La situazione di partenza di La foresta intelligente, primo romanzo del trentenne saggista
milanese Giampiero Comolli, è quasi un concentrato di luoghi classici, ma
fortunatamente non risaputi sono tanto lo svolgimento quanto la scrittura: in
una Notte di Carnevale un Anonimo Soldato riceve l’Ordine Imprecisato di
tenersi pronto per una Misteriosa Spedizione nell’Infinita Foresta del Nord, e
da quel momento la vita sinora sonnolenta, ma soprattutto il suo modo di
guardare, sentire e pensare il mondo comincia a modificarsi radicalmente.
Tutto il romanzo accompagnerà poi il soldato nella complessa
rete di indagini, incontri, supposizioni, notizie, indizi, sorprese e sogni che
lo porteranno alle soglie della partenza: preparativi al viaggio che però si
trasformeranno lentamente a loro volta in un fantastico viaggio, - se non
l’unico reale, l’unico possibile e narrabile, almeno per il momento.
Se infatti l’immensa foresta è l’ignoto, ciò che si apre al
di là delle nostre attuali possibilità di conoscenza, può però sorgere anche la
plausibile ipotesi che gli strumenti che nei preparativi il soldato di volta in
volta scopre e appronta, le nozioni che sulla foresta viene apprendendo, di
fatto lo trasportino già dal lontano geografico e immaginoso nell’altra faccia
di ciò che costituisce il nostro mondo presente e reale.
Non per nulla il libro si conclude sulla felicità della
doppia conoscenza che il soldato ha acquisito che gli permette di conoscere,
ormai, “oltre alla ‘sua’ vita particolare, (...) anche questo frammento di una
seconda terra, dove dei personaggi ignoti appaiono per un momento nel
trascorrere della loro vita simile-dissimile” dalla sua; seconda terra che
appunto è già la foresta, forse, ancora prima che in essa si sia entrati.
La ricerca di questo pensiero nuovo e differente, che
trasforma completamente ciò che appariva noto e isterilito, è il motore
principale di questo romanzo, non solo, o non tanto, dal punto di vista
tematico, quanto soprattutto a livello stilistico, emotivo e percettivo.
Comolli, nel solco di quella che si è convenuto chiamare crisi della
razionalità, si era già occupato di questi problemi in alcuni dei saggi che
viene pubblicando da alcuni anni sulla rivista Aut aut; ma mentre alcuni studiosi si erano rivolti specialmente al
riesame dello statuto e dei fondamenti della scienza, egli, con altri, aveva
rivolto la propria attenzione in particolare ai rapporti tra filosofia e
letteratura.
Senza nulla togliere al valore di questi suoi contributi,
credo però che il suo apporto più importante, anche dal punto di vista teorico,
consista proprio in questo romanzo, che non per nulla è l’unico inserito in una
collana sinora esclusivamente saggistica. Importante perché è proprio con un
romanzo che Comolli tenta di misurare quegli spazi nei quali la filosofia non
era ancora giunta, pur avendolo a più riprese tentato; ed è in questo che
consiste il metro della sua ambizione, e anche della sua originalità.
Finora infatti, sebbene la complicità tra filosofia e
letteratura sia sempre stata profonda, e anzi (come sostiene nella postfazione
Franco Rella) “nel nostro secolo, la letteratura abbia addirittura occupato il
luogo classico della filosofia, proponendoci un sapere che sfugge alle
grammatiche filosofiche”, finora raramente era stata assunta come base di
partenza e in modo così esplicito la maggiore ampiezza delle potenzialità
romanzesche nel campo stesso della filosofia.
Una pretesa rischiosa, a meno di non essere avallata da
buone ragioni, che consisterebbero, nel caso, nell’aver individuato la
preponderanza e la produttività del discorso figurato tipico della letteratura
laddove il quadro di un pensiero ormai consolidato comincia a non essere più
abitabile proficuamente e si tentano nuovi percorsi; non solo in campo
filosofico stretto, ma anche, per limitarci alla modernità, nella psicanalisi e
nelle scienze umane. Solo che, se prima a questa lingua si faceva prevalentemente
ricorso come a un’ultima spiaggia, ora sempre più c’è chi la adotta, senza per
questo rinunciare alla ragione, come apertura inaugurale, come fa appunto
Comolli. Questo gli premette di scrivere un romanzo nel quale la componente
filosofica non si esplicita, come già classicamente, in inserti più o meno
separati, in riflessioni e dialoghi di andamento saggistico, ma confluisce
totalmente nella scrittura romanzesca stessa: nelle varie scene, nei personaggi
e nelle descrizioni.
Credo anzi che consista proprio in questo la qualità
principale del libro: nel fatto che, volendo, lo si potrebbe leggere come puro
romanzo di tensione misteriosa, tessuto in un “principio alterno di malinconia
e meraviglia”. Credo infatti che il pensiero dal “doppio sguardo” al quale, in
un mosaico di immagini, approda come nuova esperienza della realtà il
protagonista, non consista tanto nella rete (a volte troppo insistita e quasi
meccanica) di paragoni e figure che costituisce il suo vissuto, quanto piuttosto
nella duplicità della narrazione stessa: soltanto in essa, propriamente, il
soldato può affermare, in un “sentimento oscillante fra una dolcissima
tristezza e un godimento pieno di stupore, lì, in quell’alternanza sospesa del
sentimento, lì, delicatamente, io sono”.
Giampiero Comolli, La
foresta intelligente, Cappelli, Bologna, 1981