1) Marco Ercolani
Comincio con Camera fissa, di Marco Ercolani (Nuova Editrice Magenta, 2013, p. 85, E. 10).
E’
un breve romanzo giovanile, che l’autore ha rivisto a più riprese, fino
a questa versione, matura e definitiva, con cui ha vinto il Premio
Morselli 2012.
Un
uomo giace a letto, incapace di ogni movimento o parola escluso quello
degli occhi, in seguito a al fallito suicidio di qualcuno che si è
gettato da un palazzo e gli è caduto addosso. Un giorno riceve la visita
di un uomo che si rivela il responsabile della sua condizione. Le
visite si ripetono, ma mentre l’altro implora il suo perdono, il
protagonista ordisce, in modi sottilissimi e con l’aiuto di un vecchio
che lo accudisce, insieme la sua vendetta e la propria liberazione.
Il
libro è composto di brevi capitoli in cui sono riportate le minime
percezioni, ricordi e sogni e progetti del corpo immobile a letto o
messo a sedere davanti a una finestra, ridotto a puro sguardo. La camera
fissa del titolo, più ancora di quella in cui giace, è quella con cui
si identifica quello sguardo, crudele riduzione di un uomo cresciuto da
una madre cinefila e lui stesso regista cinematografico. E trame,
citazioni, personaggi di film del passato costituiscono il tessuto
connettivo tra i capitoli, i personaggi e le vicende: alcuni in
citazione e con funzione esplicite, altri in modo velato, come richiamo
criptato e chiave di lettura.
Un
libro cupo e crudele, costruito con pochissimo eppure denso; un
tensione che cresce nell’immobilità di eventi assenti, ridotti a un
fiato, a una pupilla che si sposta appena.
2) Enrico De Vivo
L'autore
del secondo, Enrico De Vivo, non è un amico, nel senso che non lo
conosco di persona, ma va bene lo stesso: è come se lo fosse, per
qualche contatto elettronico sporadico, ma soprattutto per la sua
splendida creatura “Zibaldoni e altre meraviglie”, che ha inaugurato di
recente anche un'attività di editoria digitale. Il libro si intitola Saggi inventati
e esce nella collana “Questo è il mondo” di QuiEdit, Verona, che ha già
pubblicato bei libri di altri amici (Walter Nardon Marco Ercolani,
Alessandro Carrera, che tra l'altro firma qui una densa prefazione,
doppiata da una bella lettera di Massimo Rizzante). E' un libro
originale, ricco di analisi e riflessioni e veramente ben scritto, senza
la minima prosopopea anche quando affronta tematiche molto impegnative
(Averroè, Vico, Agamben) che risolve sempre in uno stile piano che sa
tener mantenere appassionata la lettura (come lo è la scrittura) anche i
momenti più ardui e si illumina spesso di spunti e anche di espressioni
sorprendenti e poetiche, in cui il legame con la comune umanità del
vivere e dell'impegno quotidiano non viene mai reciso. Non a caso hanno
ampio spazio l'esperienza dell'insegnamento, i problemi della scuola e
della trasmissione del sapere e il rapporto con la lingua d'uso, in
primo luogo dei ragazzi; ma anche quella in cui i documenti ufficiali
lasciano trasparire la vita in classe e le idiosincrasie dei professori
(come il divertente, e istruttivo, capitolo finale, che riporta le “Note
in condotta” dei registri di alcune classi della provincia napoletana).
Ci sono poi bei saggi su Celati (che è un punto di riferimento per
molti discorsi, oltre ovviamente a Leopardi), Basile, Walser, ma quello
che più mi preme segnalare è quello su In cuniculum
di Lapin (La Carmelina, 2009), un libro notevole di un autore ancora
poco noto, che ho avuto anch'io il piacere di presentare a Bergamo un
paio di anni fa. L'avere dedicato lo stesso spazio e la stessa
attenzione a un libro fuori dagli schemi di uno sconosciuto accanto ai
grandi nomi che ho menzionato, è l'indizio definitivo dell'onestà e
della serietà, e della passione e indipendenza, di De Vivo. Ce n'è più
che abbastanza per sentirlo come amico.
3) Roberta Salardi
Il terzo è un libro di racconti di Roberta Salardi: Mannequins. Dieci fiabe sulla donna-oggetto e altri racconti, Ed ZONA Contemporanea, Arezzo, 2013, pp. 131, E. 13,00. Avevo letto e apprezzato il precedente libro della scrittrice, Regressioni
(Effigie, 2010), e devo dire che questo mi sembra anche migliore. Ci
sono alcune cose che non mi convincono, a cominciare dal titolo a mio
parere troppo esplicito, che indice sospetti di storie a tesi e di
denuncia sociologica, da una parte e ambiguo dall'altra (se si pensa
alla copertina con una modella che sta sfilando e al fatto che modelle
non ce ne sono quasi, se si esclude quelle inconsuete del notevole
racconto di apertura dove giovani donne imbalsamate vengono usate come
manichini nei negozi, donne di compagnia di miti psicopatici e oggetti
di collezione di un critico d'arte che le ha acquistate da un fornitore
parente stretto di compari che procuravano i cadaveri in Il dottore e i diavoli di
Dylan Thomas), ma non mi adeguerò al giochetto dei recensori che “sì,
insomma, il libro è bello, ma discontinuo...” e altre scemenze: è ovvio
che in un libro di racconti alcuni piacciano di più e altri di meno. La
lettura dei racconti dipende da molti fattori, anche quelli materiali,
di orario e umore, e i giudizi sono più facili e epidermici, essendo la
forma e la lettura brevi, e quindi variabili a seconda di quelle
condizioni
Dunque Mannequins è un bel libro senza ma. Chiuso.
Dirò
allora le cose che mi piacciono. In alcune il gioco rischia di essere
troppo scoperto, ma in genere l'autonomia della narrazione tiene
benissimo e la trappola simbolica resta solo come efficace e non
esplicito né univoco sottofondo, al pari del rischio del “voler
dire”, della subordinazione magari involontaria al messaggio e al
riferimento diretto alla “società” e altre simili ubbie. L'ironia è
quella delle situazioni, che poi le proiettano su molti personaggi
(specie quelli maschili o, se femminili, di donne legate a immagini,
aspettative e ruoli dettati dall'ottica maschilista, magari
volontariamente assunti per trarne vantaggio), evitando quella diretta,
che diventerebbe schematica: anzi, a volte su di essi lo sguardo non
manca di tenerezza. Giova all'ironia il fatto che molte storie siano
narrate in prima persona dagli stessi protagonisti, che non vi vedono
nulla di straordinario e anzi le riferiscono con il tono discreto e
quasi sussurrato di persone timide e miti, o in quello oggettivo degli
standard cronachistici, che sono autoparodici già nella realtà, come in
“Zapping fatato”. Il distacco, l'astensione dal giudizio o da qualsiasi
intervento di una voce autoriale, si traduce automaticamente in
perfidia; lo squallore di certe situazioni, come la condivisione di
valori e cliché da cui pensavamo di andare esenti, diventano i nostri,
per quanto paradossali siano; la riduzione dell'empatia, che qui è
metodo, si trasmette anche al lettore, che accetta lui pure come
“normali”, o guarda come al resoconto di un'osservazione scientifica,
anche le figure e le storie che sconfinano nel patologico o nel
fantastico: come il nostro ordito quotidiano, quali difatti sono.
Inquietanti ma tranquillamente plausibili, al massimo sfumate di tenue
meraviglia.
4) Lucetta Frisa
Il quarto libro di cui vorrei parlare è L'emozione dell'Aria
di Lucetta Frisa (ed. CFR, pp. 88, E. 12,00). Vorrei, ma non lo farò,
perché è un libro di poesia e la poesia mi disarma (è anche il motivo
per cui che ne sono attratto d'altronde). Non ne so parlare: non ci
riesco e non ne sono capace. Dovrei entrare in dettagli che non so
maneggiare o finirei per perdermi in parole astratte, non
particolarmente simpatiche. Dovrei girarle attorno, in lunghi giri.
Camminarci sopra mi ripugna. La prosa la calpesto in lungo e in largo
senza problemi (ogni riga che scrivo lo dimostra), la poesia no. Vecchi
tabù. Ma allora perché non parlo dei libri in prosa di Lucetta: per
esempio dei bei racconti riuniti in La torre della luna nera,
ed. puntoacapo, pp. 184, E. 16,00, che contiene alcuni pezzi davvero
entusiasmanti, come “Kafka è morto a 67 anni”, o di altri scritti in
collaborazione con Marco Ercolani, come gli splendidi Anime strane, Greco&Greco 2006, e Sento le voci,
La vita felice, 2009? Ma è semplice: perché Lucetta sopra ogni altra
cosa (è anche traduttrice, lettrice a voce alta), è una poetessa. Senza
aggettivi qualificativi, che sminuiscono. Una poetessa che mi piace
molto. Come poetessa e come donna. E quindi, non potendo parlare della
prima, dirò un paio di cose sulla seconda. La prima è che le voglio
bene, che come motivo per parlarne già basta e avanza. La seconda non è
specificare perché gliene voglio (che senso ha specificare i motivi per
cui si vuol bene a qualcuno, ammesso e non concesso che per voler bene
ci vogliano dei motivi? Mica sono così meschino...), ma dire almeno cosa
mi incanta in lei. Mi incanta la sua capacità di incanto.
Più
che una predisposizione, Lucetta ha una vera e propria vocazione allo
stupore che non ho riscontrato in nessun altro. Nemmeno nei bambini. Non
mi spingerò a dire che i bambini sono stupidi nemmeno se lo pensassi
(…), ma è certo che il loro stupore nasce dall'ignoranza, quello di
Lucetta anche (come per tutti), ma da quell'ignoranza che sgorga da
tutto ciò che sa (che è tanto, come dimostra tutta la sua opera), dalla
conoscenza che resta vicina alla sua sorgente, da quanto sa dimenticare
in ciò che sa per trasformarlo in capacità di ascolto e di canto. Come
se fosse geneticamente predisposta a rispondere a tutto ciò che, in ogni
cosa e conoscenza, fa appello all'incanto. Lo chiama in lei, e lei,
alla vocazione, risponde. Tiene aperto l'ascolto, e lo sguardo, anche
nella sofferenza, di modo che, quando si ripiega in se stessa, non è per
chiudersi. ma per esporsi, per ampliare le proprie superfici sensibili
interne, lasciare che angoli e spigoli e ogni forma di connessione si
moltiplichino, e incidano, nella sua vita prima ancora che nei suoi
versi. E' da lì, mi pare, che viene anche la sua disponibilità (e
capacità) a lasciarsi abitare, a assumere le parole altrui seguendole
sulle loro vie lungo un percorso che ogni volta, alla fine, estrae da
esse immagini e cose e suggestioni inedite e al contempo disegna il suo
profilo, questo o quel lineamento, e proietta una luce che prima di lei
non si conosceva, arricchisce la nostra e la sua conoscenza (la sua di
lei), proprio lì, quando si fa porta-voce di altri, come a distogliersi
da se stessa, non per esprimersi attraverso la loro voce o per
nascondervi la propria, ma per cercarla, e ogni volta trovarla.
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