09/03/21

Intervista a Giuseppe Pontiggia su "Il raggio d'ombra" (1983)


Giuseppe Pontiggia è un comasco quarantanovenne che vive a Milano, dove lavora in campo editoriale. Si occupa di letteratura classica e ne scrive per il Corriere della Sera. Ha appena pubblicato quello che a molti è parso il più bel romanzo italiano uscito quest’anno. Il Raggio d’ombra (Mondadori, p.176), che rinnova la favorevole impressione suscitata cinque anni fa con Il giocatore invisibile, la sua terza prova narrativa, che lo aveva imposto a pubblico e critica, dopo che La morte bianca (1959) e L’arte della fuga (1968) erano stati notati quasi solo dagli addetti ai lavori.

Il raggio d’ombra narra una storia protofascista di delazione e tradimento che risucchia, direttamente e non, un gruppo ristretto ma composito di personaggi (un medico apolitico, dei rivoluzionari, un professore che vive solo per i libri) che ne subiscono le conseguenze senza riuscire a venirne a capo nemmeno dopo la morte della spia, a distanza di trent’anni dall’episodio. È un libro sobrio, essenziale e insieme perturbante, campato su una struttura solidissima che ruota attorno a una verità vacante e intessuto di un’arte straordinaria del dialogo, lucidissimo quanto allusivo.

 

Un romanzo: a ulteriore smentita, caso mai ce ne fosse bisogno, che il romanzo non è un genere morto o agonizzante?

Quando si parla di morte del romanzo, in realtà si parla di una morte di un’ipotesi fuorviante di romanzo, anche se questo fraintendimento ha avuto una certa vita. Per esempio, un modello equivoco e parziale di romanzo può essere sostituito dalla sociologia o dalla psicanalisi, ma il romanzo nella sua natura specifica non è assolutamente minacciato da questi linguaggi che appartengono ad altre attività, semmai si libera di attributi che non gli competono. Muore di volta in volta solo l’equivoco del romanzo.

 

In che modo credi che Il raggio d’ombra sfugga a questo equivoco che viene di solito denominato con la sigla, molto probabilmente vuota, di “romanzo tradizionale?”

Il romanziere tradizionale è colui che ad un certo impianto ottocentesco fa concessioni sul piano del linguaggio e del trattamento dei personaggi, concessioni che io non credo di aver fatto. Tutte le parti che ho messo mi interessano profondamente, ma senza nessuna sudditanza a questa struttura ideale alla quale io non credo. Se per esempio esploro i precedenti del medico o faccio una digressione sul professor Perego (nel quale A. Giuliani ha giustamente riconosciuto un mio parziale autoritratto), non lo faccio per informare sul personaggio o per darne l’anagrafe, ma perché questo rientra nel clima di rapporti immaginari che mi premono e perché ha una sua necessità nella trama linguistica e fantastica del romanzo.

 

I tuoi testi sono molto costruiti, seguono un meccanismo narrativo precisissimo, ma di fatto in che modo procedi?

È vero che mentre lavoro tendo a verificare al massimo quel che di volta in volta esce, tuttavia il mio atteggiamento nei confronti dell’opera fondamentalmente è di attesa. Credo infatti, come fa tutta l’avanguardia del ‘900, all’opera come progettazione e scoperta di quello che tu non sai, senza alcuna programmazione, ma solo con un forte senso di attesa, con un senso di sorpresa e di scoperta.

 

Ma concretamente quale è il tuo punto di partenza?

Mi capita regolarmente di partire da un’idea molto semplice che poi mi si complica subito costringendomi ad uno sforzo enorme per portare il tutto alla massima trasparenza. Nel caso di Il giocatore invisibile l’idea di base era che in fondo siamo già tutti morti; per Il raggio d’ombra si può dire che sono partito da questa semplice frase: non si cava un ragno dal buco. Ed effettivamente nessun personaggio ha cavato veramente niente da quel che voleva: la risposta è NO, nessuno è riuscito: hanno cercato in tutti i modi di prendere Losi, fisicamente, psicologicamente e moralmente, ma non ci sono riusciti. Ciò che riflette le mie idee profonde e la mia disperazione in generale, che a ben guardare non riusciamo ad arrivare né a quello che vogliamo né a quello che cerchiamo, anche idealmente.

 

Cosa ne pensi, a proposito, di quella dimensione metafisica (se l’espressione ha un senso) che alcuni attribuiscono ed altri invece negano al tuo romanzo?

Io penso che ci sia, anche se non è in primo piano. In primo piano c’è un’umanità che vive la disperazione, ma l’elemento metafisico-religioso è implicito. Ho sempre avuto interesse per la religione, così come ho molti interessi scientifici, ma ribadisco che delle cose che veramente interessa sapere in fondo non riusciamo, né mai riusciremo, a capire niente. Anche nella cosa più semplice, nel quotidiano, se vuoi veramente andare in profondità, ti trovi sempre di fronte al mistero. Io credo nel percorso di avvicinamento che si compie, ma credo anche nell’impossibilità di arrivare, e mentre alcuni sono giulivi del percorso che fanno, io invece sono terrificato di quello che non posso fare.

 

È un mondo questo tuo, o meglio quello dei tuoi personaggi, in cui il sospetto e la paura vengono a ricoprire un ruolo importante.

Il sospetto è una buona scelta dal punto di vista narrativo perché mette in moto la paura, che ti fa vedere la realtà in maniera apprensiva e drammatica.

Costruisco spesso sulla sorpresa, sulla contraddizione: parto da una cosa che poi si manifesta in una luce diversa, tra continui trasalimenti e angosce: cattive sorprese. Continui disorientamenti, cambiamenti di rotta, precipizi… e il sospetto è uno dei modi per far irrompere questa angoscia in una vita apparentemente tranquilla: in ogni mio romanzo tutti i sospetti si rivelano sempre fondati e ciò che si teme sempre si avvera.

 

Credo però che il personaggio centrale, e non solo tipograficamente, di Perego, sia portatore di una diversa sfumatura in questo tuo discorso.

Il personaggio di Perego illustra bene la mia convinzione che l’istinto narrativo e ciò che nasce durante il lavoro ne sa di più di ogni intenzione o consapevolezza orientante. Mi è uscita, inaspettata, questa digressione e mi è sembrato che avesse un senso, o lo potesse avere.

Parlando a posteriori potrei dirti: da una parte i protagonisti sono dei rivoluzionari che sono sempre alle prese con l’inesplicabile, con l’ineffabile e l’enigma, ma hanno la convinzione di essere dalla parte del reale e la presunzione, o la speranza, di dominare i rapporti concreti, mentre Perego, nella sua biblioteca e col suo culto dei libri, ha la consapevolezza malinconica di vivere una vita immaginaria, un po’ fantastica; ma d’altra parte la sua vita ha anche una sua ricchezza e pienezza, mentre la vita del rivoluzionario, che sembrerebbe calata nella realtà, è un avita allucinatoria. Sia Antonio che Travi infatti hanno l’impressione di essere sdoppiati, di vivere una vita che non è la loro, tanto da vedere a volte nel loro stesso progetto qualcosa di estraneo e di assurdo, anche se ormai non hanno più tempo e possibilità di cambiare.

 

Per finire potresti dire qualcosa sulla scelta del periodo fascista e sull’affermazione del risvolto di copertina, che il romanzo cioè è un’amara allegoria del nostro tempo?

La scelta del periodo dipende dal fatto che la storia vera alla quale mi sono ispirato è uno dei primi episodi di delazione e di fuga di un prigioniero politico durante il fascismo, ma ciò che mi ha colpito in essa sono soprattutto i tre finali, nessuno dei quali chiarificatore. Non ho cercato la ricostruzione d’ambiente o una verosimiglianza in senso stretto, anche se un po’ c’è (come mi hanno confermato dei lettori che quel periodo l’hanno vissuto), perché non mi interessa particolarmente la ricostruzione del passato, che del resto secondo me si può avvicinare meglio attraverso l’immaginario; mentre è vero che il discorso è molto legato all’oggi, non solo per l’odierna frequenza dei coinvolgimenti involontari, ma soprattutto perché credo che in più di un aspetto (la spia che chiede la pensione, ecc.) rifletta bene il totale cinismo dei nostri giorni e l’assurdità quotidiana.

 


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