18/06/24

Witold Gombrowicz, Bacacay



Un tizio che cerca di saltare una fila viene preso per la collottola da un signore elegante che senza tanti complimenti lo rimette al suo posto. Invece di reagire o di sentirsi umiliato, l’uomo è colto da una subitanea infatuazione per il suo punitore, lo idealizza, lo segue, cerca di condizionarne la vita senza darlo a vedere, mandandogli fiori e anonime gentilezze, prodigandosi in azioni che all’interessato appaiono (e sono) persecutorie ma che per lui hanno il solo fine di rendergli la vita migliore, felice, in quella che si trasforma invece nella progressione inarrestabile di un “vincolo mostruoso”. Tutto viene narrato dal protagonista stesso in tono serio, tra l’ammirato e il doloroso, ma proprio per questo con effetti surreali, comici e velenosi, mentre per lui ogni sua iniziativa non è che un grande omaggio, l’effetto di uno di quegli innamoramenti irresistibili di stampo omosessuale ma in apparenza del tutto desessualizzati che caratterizzano molte delle storie di Gombrowicz e la sua stessa vita, come documentato dal diario intimo Kronos, scritto in Argentina dove lo scrittore era rimasto bloccato allo scoppio della Seconda Guerra mondiale; vedi recensione qui). Questa che ho riassunto è la vicenda narrata in “Il ballerino dell’avvocato Kraykowski”, il racconto che apre Bacacay, che riunisce oltre a quelli del primo libro, Memorie del periodo di maturazione (1933), anche tutti i racconti scritti fino al 1957 e, in questa nuova edizione curata come di consueto da Francesco M. Cataluccio, anche altri del tutto inediti, che si aggiunge alla riproposta che il Saggiatore va compiendo dell’opera di uno dei più grandi scrittori del ‘900. (Anche il titolo Bacacay viene da quello che poi divenne, per vent’anni, il volontario e non infelice esilio argentino: è infatti il nome di una via di Buenos ire dove per un certo periodo lo scrittore aveva abitato.)

 


Il racconto, scritto nel 1933, è uno dei primissimi scritti di Gombrowicz non ancora trentenne (era nato nel 1904), e già vi si possono trovare alcuni dei procedimenti e dei temi che ritorneranno nelle opere successive, in particolare in Ferdydurke (1938: qui la recensione) a cui l’autore si appresta a lavorare in quegli stessi anni e da cui provengono “Filidor rimbambinito” e “Filibert rimbambinito”, confluiti in questa raccolta come racconti autonomi. Non vi compare ancora l’attacco diretto e esplicito alla Forma, cioè al sistema di convenzioni e cerimonie sociali che se vanno a vantaggio della sopravvivenza della comunità hanno però come effetto di imbalsamare la vita e il desiderio, ma è già presente in modo compiuto e esilarante la descrizione di comportamenti e di usi linguistici che, presentati e assunti come modelli di perfezione, portano invece a galla tutta la falsità e la ridicolaggine delle convenzioni sociali,  fino alla loro involontaria corrosione e disfacimento.

Il risultato è uno sconquasso dell’ordine la cui prima fase spesso consiste talvolta, come nel “Ballerino”, in un ribaltamento, non hegeliano ma perverso, dell’inferiore (soggetto, subordinato, ospite…) in superiore dispotico, ma che può anche passare per l’arbitrio di un tiranno implacabile, capriccioso o solo annoiato, che tuttavia diventa lui stesso vittima della deriva innescata dal suo comportamento.

La struttura ancora quasi feudale della società polacca tra le due guerre, con l’aristocrazia e i possidenti terrieri, in cima a una rigida gerarchia, giù giù fino ai bassifondi da cui lo scrittore in persona e i suoi personaggi e narratori sono morbosamente attratti, come capita all’alto funzionario diplomatico di “Sulle scale di servizio” che preferisce la rozza domestica tuttofare alla moglie bella e perfetta, favorisce lo sguardo impietoso dello scrittore. Sono soprattutto i ceti alti, a cui la famiglia di Gombrowicz apparteneva, e la borghesia che aspira a entrarvi e ne scimmiotta usi e costumi, ad essere ferocemente messi in ridicolo da questi racconti, che mostrano come, a dispetto di tutti gli steccati che ne dovrebbero preservare l’integrità, essi siano già imbastarditi al loro interno dai contatti reciproci che lentamente li contaminano fino alla radice, li insudiciano, degradano, mettono alla berlina e finiscono per demolire tutto, spesso senza remissione: senza cioè che la Forma abbia modo di rigenerarsi, come invece avviene automaticamente in ogni organizzazione sociale che continui a sopravvivere. Tutto resta disarticolato, caotico, o sotto costante minaccia.


La dissacrazione e la distruzione delle forme trovano il loro luogo preferito laddove la socialità è al suo culmine, ritualizzata in comportamenti rigidamente prescritti, come nell’espletamento di ruoli ufficiali o istituzionali (il magistrato di “Un delitto premeditato” o il capitano di “Eventi accaduti sul brigantino Branbury”). O come avviene nei due esilaranti, e crudelissimi, racconti “Il banchetto” e “Il banchetto della contessa Fruminga”, veri capolavori di narrativa reductio ad absurdum, dove le stesse figure dell’autorità ne rivelano la natura arbitraria e si trasformano nei suoi distruttori portando alle estreme conseguenze alcuni dei suoi presupposti fino a ribaltarli in una folle e inumana parodia, in virtù della rigida obbedienza all’etichetta di corte che impone di imitare tutto ciò che fa il re nel primo, o dei capricci dello snobismo che conducono la contessa eponima del secondo e i suoi titolati ospiti a scivolare dal vegetarianismo esibito verso il cannibalismo soggiacente.

Sotto la superficie lustra e elegante delle forme, brulica una materia verminosa, sozzure indicibili, istinti primordiali che vengono pian piano alla luce una volta che la pellicola protettiva viene intaccata. Basta un nonnulla fuori posto, un piccolo oggetto, un gesto imprevisto, un segno incomprensibile, un accostamento incongruo, inspiegabile, qualcosa di “troppo” o “troppo poco”, perché la crepa si produca e si diffonda ovunque, lasciando suppurare ogni sorta di schifezza che trasforma l’ordine in ordura, il rito in delirio, la purezza in perversione. Tutto si sgretola in un movimento compulsivo, in un balletto orgiastico: le gerarchie alto-basso, ordine-caos, signore-servo si sfaldano, e se anche per un attimo sembrano ribaltarsi in una specie di parodia della dialettica hegelo-marxiana, non sono mai coronate da una sintesi che si traduca in un superamento o in un progresso, ma sono solo occasione di un riaggiustamento, cioè di una nuova Forma che renderà ancora necessaria la riproposizione di un identico processo. Nuove forme, nuovi riti, nuove repressioni, nuove prigioni. Senza salvezza. È l’apoteosi del disincanto, grottesco, spietato, anarchico, così assolutamente pessimista da sembrare neutralizzare goni cambiamento che pure viene dichiarato indispensabile, se non a negarlo a priori in senso reazionario. Con una rabbia e un disgusto, però, e con un desiderio di vita fuori dalle regole, lasciata libera a se stessa, innocente, ma già corrotta al suo apparire, o comunque tanto facilmente corruttibile da non mandare che qualche bagliore, un fantasma di desiderio che subito viene manipolato e si trasforma in degenerazione e violenza, e quindi con la necessità che sempre si ripresenta di disfare, infrangere e deridere, in una sequela di zuffe, parapiglia, inseguimenti, pedinamenti, persecuzioni, violenze, in nuovi parossismi e paradossi.

Gli eventi che si connettono senza causalità, né contatto né affinità o rapporto diretto, ma solo perché qualcuno, per qualsiasi motivo li collega, li mette in fila e crea una qualsivoglia sequenza, o perché tali appaiono a un personaggio, o perché le parole che li designano si assomigliano o possono appartenere, per qualche tratto distintivo, a un paradigma comune, o compaiono in frasi contigue o sono dette dalla stessa persona in tempi diversi: basta una sola di queste scintille e tutto prende avvio, calamitando pian piano un numero crescente di altri dettagli che subito diventano vaghi indizi, che invece di svelare qualcosa (un delitto, un mistero, corteggiamenti, cerimoniali di varia natura) finiscono per porlo in essere, per generare ipotesi ad hoc di cui, in perfetto circolo vizioso, esse stesse sarebbero prove, che a loro volta producono la “cosa” che dovrebbero provare. Non svelano la “realtà”, la inventano, senza nemmeno sospettare che di una loro invenzione si tratta. Di fatto la creano. Una volta che una “logica” si è imposta, i fatti la seguono. Così, in “Un delitto premeditato”, l’assassinio viene addirittura perpetrato sul cadavere del padre dal figlio innocente, convinto di essere l’autore di un parricidio inesistente solo perché lo esige la pressione di un magistrato che sa benissimo che l’uomo è perito di morte naturale ma non riesce a resistere al dovere inquisitorio che la sua carica comporta, anche se nessun indizio suggeriva che un omicidio c’era stato.  

In Testamento, Gombrowicz afferma che uno dei principali obiettivi della sua scrittura è “raggiungere nell’assurdo la divina innocenza.” “Volevo essere brillante, e divertente, e trionfante… ma soprattutto puro. Purificato”. Ma come per il figlio e il magistrato del racconto appena citato, non esiste innocenza, da nessuna parte. Non ci sono purezza o bellezza che durino.  La conoscenza, viene detto nel racconto “Verginità”, imbruttisce, l’ignoranza abbellisce. Ma ignoranza non si dà. La verginità aspira alla contaminazione, la purezza alla corruzione, o se ci sembra di percepirla, è solo un’immagine ingannevole, o qualcosa che attraverso l’arte si può provare a raggiungere per un attimo, ma poi torna a cadere nell’assurdo.

L’assurdo, una volta imboccato, segue una sua logica implacabile fino al crollo. Ciò comporta che, al pari del grottesco che resta la cifra stilistica principale del libro che non risparmia nulla e ha la sua peculiare bellezza, come il brutto il deforme e lo sformato che ne sono le propaggini, anch’esso abbia la sua forma, che risponde al principio della simmetria, al bisogno di un equilibrio che va introdotto anche forzatamente, scatenando una serie crescente di disastri, piuttosto che lasciare l’incongruo isolato, a sé, sospeso nel vuoto e a sua volta creatore di vuoto, più di tutto angoscioso e intollerabile, in una specie di esistenzialismo ante litteram. Anche la cosa più banale, una volta notata, diventa subito “non del tutto priva di significato” e va quindi inserita in un sistema di significati che, assieme ad altri dettagli altrettanto banali, vanno a fare sistema, che a sua volta produce la realtà, una qualsiasi, purché niente rimanga sparpagliato nell’insensatezza.

Una volta avviato, il meccanismo tende ad accelerare e precipitare la caduta finale, trascinando con sé i vari personaggi: “ormai non aveva più freni” dice il narratore di uno di loro. “Precipitare” senza freni è il verbo che meglio definisce il movimento delle storie di Gombrovicz. Si parte da una situazione che ha tutti i crismi della normalità, appare qualcosa che non le si adatta perfettamente tanto basta a dare il via al processo di dissoluzione delle apparenze che fino a un istante prima erano percepite come banalissime, naturali. Apparenze che se ne stavano beate e sicure nel proprio guscio, salde, autonome e indiscutibili, che pian piano si incrinano e poi sempre più velocemente si sfaldano e precipitano in un impero del caos che sembra definitivo ma che si può scommettere che presto tornerà ad acquisire un nuovo assetto, a ridiventare cosmo: una nuova normalità, pur nella sua insensatezza. Chissà quanto durerà?

 


La forma è ineludibile. infatti Anche nell’arte, a cui comunque Gombrowicz tiene eccome, al di là del suo spirito dissacratorio. Ma lì con un diverso accento. Tutti i racconti infatti sono pervasi da un’immaginazione sfrenata, e in più punti così giocosa da sembrare fine a se stessa (ma che bella è l’immaginazione fine a se stessa!), salvo che poi l’autore ricompone ogni frammento, con minuziosa perizia, attraverso ripetizioni, variazioni, invenzioni e aggiustamenti che tendono all’equilibrio di un’imprevista simmetria in una struttura compiuta. Più si scatena la fantasia, più entrano in gioco l’arbitrio e la deriva del basso e dell’informe, e più si rende necessario il controllo, l’intelligenza della forma, il suo governo da parte dell’autore. Una forma valida però solo di volta in volta, diversa per ciascun racconto, come esige l’arte, che la salva in quanto non le concede di assurgere a norma (a Forma con la maiuscola) ma resta singolare, determinata dall’individualità, delle voci narranti, dei personaggi e degli eventi narrati, e non valida per niente e nessun altro. Ogni volta, di necessità, nuova e diversa. Solida e tendenzialmente eterna, ma solo quanto a sé, e mai oltre.

 

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