bestemmia come quelle, vere, che avevano costituito l’unico discorso lassù, e hanno risposto al saluto con una sfilza tale di ingiurie e maledizioni che una sola sarebbe bastata per finire sotto processo, in quel tempo in cui dire qualcosa contro l’autorità, quella militare soprattutto, e dirgliela in faccia, costituiva un grave reato, come ancora oggi del resto, che i miserabili benpensanti decerebrati hanno rialzato la cresta amplificati da tutti gli strumenti in possesso di coloro che li stanno sfruttando non certo a loro beneficio, oggi che insultare tutto e tutti è l’unica cosa che la maggior parte della gente sa fare, ridotta a puro fiele e bile e rancore scagliati sempre nella direzione sbagliata. Restavano, i salutatori, come statue sorde nella neve, alla luce dei fari, sperando che qualcuno li fotografasse o filmasse, per avere un ricordo di un momento glorioso, dopo averne prudentemente dimenticato l’occasione. Noi non avevamo più neanche la saliva per sputare.
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
05/03/18
Soldati morti 40'anni fa. | Il ritorno a valle (Una variante)
Quando siamo arrivati a valle era di nuovo buio, squarciato solo dalla luce giallastra dei fari delle jeep degli ufficiali e degli autocarri schierati ai fianchi della strada, nelle spianate e negli spiazzi accosto, nei cui fasci sfarfallava la neve che ancora cadeva o che il vento portava qua e là scuotendo i rami degli alberi vicini o spazzolando le rocce scoscese. Sulle jeep se ne stavano al riparo solo gli autisti, mentre i pezzi grossi erano scesi e facevano il saluto militare, impettiti, sull’attenti, alla nostra colonna che sbucava dal bosco e imboccava la stradina più larga di fondovalle. Noi eravamo distrutti dalla fatica e da tanta rabbia che, non ci fosse stato il vento, sarebbe bastata da sola a smuovere l’aria e a fare turbinare la neve tutto attorno. Un estraneo ci avrebbe visto una di quelle scene epiche hollywoodiane dove i sopravvissuti eroici ritornano in patria accolti da tutti gli onori, accompagnati da una musica struggente; invece io, allora, e anche ora nel ricordo, vedo solo lo squallore dell’inutilità di tanta morte e della prosopopea e idiozia di quella gente decorata e gallonata, per cui quella era solo una parata, l’occasione di qualche posa monumentale, della cerimonia del “rendere onore” che certo non era una farsa solo per chi lo riceveva ma anche per chi lo rendeva, ammesso che gli restasse un briciolo di intelligenza. Passandogli accanto, ma non proprio accanto, perché non si erano spinti fino ai bordi del sentiero, e tuttavia ancora a portata di voce, molti di noi hanno recuperato un po’ di forze nervose e quella voglia di parlare che, una volta usciti dalla trappola dell’alta valle sommersa dalla neve, ci aveva abbandonato, perché non c’era più nulla da dire, ogni parola, anche la più compassionevole e saggia, sarebbe stato solo una bestemmia come quelle, vere, che avevano costituito l’unico discorso lassù, e hanno risposto al saluto con una sfilza tale di ingiurie e maledizioni che una sola sarebbe bastata per finire sotto processo, in quel tempo in cui dire qualcosa contro l’autorità, quella militare soprattutto, e dirgliela in faccia, costituiva un grave reato, come ancora oggi del resto, che i miserabili benpensanti decerebrati hanno rialzato la cresta amplificati da tutti gli strumenti in possesso di coloro che li stanno sfruttando non certo a loro beneficio, oggi che insultare tutto e tutti è l’unica cosa che la maggior parte della gente sa fare, ridotta a puro fiele e bile e rancore scagliati sempre nella direzione sbagliata. Restavano, i salutatori, come statue sorde nella neve, alla luce dei fari, sperando che qualcuno li fotografasse o filmasse, per avere un ricordo di un momento glorioso, dopo averne prudentemente dimenticato l’occasione. Noi non avevamo più neanche la saliva per sputare.
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