09/03/21

Giuseppe Pontiggia, "Nati due volte" (Una lettera privata, ora non più tale, che avevo completamente dimenticato)

                                                        Fara, 31-8-2000

Caro Peppo

Ho letto Nati due volte e ti scrivo subito le mie impressioni, per quel che valgono.

Intanto ti ringrazio di avermelo inviato, e più ancora di averlo scritto. Mi è arrivato l’altro ieri; il pomeriggio ho aperto il pacco con l’idea di dargli una prima scorsa e dopo un po’, quando mia moglie mi ha chiamato per la cena, mi sono accorto di averne letto due terzi; poi, ieri, l’ho finito. Credo basti a dirti quanto mi sia piaciuto (sono uno che, quando legge, non salta una parola).

Nati due volte, più che un romanzo mi è parso una specie di libro sapienziale, dissimulato e indiretto, come deve essere. Non lo dico per svalutarlo come romanzo, ma anzi perché sono convinto che solo diventando anche altro (dalla pura narrazione) il romanzo ha senso, oggi, proprio in quanto romanzo. E viceversa a nessuno che non sia stolto verrebbe oggi in mente di scrivere un libro sapienziale (o morale, se preferisci: nel senso dei moralisti classici che tu conosci così bene) in forma diretta e con tono oggettivo. Per questo hai fatto bene ad adottare la prima persona: non tanto quindi sotto il profilo narrativo (quello avrebbe potuto reggere altrettanto bene con la terza persona) e nemmeno per il doppio gioco finzione-autobiografia (sul quale credo che ritornerò), quanto, appunto, per smorzare (per giocare a smorzare), attraverso la soggettività, limitata di per sé e ancor più soggetta a cauzione da ciò che la narrazione ce ne mostra, l’assertività delle riflessioni (non meno assertiva per essere ironica e per il fatto di prendere nella propria rete anche chi le riflessioni le sviluppa: credo di poterlo dire, dato che anch’io, si parva licet…, soffro talora di una propensione analoga, senza averne l’autorità).

Del resto il libro, più che narrare la storia del figlio, narra quella del padre, ne segue l’evoluzione, l’educazione, di cui il figlio è il vettore non certo unico, ma decisivo. L’handicap, o la disabilità se preferisci, è ciò che permette al padre di comprendere se stesso e il mondo (quel che può), e solo così di ritornare alla persona disabile in un rapporto di sia pur precaria simmetria. Dico simmetria, e non uguaglianza, che non c’è se non attraverso la perfezione dell’amore, che però è discontinuo (per questo da solo non basta).

Il figlio è insieme saggio e imperscrutabile, come gli antichi enigmi: gli si gira attorno, si cerca di interpretarlo, ma comprenderlo trascende le nostre possibilità; deriva forse da questo che di lui si possa dire più ciò che risulta dai rapporti che gli altri hanno con lui che viceversa (sintomatico il caso di Alfredo, che, lo dico con rammarico, dopo le prime reazioni non compare quasi più). Anche degli altri, a parte la splendida figura di Franca, dici poco, o, quanto meno, meno di quello che io avrei voluto: di ciò che il libro stesso lascia intravedere e fa sperare.

Per questo quando dici nell’intervista che hai rilasciato a Repubblica (che ho letto dopo il libro, assieme alla recensione di Giuliani, che non mi è piaciuta granché) che su questo libro non tornerai, io non ti credo: mi auguro che tu ti ricreda cioè, e non tanto perché trovo il libro insoddisfacente com’è, quanto perché, proprio per averne ricevuto molto, ne voglio ancora di più. E questo di più lo vorrei proprio nelle sequenze narrative, in quanto, se è la narrazione che può dire ciò che altrimenti non potrebbe essere comunicato (in più forme trasmesso: penso per esempio allo splendido inizio), è a quelle che dovrai tornare (non potrai fare a meno di tornare, se ho visto bene), per spingerti ancora più avanti, insistendo con ancora maggior decisione sul pedale dell’autobiografia mascherata e deviata, che tanto in questo libro ti ha giovato (che tanto a questo libro, e dunque al lettore, ha giovato): cioè mettendo in campo (rischiando) te stesso ancor più di quanto tu abbia già fatto. Lo so che è facile dirlo dal di fuori; immagino quanto ti sia già costato quello che hai fatto, ma se c’è uno che può fare ancora di più, quello sei tu; e lo sei proprio perché l’hai già fatto, cominciando: che, quanto pare, è il passo più difficile.

A giudicare da quelle che già ci sono (di grande emozione, più forte laddove rattenuta; e direi: perché rattenuta), credo che nuove sezioni narrative, possano giovare alleggerendo anche il rischio che le altre situazioni narrate, e le digressioni, appaiano come “esemplificatrici”, “tipiche”; l’individualizzazione maggiore da esse implicata spazierebbe, senza annacquarle, le digressioni sociologiche o psicologiche, peraltro sempre acutissime: ne guadagnerebbe il lato “mitico” (penso alle vacanze a Creta o alla recita, e non certo per i luoghi e i temi), in virtù della tua capacità di schivare sempre l’aneddoto, proiettandolo in una dimensione allegorica nella sua concretezza, e parabolica, anche in senso geometrico (per quanto concerne i possibili significati).

Spero di non essere stato troppo ingenuo (stupido) e pedante (vacuo). Lo sarei se avessi anche solo pensato di “insegnarti” qualcosa, di suggerirti come io avrei saputo far meglio di te ecc., ma l’evidenza di una tale ridicolaggine mi esonera da qualsiasi scusa preventiva, per quanto questa possa suonarlo a posteriori. Credo che ognuno amerebbe sentire altre storie da Ulisse, e se il Qohélet va bene così com’è, dubito che qualcuno penserebbe allo scompenso strutturale che porterebbe la scoperta di capitoli inediti, che so?, del Chisciotte.

Grazie di nuovo Peppo, e di nuovo tutte le me felicitazioni (l’uso del termine non è casuale).

 Ciao

Luigi

                    

 

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