a
Mimma e Raffaele (e a mia sorella Manuela)
Sul
ponte incontro Raffaele e Mimma, stanno guardando il popolo delle anatre che
negli ultimi anni ha colonizzato i corsi d'acqua del paese, fiume canali e
persino rogge. Ci sono anche germani reali, e poi cigni, gallinelle, gabbiani,
aironi e, mi pare, cormorani. A proposito dei germani reali, Raffaele mi
racconta di un tale che usava le piume verde smeraldo della loro testa per
confezionare esche. Si chiamava Aldo Vanghett, detto così perché la forma del
suo viso, con il mento squadrato e sporgente, gli zigomi spigolosi e la fronte
alta e lucida, evocava quel nobile strumento. La cultura contadina! Era un
ex-cacciatore che non ce la faceva più, né lui né il suo vecchio cane sbilenco
e spelacchiato, a percorrere con il fucile in spalla la campagna ormai
spopolata di selvaggina, e così si era dedicato completamente all'altra sua
passione, la pesca. Sempre meno con gli anni, però, perché l'umidità, il freddo
e l'artrite non vanno d'accordo. Quando non pescava, andava in giro con il suo
cane, e, in difetto di altri interlocutori, faceva lunghi discorsi con lui, che
lo stava ad ascoltare paziente e gli dava sempre le risposte giuste girandogli
attorno e leccandolo. L'amore è sempre la risposta giusta. Quando incontrava i
suoi ex-colleghi cacciatori, chiedeva se avevano ucciso un germano (che poi non
so se è legale), e se potevano dargli le piume della testa.
A
volte si fermava un po' a guardare pescare gli altri, e in certi casi si
azzardava persino a attaccare bottone. È così che ha conosciuto Raffaele. Un
giorno gli racconta del suo metodo per confezionare le esche e gli magnifica la
loro efficacia. Peccato che non ha figli né altri a cui tramandare quella
piccola sapienza e altri trucchetti che ha escogitato negli anni. Allora
Raffaele gli dice che può insegnarlo a lui.
Faceva
così: tagliava le piccole piume a metà, poi le piegava in differenti
angolazioni e addobbava l'amo fissandole in un modo tutto suo, bello e
efficace. Il suo modo di essere creativo. Forse uno dei tanti, che si
manifestavano in altre piccole attività e accorgimenti come questo. Cose a cui
nessuno faceva caso, ma lui sì. E questo è bello. Magari per il resto era men
che mediocre, non so; penso di no, ma forse lo era; però in questo di sicuro
no. È bello far bene le cose.
Certo
ora i negozi sportivi sono pieni di esche preconfezionate di ogni tipo e materiale,
e su internet ci sono mille siti dove puoi imparare tutti i segreti e le
procedure per ogni occorrenza e ambiente e preda. Ciononostante Raffaele è
andato da Aldo un paio di volte, l'ha ascoltato e ha imparato le sue tecniche,
che ha aggiunto a quelle che conosceva già, e si è messo a confezionare le
esche da solo. O assieme a Mimma, nei pomeriggi di domeniche inclementi, o la
sera, in cucina, mentre Federica e Ilaria, che di apprendere quell'arte non si
sognavano nemmeno (d'altronde si sono mai viste donne pescatrici?, nel senso
letterale del termine almeno), studiavano in stanza o in salotto, o erano
uscite, ciascuna rigorosamente per suo conto, con i rispettivi amici. Mi piace
immaginarli così, silenziosi, attenti a non pungersi con gli ami, o scambiandosi
qualche parola ogni tanto. Troppe non servono. E anche questo è bello e buono.
Nel
parlare, siamo arrivati all'Adda vecchia, praticamente un canneto paludoso ora
(splendido però), e Raffaele mi ha mostrato dei pesci fermi sotto il pelo
dell'acqua, che si vedevano solo a guardare nel modo giusto e se già sapevi che
erano lì. Gli ho chiesto che pesci erano, e poi, già che c'ero, delle specie che
ci sono nell'Adda, di quelle che c'erano in passato e di quelle che sono
rimaste ora o che, al pari di molti degli uccelli succitati, sono arrivate da
fuori (succede anche questo, e non sempre è un bene, pare, perché alcune, molto
voraci, alterano l'equilibrio: certo, dico io, ma se ne creerà un altro; e
contro i predatori si può intervenire, ammesso che non si calmierino da soli), e
come distinguerle. Lui, paziente, mi ha dato molte informazioni, che io però ho
dimenticato quasi del tutto, perché per imparare devo avere gli oggetti
davanti. Neanche le illustrazioni mi aiutano. Succede così anche con gli alberi
(per gli alberi il mio consulente principale è Federico De Leonardis, che
peraltro fa lo scultore).
Ascoltando
questa storia, mi è venuto da pensare alle forme di trasmissione del sapere,
roba grossa, non alla mia portata, e che quindi è immediatamente evaporata,
lasciando il posto a qualcosa di personale; e mi è tornato in mente mio papà,
che negli ultimi anni si lamentava che i giovani della sua ditta non stavano a
ascoltare quando gli insegnava come lavorare e tanto meno avevano voglia di
"rubare il mestiere", come aveva fatto lui da ragazzo, durante la
guerra, osservando di nascosto gli operai specializzati più abili e gelosi dei
loro segreti, quando lavorava dal mitico Piacezzi, nella cui fabbrica si è
formata la generazione di quelli che sarebbero diventati gli artigiani e i
piccoli imprenditori che hanno fatto la fortuna di Fara (e la propria; e la
mia) negli anni '50 e '60.
A
me questo ritornello non diceva molto, tanto più che lo sviluppo della
tecnologia aveva reso obsolete simili astuzie. Eppure fino agli ultimi tempi
mio papà, che non aveva fatto neanche le scuole medie, ma solo quelle che
allora si chiamavano l'avviamento (professionale) e poi una scuola serale di
disegno tecnico (ma non sono sicuro e purtroppo non ho più nessuno a cui
chiedere conferma), non ha smesso di inventare qualche accorgimento per
migliorare anche i macchinari più avanzati. La sera, o durante i weekend, si
metteva al tavolo in sala, con squadra, righello, goniometro e la sua batteria
di grossi blocnotes a quadretti, e disegnava. Me li aveva fatti portare, di
nascosto dalla mamma e dai dottori, persino in clinica, tre o quattro giorni
dopo l'operazione al cuore in seguito alla quale poi gli si sono bruciati i
polmoni (ma lui ha poi accelerato il processo, tornando a lavorare finché non
ha dovuto usare le bombolette portatili con la cannuccia per respirare, e
oltre), e passava i giorni e le ore così, senza pensare a nient'altro.
Mi ricordo quando, con l'intento di
insegnarmi, di passarmi pian piano il mestiere (a cui dovevano introdurmi anche
le scatole di meccano sempre più complesse che per anni sono state la costante
dei regali di Natale), mi portava alla fiera campionaria o a quella delle
macchine industriali. Passava tutta la giornata nei loro padiglioni, mentre io
volevo andare in tutti meno che in quelli ma non mi azzardavo a dirglielo (ma
poi un giro me lo concedeva sempre), a osservare ogni dettaglio, chiedere
depliant sui quali scarabocchiava appunti per poi studiarseli ben bene a casa, a
fermarsi a parlare con gli espositori di ogni nazione, facendosi capire anche
quando non parlavano l'italiano o non c'era un interprete. In particolare
ricordo la volta che ha visto un macchinario della Germania dell'Est che era
ciò che più si avvicinava a come doveva essere per lui la macchina perfetta: ha
fatto finta di niente, si è avvicinato, gli ha girato lentamente attorno, in
silenzio, come un medico scrupoloso al capezzale di un moribondo, ha messo la
testa in tutti gli angoli, controllando materiali, motore e tutte le componenti
e ha salutato con aria moderatamente soddisfatta, ma con una sfumatura
scettica, lasciando intendere che forse, ma proprio forse, e se gli venivano
incontro, come se fosse dipeso dai rappresentanti, era interessato. Al ritorno ha
ripassato tutte le caratteristiche, una per una, ha calcolato costi e tempi di
ammortamento, ipotizzato ogni possibile uso o miglioria per adattarla alla sua
produzione del momento e per acquisire nuovi ordini per particolari (di
trattori) che pensava di soffiare ai concorrenti, e il giorno prima della
chiusura è tornato ad acquistarlo. Un bestione come non se n'era mai visto in
officina (l'abbiamo sempre chiamata così, anche quando è diventata una fabbrica
di discrete proporzioni) e che è rimasto ancorato al suolo, stagliato come un
mastio nella valle, per più di vent'anni.
Voleva sempre insegnarmi, mio papà, anche quando non pareva, quanto lui non si stancava di apprendere. Con poche parole e gesti bruschi, ma non duri. Solo, a volte, impazienti. E io non ascoltavo; oppure ascoltavo distrattamente e mi volgevo altrove. Non volevo quello che voleva lui, pur non sapendo cosa volevo io. E siccome non lo sapevo io, pensava di potermelo dire lui. Non ha funzionato. Se qualcosa, con il tempo e senza accorgermene, ho imparato, è stato, ma solo in parte, a volere come voleva lui. Non l'ho preso alla lettera, ma forse alla lunga ho compreso la lettera, ne ho assimilato il senso.
Io non sono mai stato capace di rubare il
mestiere. Del resto non ne ho mai avuto uno. Ma quando vedo qualcuno fare bene
una cosa che ignoro, ora lo sto sempre a guardare. Se non disturbo troppo,
faccio pure qualche domanda, mi informo su materiali e strumenti e tecniche e
ragioni. Imparo poco o niente, ma intanto guardo, ora, e chiedo. Restano alcuni
gesti, delle posture, parole. Sarà poco, ma me ne vado sempre contento.
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