La seconda opera è la
brezza. La prima è il luogo buio, dove ti ritrovi indifeso, solo, soggetto a tutto, e
senti forse, a momenti, rumori, bisbigli, intuisci movimenti e a volte sei
raggiunto da toccamenti, urti e carezze che non sai da dove e da chi vengano. È
un’opera che non c’è; c’è solo nella misura in cui la vivi, ti esponi ad essa
entrando, ogni volta diversa, variata. Altrimenti si sottrae alla percezione; o
meglio: è la percezione del buio totale: se uno non entra, da fuori c’è solo il
buio, la percezione di non percepire.
La brezza percorre tutto il libro, è una delle immagini chiave; ma si sente perché prima si è stati esposti al buio, allo spaesamento, alla fragilità, alla solitudine e alla paura. È l’invisibile che ti càpita. Si comincia a scrivere così. Poi la brezza spinge.
La brezza percorre tutto il libro, è una delle immagini chiave; ma si sente perché prima si è stati esposti al buio, allo spaesamento, alla fragilità, alla solitudine e alla paura. È l’invisibile che ti càpita. Si comincia a scrivere così. Poi la brezza spinge.
(Ma nel luogo buio
si torna sempre comunque.)
Il narratore
infatti ci torna regolarmente. È un po’ una metafora del suo (e nostro) agire e
vivere, la perdita di ogni riferimento, l’acuire i sensi senza nessun
risultato, la tensione l’allerta e l’abbandono, il desiderio e la paura del
contatto, ad opera di chiunque, nel buio in cui si brancola.
Da una trentina d’anni a questa parte, almeno a partire da Impostura (1984, non tradotto in
italiano), e poi a ritmo crescente in questo secolo inaugurato con il
bellissimo Bartleby & Co.,
Enrique Vila-Matas ci ha dato una serie di romanzi di altissimo livello che lo
hanno posto tra i massimi scrittori viventi. Partendo dall’ultimo libro
tradotto, Kassel non invita alla logica,
vorrei parlare di alcuni aspetti e temi della sua opera che ogni nuovo titolo arricchisce
di approfondimenti e sfaccettature, così da creare un edificio complesso e
coerente, riconoscibilissimo ma per nulla monotono, sempre in fieri ma composto
di opere perfettamente autonome e come tali leggibili.
I temi sono quelli che la modernità ha portato alla luce e
che, in un certo senso, più che indagato ha fatto nascere e che ora sono nella
nostra vita solo nella misura in cui ce li ha portati la letteratura: non
perché prima non ci fossero la disperazione, il rifiuto, la fuga, il conflitto
generazionale, o l’abisso, la perdita di identità, l’eclisse del soggetto, la
rinuncia all’opera ecc., ma perché è la letteratura nata con la modernità ad
averli circoscritti, definiti, tematizzati e indagati, cioè posti in essere.
Leggendo Vila-Matas è tutta la letteratura che si avverte e si legge, con un accento
inconfondibile presto diventa anche il nostro: non siamo proiettati nel
passato, sentiamo il passato nel presente e possiamo sentire il presente
proprio per la presenza in esso di tutto il passato. Non come guardarobato o
repertorio, ma come fonte e sostanza del nostro sentire.
Il tono in cui questi temi sono affrontati rileva sempre di ironia
e leggerezza che, lungi dall’andare a discapito di serietà e profondità, sono
per Vila-Matas il solo modo in cui possono presentarsi senza tracimare
immediatamente nell’insulsaggine seriosa (nella stupidità). Vila-Matas infatti è
sempre divertente. Divertente quanto intelligente (tantissimo). Che poi è la
stessa cosa, perché l’intelligenza è una fonte inesauribile di divertimento;
meglio: di gioia; anche quando l’argomento è serio o tragico, perché anche
nella tristezza e nel dolore, l’intelligenza e la comprensione possono essere
fonte di gioia. Una gioia leggera, che mette in moto il cervello e
l’immaginazione insieme: non quella sognante, fantasiosa (anche, a volte), ma
quella combinatoria e, più ancora, quella a cui piace imboccare strade e
seguirle fin dove sono tracciate e oltre, e da lì tracciarne altre. Meno per
perdersi, o per il gusto dell’ignoto che avvolge e soggioga, quanto piuttosto
perché già perdersi è un trovare. E anche un ritrovare: trovare non di nuovo,
ma trovare nuovo ciò che già si sapeva o si aveva in ciò che si ignorava e si
viene a sapere, che si scopre leggendo e pensando. Un modo nuovo di trovare.
(Anche l’intelligenza è una passione.)
L’assunto di
partenza di gran parte dei suoi libri è semplice: non so se c’è qualcosa di
importante da capire; se c’è, è impossibile capirlo però; e se lo si capisce, è
impossibile dirlo. O quantomeno dirlo direttamente. Ma siccome uno vuole dire
lo stesso (è già nel linguaggio, e nella letteratura, fin dal principio), può
tentare di farlo solo indirettamente in maniera seconda, o terza ecc. E questo
principalmente tramite due vie: la prima, ripercorrendo ciò che è stato detto
da altri (ciò che altri hanno tentato di dire in merito: anche in merito a ciò
che loro o qualcun altro hanno fatto, donde la rilevanza della biografia);
l’altra con gli strumenti della retorica: l’ironia in primis, che è sempre
obliqua, e poi la reticenza, l’ellissi e persino, con parsimonia, la metafora e
l’allegoria.
La procedura
è questa: individuato l’argomento o tema, o motivo (o urgenza, o svago: perché
no?): per esempio la negazione (Bartleby),
la giovinezza e la “disperazione” (Parigi...),
il suicidio e l’arte della sparizione (Suicidi
esemplari), la depressione (Il mal di
Montano), ecc., indagare (leggere, studiare ecc.) quanto si trova su si
esso (non nei trattati psico- o sociologici, ma nella letteratura),
collazionarli e ordinarli (ma non in modo lineare: come una trama, piuttosto) e
trovare un filo conduttore, meglio se a sua volta doppio o indiretto per
infilare le perle trovate o create ad hoc, con qualche nodo, alcuni visibili
altri meno, e qualche pietra estranea, confidando che il lettore sia distratto
e cada lui stesso vittima della doppiezza (cioè della brillanza; anzi, visto
che siamo nel letterario: degli specchi, della falsa sembianza, della finta
rappresentazione) e continui a modo suo l’operazione. Ciò che gran parte dei
suoi lettori, che in questi libri si proiettano e trovano fratellanze
impensate, sono ben lieti di fare.
Vila-Matas è affetto da una forma acuta
ma non letale del “mal d’archivio” di cui parla Derrida, che cura non
combattendola, ma piegandola verso il giocoso, la libera combinatoria. La
letteratura postmoderna mostra chiaramente il pericolo insito in queste
procedure: che il gioco scada a giochetto, che il gratuito prenda il
sopravvento subordinandosi al divertimento e proprio per questo non
raggiungendolo se non a tratti, o peggio ribaltandolo nel noioso, anche se
Vila-Matas è troppo avveduto per non cercare di recuperare persino il gratuito
nella concezione stessa del libro, nel suo oggetto (lo shandy, il mcguffin), a
dispetto del rischio sempre incombente che si tratti di un salvataggio alla Münchhausen,
che cerca cioè di tirarsi fuori dalla palude prendendosi per i propri capelli. Tanto
che viene il sospetto che questa non sia che una presa in giro del postmoderno
con le sue farciture decontestualizzate di tutto con tutto ecc., e insieme del
suo (presunto) normale modo di costruire certi libri. Vale per lui la lezione
di Salvator Dalì (cit. in Il viaggiatore
più lento, p.87): “Approfitto al massimo della situazione. Approfitto di
tutto”. Poi se ne va per le sue strade e il lettore lo segue.
Passando ora a Kassel
non invita alla logica (2014, trad. it. 2015), ad alcuni è parso un libro godibile
e acutissimo come sempre, ma forse un po’ marginale, con la sua apparenza di
reportage narrativo, sia pure non scontato come non lo è nessun libro di Vila-Matas.
Non sono d’accordo, ma se anche così fosse, a volte sono proprio i libri
apparentemente minori, o “laterali”, quelli che permettono di accedere più
agevolmente al mondo e alla strumentazione di un autore; non perché lì si
tradisca o si lasci più andare, cosa che è difficile attribuire a uno scrittore
come Vila-Matas, tanto lucido che si potrebbe pensare che questa sua qualità si
traduca a volte in debolezza, o come la forza vista dall’altro lato se si
preferisce, come il limite su cui fare leva approfittando del suo punto di
maggior forza, come direbbe qualche orientale, per ribaltarlo a terra e costringerlo
a cedere (a rivelarsi); quanto perché certi motivi che erano parsi marginali
diventano in quelle opere centrali e rendono manifesti alcuni meccanismi che lì
funzionano quasi da soli o vengono esplicitamente portati in primo piano, o
usati in modo appena mascherato (cioè rivoltati e mutati di segno), in contesti
insoliti e in forme che rilevano in apparenza di generi e convenzioni diverse,
come il diario o il reportage.
Per tali ragioni è forse interessante accostarsi alla sua
opera passando per la porta di un libro come questo che rispetto ai più noti
sembra un po’ laterale e minore anche quanto agli argomenti, mentre invece ne riprende
e sviluppa alcuni dei temi principali e lo fa, conformemente all’occasione: la
più importante manifestazione internazionale di arte contemporanea cosiddetta
d’avanguardia, innovando per l’ennesima volta la forma narrativa adottata. Kassel si presenta infatti come un resoconto
dell’esperienza di Vila-Matas a Documenta XI che si diffonde largamente anche
sulle opere e installazioni realizzate per la circostanza incluso il piccolo ruolo
che lui stesso vi ha recitato, e molti hanno creduto che nient’altro che questo
fosse, senza accorgersi che invece è un altro, e importante, capitolo della sua
esplorazione del soggetto e dei suoi rapporti con l'opera e con la vita, – in
primo luogo la sua, e proprio per questo, tendenzialmente, con quella di tutti –,
e sul ruolo imprescindibile che vi riveste l’arte, che si definisce come tale
solo attraverso l’innovazione, come avanguardia appunto, anche se oggi questa
denominazione sembra obsoleta. (Basta chiamarla in un altro modo, se proprio.)
Vila-Matas era stato invitato a
partecipare alla manifestazione dalle curatrici Carolyn Christov-Bakargaev e
Chus Martínez. Dopo qualche riluttanza aveva accettato, attratto dal desiderio
di poter verificare lo stato dell’avanguardia visiva contemporanea e anche per cercare
di sfuggire allo strano fenomeno di alternanza quotidiana di euforia e disforia,
di allegria e vitalità al mattino e depressione sempre più cupa all’avvicinarsi
alla sera, da cui era affetto dopo la grave malattia che lo aveva colpito pochi
anni prima. Condizione che ripete, ribaltata, quella del titolo della rassegna
di Kassel: Collapse and Recovery. “Nel
mio corpo si compie il motto di Documenta”, p. 67. Il suo compito sarebbe stato
semplice: non avrebbe dovuto fare altro che essere se stesso e starsene
tranquillo per tre settimane a scrivere, invece che in privato a casa propria, in
pubblico al tavolo di un ristorante cinese; compito che si sarebbe concluso, su
sua esplicita richiesta, con una conferenza intitolata “Conferenza senza
nessuno” (tenute, ascoltate, progettate, schivate, le conferenze sono
frequentissime in Vila-Matas), come se accettare l’invito non fosse che “per
vedere se ero in grado di trasformare la loro proposta cinese in qualcosa di
creativo o, in alternativa praticamente identica: in grado di trasformare la
loro proposta in un fertile e produttivo modo di cavarmela”. Una prova. (p. 52)
Nel ristorante cinese, Vila-Matas è
quindi se stesso e insieme interpreta il ruolo dello scrittore all’opera: è
un’opera che altri ha pensato per lui, assegnandogli questo ruolo, ma che lui si
sente libero di interpretare a modo suo. Recita quindi il ruolo dello scrittore,
come non si può fare a meno di recitare in ogni momento della vita (secondo
quanto viene detto esplicitamente in Diario
volubile), ragion per cui è inutile cercare di sfuggirvi. Molto meglio,
allora, assumerlo con la consapevolezza che si sta comunque recitando e, poiché
non si è mai se stessi, cambiare ogni tanto di identità e ruolo, declinando in
modo originale dei presupposti che invece originalissimi non sono, almeno da
Pirandello in poi. Per esempio, a Kassel, cominciare accettando il ruolo di
rappresentante di se stesso scrittore (e della categoria) anche come colui che
scrive in, e per il pubblico, forse come una parodia di quegli intellettuali
che si mettono a disposizione dei fans nelle fiere e nei festival, per non
parlare di quelli che se ne stanno a scrivere ai tavolini delle terrasses dei
caffè parigini o all’interno di quelli triestini (con l’aggiunta però che lo
scrittore catalano ama Magris e gli è amico personale), per poi assumere
l’identità di un altro scrittore (chiamato appunto Autre), a cui verranno
attribuite personalità e opere in apparente contrasto con quanto il lettore su
Vila-Matas è venuto apprendendo, al quale Autre se ne aggiunge poi un altro
ancora (Piniowsky), a sua volta dotato di caratteristiche individuali e via di
seguito. La scrittore nella sua funzione pubblica non è altro che un tale che
scrive in pubblico, ignorato da tutti, a parte un paio di scocciatori; l’autore
come personalità e istituzione si dissolve in fantasmi mentali risibili.
Allo scrittore inventato, Autre, rappresentato come ingenuo
e non intellettuale, l’autore attribuisce ironicamente due sole idee, ossessive
però: incomunicabilità e fuga, di cui il Vila-Matas narratore dice che gli sono
indifferenti (“il desiderio di cambiare vita e partire e basta mi era
indifferente: in fin dei conti, era il desiderio di un altro... un barcellonese
chiamato (provvisoriamente) Autre” – p. 103), ma che sono invece due degli argomenti
che più ricorrono nella sua stessa opera, come sanno benissimo i suoi lettori.
Il gioco dei rimandi e mascheramenti viene poi rafforzato dal fatto che gli
attribuisce anche alcuni tratti e ricordi della propria biografia, come avviene
per altri personaggi di romanzi precedenti quando si costruiscono un passato quando
decidono di cambiare identità.
È una procedura che in varie forme si ritrova in altri libri
di Vila-Matas: per esempio i ricordi del padre di Vilnius, in Un’aria da Dylan, si infiltrano nella
sua mente in modo simile ma opposto a quelli del fantomatico dott. Pasavento
nel narratore del romanzo omonimo, ma analogo a quello dei pensieri di Autre e
Piniowsky, che invadono e per brevi tratti colonizzano la testa nel narratore
di Kassel, che assume la loro
personalità e adotta i loro pensieri e progetti e sembra (dico sembra)
cancellarsi in essi, a misura della differenza e lontananza dai propri (da
quelli che lui si attribuisce).
Il passato dei personaggi (e forse quello di tutti) come
invenzione, insomma, come frammento della vita di un altro personaggio ancora che
non coincide con colui che si inventa un’identità ricordando; ma anche un
passato che trasforma l’identità del narratore e, si lascia intendere tra le
righe, dell’autore stesso.
L’invenzione di Autre e di altre figure della stessa serie,
come Piniowsky, mi ricorda non fosse che per una remota assonanza Learco
Pignagnoli, il personaggio inventato da Benati, Nori, Cornia & Co, che a
loro volta mi ricordano la setta degli Shandy vila-matasiani. Con la differenza
che la combriccola emiliana ha creato un soggetto autonomo, una figura completa
di opere e personalità, con un cospicuo corredo di esperienze e ricordi di cui
essa sarebbe depositaria e testimone, mentre nell’opera di Vila-Matas, e in particolare
in Kassel, l’invenzione dei due
scrittori che ne prendono il posto nel ristorante cinese complica il soggetto,
lo decentra e lo spossessa, moltiplica i punti di vista e li fare interagire
mettendoli in reciproca contraddizione e rendendo infine tutto fittizio. Ovvero
assegnando a tutto lo statuto di una finzione. Di una finzione necessaria: in
sé, se non nei modi che viene ad assumere. O meglio: necessaria proprio perché
non può fare a meno di assumere modi e ruoli che per conto loro non lo sono (ma
nell’opera specifica sì). Una finzione che tuttavia in Vila-Matas non cancella
il soggetto e la sua “vera” identità: “da quando mi chiamavo Piniowsky
assomigliavo di più me” (188). Per essere se stessi, quindi, non basta esserlo,
bisogna anche somigliare; ma per somigliare bisogna uscire da sé, cioè non
esserlo più: non coincidere con se stesso. (Ricordo di sfuggita che quello che si
potrebbe chiamare il “fattore somiglianza” è un altro dei motivi ricorrenti
dell’opera di Vila-Matas: dal protagonista di Parigi non finisce mai che crede di assomigliare a Hemingway e
addirittura va a una convention dei sosia in Florida da cui sarà allontanato
con ignominia, a quello di Un’aria da
Dylan che davvero assomiglia al grande Bob...: un tema che ovviamente va di
pari passo a quello opposto della volontà di distinguersi e di opporsi, in una
dialettica che a volte inverte i normali ruoli generazionali, narrata cioè dal
padre insofferente e, lui sì, ribelle...)
Più l'autore è
stato espulso dall'opera, più si sono moltiplicati i modi e le forme in cui il
suo fantasma vi è riapparso. Decretata la sua morte, l'autore è libero di
riprendere possesso dell'opera e scegliere tempi e luoghi delle sue apparizioni
e dei suoi nascondimenti, dei camuffamenti o parziali proiezioni, delle sue
temporanee eclissi.
In Kassel, al consueto gioco di
sovrapposizioni-giochi-sparizioni ecc., si aggiunge la doppia figura
dell'“autore all'opera” come opera. L'autore si espone mentre è all'opera (ma
in realtà finge di scrivere, o scrive cose che attribuisce a un autore fittizio
di cui assume la temporanea identità, sempre con il rischio che questa, però,
prenda il sopravvento sulla “sua”, vera o a sua volta immaginata); è autore in
quanto è all'opera, in questo caso mentre scrive al tavolo di un ristorante
cinese, e come tale viene riconosciuto, o volontariamente ignorato, anche da
chi non lo conosce, non ha mai letto una sua riga o ne ignora persino il nome;
ma mentre si espone all'opera, diventa lui stesso opera: è opera per il fatto
di esporsi. Ma questo fa di lui, di nuovo, un altro, e allora lui ne assume
l'identità (la inventa, gli dà un nome e una bibliografia e uno stile), o
almeno così crede, perché poi di fatto è quest'altro a prendere possesso di lui
e dei suoi pensieri, o quanto meno, se non a produrli direttamente, a piegarli,
a conferirgli il clinamen che li porta a incrociare le cose in modo diverso e a
costituire, per tutto il periodo della possessione, gli specifici aggregati che
informano l'esistenza dell'autore, il suo immaginario, e dunque anche la sua
opera; e poiché l'autore come opera è un contenitore che ha sì una sua forma,
ma è in parte vuoto, è pronto ad assumerne sempre di nuove (come Autre e
Piniowsky), e a dar luogo a chimiche sempre diverse (di preferenza mediante il
gioco di “far finta che...”).
È invaso dalla nuova “persona” e insieme ci gioca: la
governa con destrezza e ne è posseduto e definito. È l'autore a decidere cosa
ispira (Duchamp: il nume dell’avanguardia e di Vila-Matas) e a decidere cosa, o
chi, è autore (Mutt). Ed è l'autore interno a questa operazione, a questa
prassi dell'autore all'opera, a ridefinire l'identità dell'autore “vero”, demiurgo
e creatura al contempo. Moltiplica cioè, nel tempio dell'avanguardia, quel self-fashioning
che proprio le avanguardie hanno sempre avuto come default ineliminabile, nella
loro poetica stessa: solo che qui, più che realizzazione di un progetto è
reazione alle circostanze, non tanto (o non solo) epocali, quanto soprattutto
quelle specifiche spazio-temporali.
Questo dell’identità (1),
è un tema pressoché costante nell’opera di Vila-Matas che lo affronta da decine
di prospettive diverse. Spesso è presentato come peso, gabbia ecc., che porta a
negare e rifiutare quella ricevuta o costruita e/o a moltiplicarla per
cancellarla e sparire/sottrarsi, nascondersi e assumerne
sempre nuove, come maschere o in ruoli diversi (in famiglia, nella società, o
in altri spazi geografici e culturali). Ciò che viene discusso e rifiutato è l’identità,
non il soggetto, che anzi i personaggi di Vila-Matas intendono diventare proprio
rifiutando l’identità: un soggetto aperto, mobile ecc., magari ridotto a quasi
niente, ma non assente (nel senso di assente a se stesso: per quanto a volte
anche questo impulso ci sia). Il passaggio avviene attraverso la negazione radicale o la sparizione (2), raccontate soprattutto
in Suicidi Esemplari: dove però spesso
più che il suicidio è appunto l’arte di scomparire l’oggetto principale, ma
anche in Bartleby e Pasavento ecc., con un’insistenza che
sembra la risposta all’imperativo dell’esposizione e della ricerca ossessiva
dell’attenzione che nella nostra società sono diventati così decisivi da
costituirsi in un vero e proprio mercato a sé e come caposaldo del mercato
globale stesso. I personaggi di Vila-Matas sono artisti dell’eclisse, del venir
meno agli altri senza rinunciare a se stessi, anche a costo di negarsi a
qualunque rapporto o attività (Bartleby, Walser). In genere però negazione e
sparizione vengono realizzate soprattutto mediante viaggi (3), che, quando non sono conclusivi, sfociano (e come
potrebbe essere altrimenti?), in nuove, più soddisfacenti (fino a quando non si
sa) identità, che a loro volta possono essere la scoperta di un altro sé
profondo, dimenticato nell’infanzia o abbandonato come un sentiero appena
intravisto ma non imboccato, o nuovo di zecca, scoperto alla fine del percorso
o formatosi pian piano, quasi inavvertitamente, durante il tragitto. (Il
suicidio vero e proprio non conta, in questo caso: è la fine del viaggio, la
rinuncia totale. Esemplare, per certi aspetti, ma in sé non interessante. È
interessante per il prima, che esso costringe a riconsiderare, quando non è una
conclusione attesa, logica. Nessun suicidio, tuttavia, è una conclusione logica
e necessaria, perché quello che conta è il momento della messa in atto di una
decisione, che è sempre un salto fuori da ogni logica e necessità: altrimenti,
data l’abbondanza di premesse simili, non si spiega perché il suicidio in fondo
sia così raro.)
Al termine di questi viaggi la nuova
(finta) identità diventa più vera della vera (la precedente, che in tal modo si
rivela falsa, o quantomeno esaurita, chiusa, con tutto il suo carico di attività,
ruoli e legami). Le variazioni intorno al rapporto realtà/finzione e
verità/falsità, il trapasso del primo termine nell’altro, la sovrapposizione e
le disgiunzioni e le derivazioni e deviazioni, sono un’altra delle pietre
angolari dell’opera di Vila-Matas, con traiettorie, partenze, a loro volta vere
o false, e chiusure o interruzioni provvisorie che verranno poi rilanciate nei
libri successivi e da uno all’altro, rimescolando anche a ritroso le
conclusioni provvisoriamente raggiunte. Kassel,
per esempio, inizia sotto il segno dell’impostura (come il titolo del romanzo
del 1984), del falso indizio e del gioco, che sono i tratti principali del
cosiddetto mcguffin. L’autore è invitato a cena dalla sedicente segretaria di
una coppia irlandese, i McGuffin, che poi scoprirà non esistere: in compenso si
presenta una splendida donna che lo inviterà, a nome delle sue vere datrici di
lavoro, le curatrici di Documenta XI, a partecipare alla rassegna nei modi già descritti.
Da quel momento mcguffin ricorrerà più volte nel testo, a designare tutto ciò
che di incongruo e ingannevole o fasullo si può trovare, o inserire, in un discorso
o evento: una specie di corpo estraneo, da una parte, alla trama tradizionale (quella
moderna, beninteso), alla sua logica che potremmo chiamare della surdeterminazione,
dove ogni elemento viene ripreso, risemantizzato e reso funzionale da richiami,
allusioni e connessioni interne ecc.; mentre dall’altra appare, in un certo
senso, come il contrario proprio delle procedure citazionali e di ripresa di
figure, oggetti e motivi che sono tra le più usate da Vila-Matas. Più che di
rilancio e di agevolatore della trama, il mcguffin ha cioè una funzione di
rottura, di intralcio e di sospensione o deviazione: tende a giocare con il vuoto
di senso, l’assurdo ecc.. Anche se poi il testo, come sempre, lo riprende sotto
la sua ala e lo piega al proprio volere anche quando non è già l’autore a
pensarci. È come se l’autore volesse inserire un elemento di contraddizione,
una pietra d’inciampo, un fattore di caos, all’interno di un organismo che parla
di una rassegna, Documenta, in cui le opere come caos a volte si presentano e
che come caotico si propone a sua volta, mentre in realtà è costruito in modo
meticolosissimo. Ma è anche un omaggio al fatto che, per quanto si calcoli, il
caos, la dispersione, la deriva incontrollata, sono sempre in agguato. Nel
testo come nella vita. E meno male.
“Senza i McGuffin”, disse Boston, “possiamo fare ben poco,
al limite cantare do re mi. C’è vento e pioverà” (p. 15).
Ogni volta che spunta
un’idea, o affiora una sensazione, e soprattutto una espressione o formula o
citazione che colpisce il narratore, anche se quasi sempre viene fatta oggetto
di riflessione o di dialoghi che ne sviluppano le implicazioni e sembrano
esaurirne quantomeno il nucleo essenziale, si può star certi che più tardi si
troveranno, a più riprese, riverberate, o incarnate o alluse o declinate come
un criptomessaggio in una metafora o micronarrazione o speculazione in qualche sviluppo
secondario della storia, in una nuova sensazione momentanea o nella piega che
prende una percezione atmosferica o il comportamento di un personaggio, o in un
aspetto del paesaggio, in un ricordo... (cfr. 66-9 e poi 78 x es.). Questi dati
(materiali), anche infimi, non sono però illustrazioni o esemplificazioni
dell’idea o sua espressione primaria, ma il modo in cui essa diventa reale:
sono le forme concrete della sua verità che, in loro assenza, sarebbe
altrimenti solo puro suono, evocazione confusa, vuota, insignificante. Altre
volte invece questi elementi diventano una categoria interpretativa di
comportamenti o eventi (70-1), un modo per dargli un senso, una forma (75,
96)... cosa che, ripetuta o variata o intrecciata con altre espressioni va poi
a costituire la rete di motivi e melodie che scandiscono e informano tutti
i libri, ciascuno in modo diverso, ma con temi e ritornelli che si ripetono
dall’uno all’altro: non le fondamenta su cui la narrazione poggia, ma il
graticcio, la sottile e quasi invisibile (ossatura) armatura su cui si distende
il testo e che lo tiene assieme e connette i suoi tracciati, annodando con le
sue scansioni il decorso temporale della narrazione.
Leitmotif, temi,
variazioni la cui fonte è andata persa, dimenticata o indifferente, o apposta
intorbidita, tenuta segreta. Citazioni vere e inventate... del resto, invece di
“come dice Kafka”, o Goethe o Dante o Maradona, basta dire “come ho letto su un
muro di Valparaiso o in un cesso di Medellin”, o “come credo abbia detto un mio
amico una sera in cui eravamo un po’ ubriachi”, o “come ho sentito in un tram o
mentre attraversavo clandestinamente la frontiera” e uno non sembra più
pedante, non è più postmoderno o troppo lontano dalla vita... (e molto vicino a
cliché di genere).
(Così uno attraversa,
come se niente fosse, tutte le frontiere tra un momento e l’altro, e a un certo
punto si ritrova senza accorgersi, smarrito, in un luogo sconosciuto, eppure
tutto e solo suo. E così ogni volta, senza che gli serva a niente, fino
all’ultima.)
Una dimostrazione di queste dinamiche costruttive la si
trova quando il narratore parla di ciò che contraddistingue “ogni buon viaggio”
(p. 32). Mentre afferma che la paura ne deve essere una componente essenziale,
il narratore accenna a un “fantasmatico” “alito secco” che avverte sulla nuca
in un “vicolo buio”: sembra c’entrare poco, invece il primo, l’alito, è un
antesignano, una specie di prolessi sfumata e si direbbe erratica, che prepara
il terreno alla “brezza” della seconda installazione visitata e di tutte le sue
reiterazioni e varianti, e il secondo della stanza completamente buia della
prima installazione e delle varie visite che il narratore vi farà, e dei
rispettivi campi semantici. Le opere sono quindi presenti ancora prima di
essere visitate e narrate, ma questo si scopre solo quando esse avranno fatto
la loro comparsa nel libro. Anzi, non si scopre, perché allora questo breve
passaggio, sarà stato dimenticato nei suoi dettagli, resterà a sua volta quasi
arbitrario e fantasmatico, e lo si noterà, eventualmente, solo alla seconda
lettura, come è capitato a me. Alla prima non sarà avvertito come tale, ma solo
all’interno del discorso che il narratore stava facendo in quel momento. Al
massimo resta come una traccia come una sfuocata e oscura memoria, un soffio appena
avvertito che ogni tanto la percorre. Appunto.
Resta come una traccia, o uno dei tanti percorsi secondari e
digressivi di cui le opere dello scrittore catalano sono intessuti. Anche nei
romanzi che presentano un andamento all’apparenza più tradizionale, la
narrazione non è mai continua: infatti non solo la linearità è sempre
complicata da punti di vista che riprendono gli eventi da diverse prospettive,
o da ricordi e prolessi, ipotesi e analogie ecc., o si avvolge su se stessa e
si aggroviglia in temporalità di varia intensità e misura e tipologia, ma
soprattutto essa viene segmentata in blocchi a loro modo autonomi e compiuti
(microracconti, pseudoaneddoti, riflessioni, aforismi), e in blocchi di
blocchi, composti da differenti combinazioni di citazioni seguite da
riflessioni e speculazioni e aneddoti ecc., con eventuali specificazioni dei
contesti o dei rapporti con la situazione o il personaggio focalizzati al momento,
o aperture di nuovi percorsi narrativi o riflessivi, o sguardi veloci su altri
luoghi e altre stanze...
Di questi elementi di varia misura e natura è composto
l’edificio narrativo, disposti in modo che nessi e le giunture, invece di essere
evidenti o di facile perspicuità per analogia o contiguità spazio-temporale o
per logica narrativa o argomentativa, siano del tutto elisi, e siano semmai
ricostituiti o vagamente ricuciti – a volte tramite ipotesi o differenti
interpretazioni – solo a posteriori, a distanza, in via probabilistica, quasi
mai causale, o al massimo secondo una causalità aperta, plurima e sempre soggetta
a revisioni. Le cose accadono, magari hanno pure dei motivi o una qualche
ragione, ma non sono mai (o quasi) esplicite o definitive, e soprattutto mai
riconducibili a un senso che chiarifichi, o addirittura spieghi. C’è come una
continua sospensione non degli eventi, ma del senso, un rimando e un rilancio,
una suspense delle figure e delle funzioni più che dell’intreccio. Come se il
senso (i sensi) fossero sempre lì lì per sprofondare nell’oceano
dell’insensato. Non dell’insignificante però.
Questo fa sì che in molti libri, come in questo Kassel, la presenza di queste
sospensioni e interruzioni, e la proliferazione delle digressioni siano tali
che si potrebbe parlare, con una specie di ossimoro, di struttura digressiva.
Se infatti la digressione si definisce in relazione allo scarto rispetto a un
tema principale o a una linea che assicura, a vario titolo, la continuità di
una trama o di una logica, Vila-Matas spesso disossa talmente l'uno e l'altra
fino a dissolverli, tanto che restano quasi solo le digressioni.
Ciò che conta non è l’intrigo, ma lo stile: “lo stile avanza
facendo marce trionfali, l’intrigo segue strascicando i piedi”, come avrebbe
affermato John Banville secondo Rodrigo Fresán che l’avrebbe poi riportato a
Vila-Matas (Perder teorías, 2010). Lo
stile non solo nella scrittura ma anche nella costruzione e nelle forme.
Ciò non impedisce però che poi, pian piano, tutte queste
deviazioni da un tronco principale gracilissimo o inesistente si dispongano
come dei pezzi di un puzzle, o come un arcipelago di frammenti, che da una
parte fanno emergere le tematiche e la trama da cui si erano dipartiti e
allontanati fino quasi a perderle di vista, rafforzate dalla rete a volte
impercettibile ma fittissima di richiami, riprese e approfondimenti mediante la
differenza stessa delle variazioni (This
Variation è il titolo dell’opera con la stanza buia di Tino Sehgal); e
dall'altra, contribuiscono a disegnare esse stesse una mappa che, vista a cose
fatte, da fuori e come dall'alto, si scopre che restituisce il paesaggio da cui
sembravano voler evadere, un paesaggio allo stesso tempo noto, ora, ma
rappresentato con una cartografia mai vista prima.
E siccome la digressione in sé non ha identità né essenza,
appunto perché è soltanto in relazione a ciò da cui si scarta che può essere
definita tale (altrimenti sarebbe un frammento o un aneddoto o un aforisma
autonomo), questa struttura risulta fatta di escrescenze, stucchi o decorazioni
inconsistenti. Una sostanza, e un tutto, composta di ricami separati, che si
regge su rimandi e affinità sottilissime quanto poco dimostrabili, sempre
teoriche (o astratte), deducibili da effetti e misurazioni che, per essere
corrette, abbisognano di esse come di una incognita indispensabile ma in sé inafferrabile,
come la materia oscura nel computo del peso (e della struttura) dell'universo.
Diventa pertanto difficile, se non impossibile, definire,
per nessuno dei libri, un’unica struttura, o la forma fondamentale, o solo
delinearne un profilo: si istituiscono di volta in volta, a lettura in corso e
poi alla sua fine, dei simulacri di unitarietà; strutture fluttuanti, ma non
per questo assenti, o del tutto arbitrarie. Tra gli elementi che contribuiscono
a pensarle (disegnarle), all’interno dei singoli libri ma anche tra di essi,
presi nell’insieme o a gruppi, per vicinanza non solo temporale (possibili
trilogie, o anche più a seconda degli elementi prescelti), sono le ricorrenze,
i richiami, le riprese e persino le ripetizioni tali quali (ma si sa che poi
niente si ripete tale quale) di personaggi, situazioni e temi (la conferenza,
per esempio), aneddoti e citazioni.
Sembra allora, questa, una letteratura
che non può fare a meno di teorie. Eppure, anche se, come detto in Perder teorías, “rifuggire dalle teorie
è il primo tallone d’Achille dei creatori contemporanei” e “avere un fondo di
conoscenze teoriche (..) non è affatto pregiudizievole”, questa teoria non è
mai esplicita, e tanto meno organizzata, ma se ne trova ovunque, a frammenti,
dispersa e sempre relativa alle storie narrate e ai personaggi che se ne fanno
parziali portatori. Le teorie, come recita il titolo appena citato, vanno
semmai perse; o meglio, secondo una frase di Antonio Machado che Vila-Matas
cita o parafrasa a più riprese, la teoria va fatta mentre si è in cammino. “E
per me camminare è passare alla redazione diretta di un romanzo, che è una
maniera molto diretta di fare della teoria”. Senza contare che “l’arte del viaggio
camminato dota, tra le altre cose, della facoltà di dire le cose senza averle
pensate prima” (Kassel, p. 49). Il
che spiega anche perché “nei [suoi] libri l’asse solitamente è il percorso: uno
scrittore che viaggia e scrive del suo spostamento” (p. 189).
Documenta 13 “era il regno trionfale e ormai quasi
definitivo del matrimonio tra opera e teoria. Di modo che, se ci si imbatteva
in un prodotto artistico piuttosto classico, si finiva per scoprire che altro
non era che una teoria camuffata in opera. E viceversa” (p. 85).
E lo stesso vale per il viaggio e soggiorno a Kassel di
Vila-Matas; un ulteriore camuffamento attraverso il quale può abbordare il
problema indirettamente, perché richiesto dalla manifestazione e non, come al
solito, all’interno di un romanzo. Parlare “di una cosa e dell’altra, in realtà
speculando filosoficamente o aspirando a farlo”, è di fatto l’attività più
essenziale dell’arte contemporanea (p. 71). Pertanto parlare anche di teoria è
qui in un certo senso “dovuto”: è un obbligo, se, appunto, è di Kassel che egli
deve raccontare. “Ringraziavo Dio e Duchamp per l’esistenza delle teorie
nell’arte” (p. 139). Se non che Kassel non invita alla logica. (Semmai
“invitava all’illogicità che apriva la strada a una logica non conosciuta” - 213).
Nonostante
molti suoi romanzi abbiano come narratori o protagonisti scrittori e critici e
la letteratura come luogo e argomento, Vila-Matas rifiuta l'idea di
metaletteratura: in un articolo del 2002, riprendendo un'idea sviluppata da Ricardo
Piglia, sostiene che la metaletteratura non esiste, che è “un cliché critico
che è servito per opporre una tradizione complessa di costruzione di storie con
la supposta tradizione di un tipo di narrazione "normale" che
"tutti capiscono"” (“ La metaliteratura no existe”). Di fatto però, come scrive Roxana Nadim (“De la quête de
soi à la quête du recit”),
“i buoni romanzi, secondo Vila-Matas, sono necessariamente metatestuali, poiché
interrogano la letteratura”.
Anche i cattivi, direi, che però la interrogano senza
domande, accettando le domande e le risposte fornite dal supermarket monomarca
del passato istituzionalizzato.
È proprio perché si inserisce in “una tradizione complessa
di costruzione di storie” che diventa necessaria quel tipo di innovazione, o di
scarto (come si preferisce), che nel XX secolo ha preso il nome di avanguardia,
che ha svolto un ruolo decisivo negli anni di formazione dello scrittore (si
veda in particolare Parigi non finisce
mai), il quale non ha mai rinnegato queste radici pur modificando il modo
di concepirla con lo sviluppo della sua opera. L’avanguardia, l’anelito al nuovo, dice il narratore
di Kassel, è “l’essenza stessa del mio modo di stare nel mondo... –Il mondo? No, solamente l’arte. –Perché? –Perché intensifica il sentimento di essere vivi...”
(p.145). Al di là di ogni considerazione sull’ideologia del
progresso e la funzionalità del nuovo alla produzione capitalistica ecc. (vedi “gli
artisti ingenui ... collaboratori del potere” e il “paradosso che le arti
visive più furiose e radicali si [siano] trasformate in ornamento dello stato” –
p. 39-40) e senza dimenticare che “quanto più d’avanguardia è un autore, meno
può permettersi di essere qualificato come tale” (189), l’avanguardia, che a
Kassel ogni cinque anni celebra i propri spettacolari riti e trionfi, è dunque per
Vila-Matas un riferimento obbligato in ogni fase del suo lavoro, se non altro perché
non si può fare nessun discorso critico su qualsiasi cosa se si accettano e
ripetono, sia pure ironicamente (che spesso significa però: cinicamente; o
sconsolatamente, in modo disincantato: è lo stesso) le sue regole e forme; così
come non si può fare esperienza, estenderla, o semplicemente viverla, se non si
esce dai confini dell’abitudine (individuale) e della consuetudine (sociale,
collettiva), per quanto indispensabili queste siano per la sopravvivenza (“Senza
la fascinazione della novità ... non avevo mai potuto vivere”, “il desiderio
che ci fosse qualcosa di più” è “l’essenza stessa del mio modo di stare nel
mondo”- p. 143-5). E non importa se poi questi modi verranno ripresi, adattati
e neutralizzati (o quasi) proprio da ciò (società, economia, arte, costumi
ecc.) da cui essi si scostavano e che quindi implicitamente o meno criticavano;
questo, al contrario, ne rilancia di continuo l’imprescindibilità e l’urgenza. Diventa
funzionale a ciò che combatte? Forse, ma intanto avrà cambiato qualcosa in esso
e in coloro che vivono al suo interno. Se così non fosse, l’appiattimento, in
primo luogo dell’encefalogramma, sarebbe più veloce e generalizzato. La vita
peggiorerebbe per tutti: anche per coloro che da questo appiattimento traggono
i maggiori vantaggi, ripetendolo in mille salse. Per questo essi a volte addirittura
esaltano l’innovazione, anche se poi si limitano a accaparrarsi i risultati, se
e quando possono, mentre il processo lo mancano sempre. Al massimo lo
trasformano in procedura. Produttiva e profittevole.
“Nell’arte non si innova, lo si fa in un’industria”, come
dice provocatoriamente Chus Martínez. Che poi aggiunge:
“L’arte fa, e ora càvatela da solo. Ma l’arte, ovviamente, non innova e non
crea” (p. 47). Lasciamo in sospeso il termine “innovazione” allora, così la
critica è contenta, e dedichiamoci al fare che Vila-Matas mette in atto nel suo
ambito specifico, quello narrativo. Si è già accennato all’attenzione riservata
alla costruzione più che all’intreccio, alla ricerca di forme sempre diverse di
combinazione e di variazione dei materiali e dei registri, alla strumentazione
retorica e citazionale e alla complicazione dei rapporti tra esistenza e
finzione e tra vero e falso. Soffermiamoci ora, in Kassel, sulle ripetute visite ad alcune opere e sulle varie riprese
delle immagini e della loro traduzione in parole, come metafora filata o loro
declinazione in differenti percorsi interpretativi: non si tratta soltanto di
apparati formali o stilistici; sono anche un diverso modo di fare esperienza di
esse, e insieme il riconoscimento del loro ruolo e il loro uso nel
riconoscimento stesso della realtà (di ciò che accade) e dell’esperienza che il
protagonista-narratore ne fa. Il soffio impercettibile, le parole che lo
definiscono ecc., come i sussurri e gli sfioramenti e i toccamenti nella stanza
buia, o la spazio naturale stravolto (Untilled, di Pierre Huyghe) o il frastuono del bombardamento
nel bosco (Forest, di Janet Cardiff e George
Bures Miller), rivissuti una visita dopo l’altra per ciascuna opera, ma anche per
ciascuna visita nella catena e nella contaminazione di tutte le altre, sono ciò
che dà forma e rende sperimentabile qualcosa che altrimenti resterebbe appena percepito,
o non percepito, subìto come un disturbo, un fastidio al limite esterno dei
sensi, e non nominato, senza voce né nome. Effetto che a volte è esattamente
quello l’arte d’avanguardia a volte vuole suscitare, riuscendoci spesso
peraltro.
Oltre, e forse più che uno strumento formale e strutturale o
un ricorso stilistico, esse si configurano quindi come condizione di percezione
e esperienza della realtà: leva per estrarre dal continuo e indifferenziato il
discreto e significante, come combinazioni variate a seconda delle diverse
circostanze, e della loro stessa sequenza, di un insieme omogeneo ma non chiuso
di tratti, che difatti mutano per numero, pertinenza e rilevanza di volta in
volta.
Ora, ammesso, come è ormai acquisito anche nel discorso
comune (cosa che semmai dovrebbe indurre al dubbio), che non si dà esperienza
del mondo, e quindi conoscenza, e quindi verità (in qualunque modo la si voglia
intendere), senza una organizzazione di segni e percezioni in una sequenza che
possiamo definire come narrativa, cioè senza un racconto, per questo diventa
determinante, meno del suo “cosa”, che possiamo definire solo a posteriori, il
suo “come”, cioè la forma in cui effettivamente la sequenza si organizza e
presenta, e in cui, soprattutto, le “cose” (quelle che poi distinguiamo in
oggetti, pensieri e eventi...) ricevono il loro statuto e valore (oggetto e/o
simbolo, evento e/o riflessione, azione e/o allegoria ecc.). Le distinzioni tra
narrazione e riflessione, per esempio, o tra centro e periferia, trama e
digressione... sono definite non da categorie e classificazioni esterne, ma dal
loro disporsi nella forma di (specifico) oggetto: nell’oggetto che viene
formandosi (nella scrittura e lettura) o è, a bocce ferme, formato.
Sono questo oggetti e congegni che i libri di Vila-Matas
mettono in opera, strategie che consentono di riconsiderare la posizione e il
ruolo del soggetto nel mondo contemporaneo, senza farsi troppe illusioni ma
senza cedere al senso di assoluta impotenza che costituisce il tratto
distintivo della contemporaneità, in un intreccio questo sì inestricabile di
allegria e depressione, Collapse and
Recovery, scoperta e apparente impero dell’identico, gioia e attrazione e
sgomento. Come quelli che si provano sul bordo di un abisso.
Ed è proprio sull’abisso
che vorrei chiudere, quello che ogni opera contiene e su cui ogni opera, e ogni
lettore leggendola, si affaccia.
Non solo Vila-Matas
all’abisso ha esplicitamente dedicato un volume di racconti, Esploratori
dell’abisso, ma cercare di esplorarlo è
ciò che fanno anche molti dei protagonisti dei suoi romanzi. Anche dentro il
vero o presunto abisso di se stessi. Lasciamo perdere la fin troppo citata
frase nicciana: “E se tu scruterai a lungo in un abisso,
anche l'abisso scruterà dentro di te”. Non è detto che se guardi
nell'abisso, anche l'abisso guardi te: spesso sei così banale e noioso che
l'abisso preferisce guardare altrove; e se anche ti rimandasse la tua banale e
noiosa immagine, tu, poiché banale davvero lo sei, non saresti in grado di
vederla.
(E allora a che pro
sprecare la fatica? Meglio guardare altrove, nel buio brulicante, orrifico,
delle profondità... e anche lì è già tanto se si arriva appena sotto la
superficie... specchiarsi in se stessi e spaventarsi.)
L’abisso
non può essere esplorato. Sull’abisso ci si può solo sporgere. C’è chi lo
sorvola, o lo scruta dall’alto, come l’equilibrista (Kafka, per es., ma anche Philippe Petit), ma non lo esplora.
Stare così lontano, sopra l’abisso, è in qualche modo anche esserne dentro: si
crede di scrutare l’abisso, e si è in un altro. Se qualcuno scende, dopo averlo
perlustrato, si accorge che non è un vero abisso: che ha un fondo, come Il nono cerchio di Ignacio Padilla, o che al
fondo ce n’è un altro, e poi un altro ancora, sempre più difficili da
raggiungere e esplorare. L'abisso
è solo in quanto se ne può dire. È solo ciò che se ne può dire facendo segno
verso l'indicibile. Il suo indicibile nasce con la sua stessa nominazione. Parlare degli stati
oltre limite è impossibile, non ci sono parole. La parola che pretende di dirli
è patetica. O, peggio, ridicola. Meglio l’ironia, la deviazione, l’allusione,
la citazione: la circumnavigazione.
La parola normalizza
il limite in quanto è essa che lo pone. Può indicare un oltre, certo,
avvicinarsi asintoticamente ad esso, ma intanto lo sposta. L’oltre che indica è
sempre il suo oltre, quello verso il quale essa ci ha condotti.
Nondimeno alcuni
cambiano le parole, spostano limiti, indicano degli altri oltre, ne tracciano i
contorni, li disegnano, abbozzano mappe dei territori finitimi. Sono queste le
poche cose di cui, secondo Vila-Matas, mette conto di scrivere; o meglio, di
cui metterebbe conto se si potesse. Disperazione, suicidio, sottrazione, fuga,
scomparsa, depressione, negazione, menzogna, perdita, fallimento: il resto è
merce, offuscamento, palliativo. Ma per scriverne occorre inventarne ogni volta
la forma: trovare nuove forme di esplorazione, disegnarne una nuova mappa. Per
questo Vila-Matas, a mio parere giustamente, disprezza il romanzo tradizionale,
anche se io personalmente non ho niente contro i palliativi e so quanto sia
gradevole, ogni tanto, indulgervi, sentirsi abbastanza forti da poter essere
deboli.
Di nient’altro
infatti narrano i suoi libri, senza parlarne se non in modo indiretto. Coloro
che hanno provato comunque a sperimentarli e a parlarne, che ne sono stati
attori e vittime, non finiscono di attrarlo, gli suscitano ammirazione e
tenerezza (non compassione). Ma lui (noi) non è capace. Ovvero ha tentato, ma
visto che era impossibile, parla di quegli altri e le loro parole utilizza: le
rende sue, vi mischia le sue e le porta sull’orlo di un altro abisso. Il
nostro, che allora intuiamo.
Detto in altro modo:
l’abisso non si esplora perché per esplorarlo devi esserci dentro, ma se sei
dentro è già finita. O quello dove sei non è un vero abisso, il vero abisso. Se
puoi parlarne ne sei fuori; ne sei già uscito o ne esci nel momento e per il
fatto stesso che prendi a parlarne. Ma non è di esso che parli: parli della tua
caduta e della tua uscita, racconti il prima e il dopo, e i ricordi, che sono
sempre, comunque, ricordi modellati dalla forma e dal modo che il dopo ha
preso: creati dal dopo. Li descrivi, incidi i margini, li ricalchi e ricami,
abbozzi un modello, la cartografia dei loro paraggi, appunto.
Su cosa ci sia
dentro, non si può dire niente. Nemmeno la festa di cui è certo Roberto
Juarroz, in un verso peraltro bellissimo che Vila-Matas non si stanca di
ribadire da un libro all’altro: “Nel centro del vuoto che c’è un’altra festa”. Forse
c’è, ma non si sa. È sempre fuori. Dopo.
Nel momento in cui, almeno, si sporge la testa, ci si aggrappa, come nella
storiella zen, al cespuglio che sporge sull’abisso, sopra la tigre e accanto la
fragola, buonissima. La festa in cui potrai trovarti non sarà mai quella al
centro del vuoto. Quando sei a una festa, sei già altrove. Ma questo non
significa che il vuoto l’hai schivato.
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