10/12/22

Ennesimo delirio sulle Meninas (un appunto)


Nelle Meninas l’apparato del potere, ciò che lo rappresenta, che appare, che gli sta attorno e lo dà indirettamente a vedere, è inquadrato. E’ in un quadro, in più di un quadro, tra tante virgolette, tante cornici (spazio, specchio, tela, porta; e famigliari e cortigiani e servi, che gli stanno attorno e fanno a loro volta cornice: corona): cosa che ha generato un’infinita serie di riflessioni a cui in questa sede non intendo aggiungerne un’ennesima mia; ma nel quadro la gran parte dello spazio è occupato dalla schiena della rappresentazione (il retro della tela che il pittore sta dipingendo, che occupa la sinistra della tela da Velásquez effettivamente dipinta), o dalla sua negazione totale o parziale (i quadri scuri e scarsamente leggibili alle pareti). Nella rappresentazione della scena, c’è spazio per la sua negazione e limitazione: il segno dell’irrappresentabile, la sua presenza, che deve passare comunque per la rappresentazione. Il retro della tela nasconde parte dell’ambiente, oltre che ovviamente quanto è rappresentato sul suo recto, che non è certamente la coppia reale che è riflessa, incorniciata, nello specchio come un doppio ritratto a sé. Noi non sapremo mai cosa sta dipingendo il pittore rappresentato, che si sporge da essa, in una postura e con un gesto simile al gentiluomo inquadrato dalla porta sullo sfondo, che è quasi un suo doppio ed è l’unico, con lui, che può vedere cosa c’è sulla tela, e che in realtà è quasi al centro del quadro, accanto allo specchio, e sta però su una soglia, come un guardiano o un cerimoniere, e sembra introdurre a un altro spazio, o provenirvi, di cui si vede solo la luce: vale a dire ciò che rende visibile in quello spazio ulteriore, e non ciò che lo occupa. Uno dei punti più luminosi del quadro, in effetti. E come il cortigiano guarda dentro l’atelier rappresentato, senza ovviamente vedersi, il pittore si sporge, con quella sua aria di signore della rappresentazione, di padrone che ha predisposto il gioco da fuori e proprio per questo può giocare a fingere di esservi dentro, mentre fa capolino dal quadro che sta dipingendo e guarda verso l’esterno, cioè verso lo spettatore che, nel punto in cui potrebbe essere anche Velásquez stesso in carne e ossa mentre dipinge o osserva ciò che ha dipinto, è così interpellato, chiamato dentro a guardare ciò che si vede e a immaginare ciò che non si può, a completare il visibile con il suo sguardo, a immaginare l’invisibile con la sua riflessione e immaginazione, senza dimenticare la cecità che comporta non solo la rappresentazione ma anche il suo sguardo. Forse l’invisibile, il soggetto della grande tela, è proprio lui, ognuno di quelli che sfilano davanti ad essa, come ho fatto io, con sguardo ammirato cercando di scandagliarne i dettagli e di carpirne il segreto, dimentichi di se stessi e degli apparati di cui sono prigionieri e costituiti, nella cecità su cui invece sono invitati a riflettere.


(Mentre io, ora, cerco di non dimenticare la mia – e così forse anche tu, lettore –, il buio che è sceso su tutte le cose che, a partire da Foucault più di 50 anni fa e poi nei decenni successivi, ho letto sul quadro e poi dimenticato, il cui frutto tardivo, uno dei tanti, è questo vecchio appunto che ho ricopiato solo ora, sporgendomi sulla mia cecità di allora e cercando di rimediarvi con quella di oggi.)

 

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