Aveva il labbro leporino, il naso schiacciato, gli occhi sporgenti, arrossati come le guance sotto il nero del sole o dello sporco, la barba rada, sempre lunga di qualche giorno. Era brutto, limitato di comprendonio ma non abbastanza da non capire, come succede invece a molti che ne hanno di più, alcolizzato, sporco, solo. Girava tutto il giorno da un bar all’altro, dove trovava quasi sempre qualcuno che gli offriva un calice di rosso. Avventori abituali, amici di gioventù, gente che incrociava qua e là. A volte scambiava due parole, non di più, con la sua voce nasale; se quelli scherzavano troppo, si incazzava. Se ridevano ancora, alzava la voce, minacciava. Allora interveniva qualcuno a calmarlo. A volte il barista doveva minacciare lui. Di non farlo più entrare. Lui si calmava, chinava la testona e sul tavolino gli arriva un altro calice. Finiti in mattinata i bar di Fara, andava a piedi a Pontirolo, dove presumo si ripetesse lo stesso giro, con le stesse pantomime e gli stessi risultati. Poi, nel pomeriggio, tornava a Fara, o forse direttamente a Badalasco, dove abitava.
Lo incontravo spesso tra la Casìna del Pis e il Pont
Vignöla quando tornavo da scuola, di solito sovrappensiero, tra le 12,30 e le
13,50 e facevo la strada bassa. Lui era sempre a piedi, il capo chino, il passo
pesante, qualche volta che parlava da solo.
L’hanno trovato morto qualche giorno fa. Io non gli ho
mai offerto un bicchiere. Per malriposto rispetto, credo. (Perché non lo
conoscevo abbastanza; perché lui non mi conosceva.) Per timidezza. O per
egoismo: perché non volevo rischiare che entrasse nella mia bolla, forse.
Ora guardo la strada, i due chilometri di ciglio
deserto, e mi manca.
Sì, era per egoismo.
Si chiamava Cinto. Giacinto. Fra un po’ nessuno si
ricorderà più di lui, come capiterà a tutti del resto. Probabilmente nessuno se
lo ricorda già ora. Lo ricordo qui io. Non so se lo faccio per lui o per me. È lo stesso. Non importa.
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