29/03/21

Intervista a Milo De Angelis (1982)


Il rastrellamento della memoria, cioè La ricerca del verso giusto

 

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove vive e lavora come psicanalista. Ha pubblicato un libro di poesie, Somiglianze (Guanda 1976), un racconto, La corsa dei mantelli (id. 1979) e un testo teorico, Poesia e destino (Cappelli, 1982). Ha fondato e diretto la rivista Niebo e tradotto libri dal francese, dal latino e dal greco.

 

Di Milo De Angelis sapevo che, tra i poeti affermati dell’ultima generazione, era non solo il più giovane ma anche in assoluto tra i più dotati; che nonostante questo la sua figura e le sue posizioni teoriche e poetiche davano luogo a reazioni radicalmente contrastanti (rigetto o amore e niente tiepidezze); e che aveva sempre rifiutato le interviste, così come disdegnava la recensione e ogni intervento giornalistico, ritenendo il tutto “una semplice questione di sociologia letteraria che era ben lieto di lasciare ad altri”. Così quando ha risposto in modo affermativo alla mia richiesta, scarsamente convinta peraltro, sono rimasto insieme sorpreso e imbarazzato: prevedevo un atteggiamento poco conciliante, e a me non va di litigare.

Invece il nostro incontro è stato molto affabile oltre che interessante, tanto che si è protratto per tre ore, e dubito che potrò riferirlo anche soltanto nelle sue fasi salienti.

Molto affabile dicevo: lui che sviluppava un discorso ricco di immagini, accostamenti e spunti teorici, soppesando ogni parola, anche quelle più polemiche e inattese, e io che continuamente interferivo, equamente diviso tra Pavlov e la mimesi da un lato e le mie idee e curiosità dall’altro; lui che cercava di assecondare le mie iniziali richieste di completezza e sistematicità, e io che amnesico le sabotavo.

 

Che pensi di Somiglianze a sei anni dalla pubblicazione?

Somiglianze riguarda un certo esistenzialismo, non sartriano, ma impersonale e adolescenziale. Sentivo il problema della coscienza infelice come luogo abitabile e al tempo stesso il mio rubare in casa d’altri in nome dell’affitto che pagavo: da una parte c’era l’esigenza di giungere all’estremo limite, al secondo prima della morte: dall’altra c’era la possibilità di allargare indefinitamente questo secondo, di abitarlo.

 

Abitarlo come? Sperimentando che magari è gioioso, come suggerisce la frequenza di questo termine nel testo?

Non proprio. Abitarlo con la certezza di un abuso, fondando nella relazione con l’altrove la via del ritorno. La morte non era sentita in Somiglianze come imminente, ma come qualcosa che avverrà, non si sa quando; e questo non sempre ha dato pressione né a me né alle parole sulla morte. Somiglianze è un libro onesto, nel senso che effettivamente non sono andato oltre i miei limiti, non ho inventato. Ma è anche il rendersi conto della frattura tra essere e dire ragionando intorno a questa frattura, senza che un imperativo imponesse la loro coincidenza.

 

E’ nella direzione di questa coincidenza che è avvenuto il cambiamento?

Sì. Là c’era un’aspirazione mancata all’assolutezza che non coglieva la bellezza del finito; c’era una tensione verso il “fa’ ciò che accade” , il “fac quod accidit”, senza che ci fosse l’altro senso di questa espressione, cioè il “fa” perché accade/accadde. Adesso è diverso; adesso sento che una parola detta, anche se può farmi ignaro o timoroso di fronte ad essa, è detta con voce troppo forte perché possa ribellarmi. Con questo non intendo affermare che Somiglianze sia un libro interloquibile nel lamento, perché c’è un dolore animale allo stato puro, c’è un “io soffro” ma nessun “guaritemi”.

 

Vorresti specificare cosa intendi per “imperativo” e per “destino”?

Scrivendo le poesie di Millimetri (che usciranno tra poco), avvertivo come una dettatura. Il mio sforzo era quello di acuire l’udito per ascoltare quanto mi veniva dettato. Notti, diciamocelo pure, trascorse a cercare il verso, l’unico possibile; ma, una volta trovatolo, non c’era nessuna soddisfazione: quel verso doveva esserci; semmai ero io ad essere giunto in ritardo. Una dettatura senza dettatore, impersonale, che ti dice solo che sei obbligato a pronunciare la verità, al di là del principio di piacere.

 

Niente di più lontano dunque dalle poetiche così diffuse della finzione e della invenzione.

Sentivo, e sento tuttora sempre più lontana da me l’idea stessa di invenzione, tanto che difficilmente riesco a distinguere quella pacchiana di un Manganelli (o di qualunque altro salottiero) dall’invenzione più alta poniamo di un Ariosto. Voglio dire: se uno – negando il tragico – inventa una parola bella, e così via all’infinito; questo – in quanto cancellazione del dogma – mi sembra chiederci: “ciò che non porta con sé la sua fine ha il diritto di iniziare”? Quindi il tentativo è stato quello di rastrellare nella mia memoria un evento ineccepibilmente accaduto; scaturendo dalla cronaca non per mia scelta, l’evento doveva essere quello, non potevo abbellirlo. Millimetri è questa necessità di andare al di là della soddisfazione o della bravura; cioè la verità ti obbliga, “gli ordini non si discutono”. Ora è vero che non sempre afferravo ciò che scrivevo, però afferravo che la spinta a scriverlo era veritiera e che prima o poi qualcuno, io o altri, l’avrebbe capito.

 

L’ordine di scrivere è qualcosa che precede la scrittura o soltanto in essa avviene e si dà a riconoscere?

La dettatura da una parte imponeva che io fossi semplicemente un portavoce, ma dall’altra la dettatura era la poesia stessa; e quindi io in qualche modo la sua responsabilità sensoriale. Spero di non essere stato sordo… L’ordine sussisteva prima di me: trovavo un ordine, una costrizione a dire solo quella parola: non si trattava di trovare un ordine scrivendo, quanto di eseguire un ordine che già mi precedeva, anche se poi si riconosce solo scrivendo. Coesistono questa antecedenza e questa simultaneità.

 

Da queste promesse quale idea di bellezza risulta?

Sento profondamente una nozione di bellezza trascendentale, o forse sarebbe meglio dire oggettiva; su tale distinzione rimando a Poesia e destino.

 

Non c’è spazio per nessun relativismo dunque, né per l’errore?

E’ diverso. Non mi riguarda alcuna forma di relativismo, mentre l’errore ha una forza. (Preferisco gli errori di Keplero ai paradossi di Russel; preferisco – con Fortini – il cupo e potente accecamento di Lukács su Nietzsche alle piccole verità delle avanguardie). La forza dell’errore sta nel suo ripetersi, perché allora diventa destino. Ma se uno vuole correggere il proprio errore, ecco la condanna, la rinascita in senso induistico; perché dire: ho sbagliato, avrei voluto essere ciò che non sono stato, nascere diverso, è una riparazione che instaura un ciclo perpetuo dell’ignoranza della vita.

 

Mi sembra che da tutto il tuo discorso emerga un legame indissolubile tra poesia e etica.

Pensa a un uomo che si incammina verso una meta: qua e là vede distrattamente delle cose; ma le cose hanno visto lui, lo hanno scrutato a fondo. Al ritorno, l’uomo vede quelle cose per la prima volta. Allora l’uomo dice: scriverò soltanto ciò che mi ha già conosciuto. Obbedire a ciò che ti ha conosciuto è un aspetto delle poesie e insieme un atto etico. E’ quanto ho cercato in Millimetri.

 

 

 Pubblicato su Bergamo e Brescia oggi, autunno 1982

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