22/01/14

Tempi bui (anche se non come quelli di Brecht, per ora, e grazie al cielo)

 Siccome in questo periodo sono un po' giù e non è bello compatirsi, e ancora meno farsi compatire (brrr!!!), mi è venuta voglia di parlare di qualcosa di positivo.
La prima è la nobiltà d'animo. (A proposito del lamentarsi e farsi compatire, che saranno anche redditizi, e però...)
Ieri, leggendo Il giornale invisibile di Sergej Dovlatov, a p. 112-3 trovo questa riflessione che il narratore (che ora, ora nel romanzo, vive negli Stati Uniti, perché purtroppo Dovlatov è morto a meno di 50 anni, nel 1990 - nella foto è con il grande Kurt Vonnegut, che era un suo fan) fa dopo aver ricevuto una bella lettera dalla Russia in cui un amico gli ricorda perché è emigrato e che doveri ha (ricordare, raccontare...: una cosa che ci riguarda tutti, mi pare):
"C'è una caratteristica che consente una volta per tutte di distinguere la nobiltà d'animo. Una persona d'animo nobile recepisce ogni disgrazia come il prezzo dei propri errori. Incolpa solo se stessa, qualunque sia la disgrazia che l'ha colpita."
La riflessione viene poi illustrata da vari esempi ("se l'amata l'ha tradita...", "se un amico l'ha tradita...") in cui mi sono ampiamente riconosciuto, come mi sono in parte riconosciuto nel narratore, o piuttosto nel modo di costruire il narratore, quel personaggio in apparenza perfettamente autobiografico che ricorre in molti libri di Dovlatov, come assomiglia a me il narratore dei miei raccontini (lo dico per i pochissimi candidi tra i pochi lettori che ho: è il personaggio che conta, non l'autore; me mi potete amare, se proprio, di persona: accomodatevi, non farò resistenze).
Se mi sono riconosciuto, allora vuol dire che sono una persona di animo nobile? Mi sento tale? Per niente! Ogni disgrazia me la sono meritata; anche quelle di cui al momento magari non ricordo la causa. Non mi sento nobile: solo un pirla. E ben mi sta.
E' certo che le persone di animo nobile tutto si sentono meno che tali, ma non per questo non sentirsi tali significa esserlo. E difatti io non lo sono.
Però anche non sentirsi tali, in questi tempi bui, è già un piccolo merito. Questo me lo concedo persino io. Una cosa che, pur non tirandomi su (ci vuole ben altro!), quanto meno non contribuisce ad affossarmi maggiormente. Vive la France!

Poco dopo aver letto la bella pagina di Dovlatov, mi arriva una mail da una poetessa (Valeria Vaccari) con una poesia. Che gentilezza! Sono commosso, tanto più che la poetessa è stata così delicata da mandarmi una poesia non sua. Solo perché la trovava bella (a ragione). Le scrivo una brevissima mail di ringraziamento. Ma già che sono nella posta elettronica, per contagio positivo, scrivo una breve lettera di congratulazioni a una scrittrice (H. J.),
che non conosco di persona ma il cui ultimo romanzo mi è piaciuto molto, per congratularmi della sua inclusione tra i finalisti di un premio a cui anni fa sono stato finalista anch'io, e le dico (brevemente) che bella esperienza sia stata per me e quanto abbia imparato dall'incontro con tanti lettori che avevano letto con attenzione (e, alcuni, passione) quanto avevo scritto. "Che gentile!! Grazie!", mi ha risposto. E io sono stato contento.

Cose da niente (ieri ce ne sono state altre; ce ne sono quasi ogni giorno: per esempio, tanto per restare nella contentezza, mia sorella Manuela mi ha detto di essere contentissima che le avevo dedicato un raccontino, e io ero più contento di lei che lei fosse contentissima), ma che contano. Che sono importanti.
Uno potrebbe dirmi: ma allora, con tutto questo scialo di contentezza, com'è che dici di essere giù? Cosa c'entra?, gli risponderei, il buio rimane; anche se i bagliori contano. O meglio: sono i bagliori che ti permettono di procedere nel buio, di fare qualche passo, di non picchiare la testa contro ogni spigolo. Sono indispensabili!
Brecht, in una famosa poesia, anche se ora non più così antologizzata nei testi scolastici, come ho avuto modo di constatare nei miei ultimi anni di insegnamento, si lamentava che "loro" non avevano potuto essere gentili a causa dei tempi bui in cui vivevano. Le priorità erano altre, bisognava essere duri. Lo capisco. Eppure non credo che essere gentili fosse poi così difficile, solo a volerlo. E poi chi sono questi "noi" di cui parla Brecht? La sua generazione? E' un plurale maiestatis, di modestia? Non so molto della vita di Brecht, che resta un grande, ma mi risulta che fosse piuttosto duro davvero, e vorace, in molti sensi. Non posso giudicare, la sua vita è affar suo (anche se non ne sono molto convinto, dato che lui per primo ha privilegiato il risvolto pubblico, se non addirittura dissolto nel pubblico il privato: cosa che peraltro va a aggiungersi ai suoi meriti; comunque non giudico, avrei bisogno di più dati, e a me la biografia degli artisti non interessa molto); e poi non c'è paragone tra il buio dei suoi tempi e dei nostri (dei miei). E però...

Tra parentesi: due grandi scrittori morti, due brave scrittrici (e meno male) vive, convocati per due sciocchezze! Chiedo scusa. E' come se il primo ministro convocasse il parlamento in sessione plenaria per comunicare che ha la bua al pancino. Non si fa! E però... Però il nostro lo fa. E il parlamento, in maggioranza, gli dice: poverino! (Siccome sono di animo forse non nobile, ma tenero sì, glielo dico anch'io: poverino!)
Questo mi porta al terzo esempio di Dovlatov:
"E se accade qualcosa di assolutamente folle e insensato? Se il nostro paese ha respinto il nostro amore? Se ci ha umiliati e tormentati? Se ha calpestato i nostri interessi?
Allora la persona nobile dice:
Una madre non te la scegli. E' la mia unica patria. (...) Misera, affamata, folle e alcolizzata! Ha perduto, rovinato e respinto i suoi figli migliori! Come fa a essere buona, allegra e affettuosa?"
Anche lui ha vissuto tempi bui. Più bui dei nostri (dei miei). Eppure scrive con umorismo e tenerezza. E' gentile. Di animo nobile.
Io non riesco a scrivere così della mia (della mia patria, intendo). Non sono di animo nobile. Ho delle colpe, ovvio. Scrivo di cose marginali. Intimistiche addirittura, a volte. In apparenza (o almeno così mi illudo). Vuol dire che non la amo abbastanza (anzi, proprio non so se la amo davvero, a parte la lingua e altre cosucce a quanto pare secondarie). Vuol dire che vedo responsabilità che non riesco a fare mie, e per di più senza parlarne quasi mai, e che non credo quindi che le colpe siano solo mie (di quelle parlerei). Non sono di animo nobile. E però qualche gentilezza, ogni giorno, magari non verso la patria, ma verso questo o quell'altro, me la concedo.

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