19/08/24

Sbudellamento ben temperato (appunto per niente. Incompleto. Su Smilevski, La sorella di Freud)

Se qualcuno, con bel gesto, si sbudella davanti a me e mi rovescia addosso tutto il suo dolore con grido ben temperato, emesso con la giusta modulazione, in stile adeguato, allora non è lo strazio che guardo, ma il gesto; non è dal dolore che mi sento chiamato in causa, ma dallo stile. E solo quelli giudico.

Si creano delle false aspettative, e poi si squarciano il petto se le vedono disattese. Scassano i timpani, lanciano altissime grida con qualcuno che esiste in quanto da loro presupposto, e che se esistesse nemmeno si sognerebbe di ciò che questo o quell’altro gli addebitano. Non sopporto gli urlatori; soprattutto gli urlatori metafisici.

Farò un’azione scorretta: parlerò male di un bel libro. A stroncare le schifezze non c’è gusto: le si raddoppia solo. Si aggiunge facilità a facilità. Il libro è La sorella di Freud, di Goce Smilevski (Guanda, 2011). La scorrettezza sarà doppia, perché ne parlerò per dire altro. Chi legge è avvisato. Se vuole un giudizio sul libro, eccolo: è bello, e vale la pena leggerlo ben oltre ciò che ne dirò.

Accenna alla relazione di Freud con la cognata Minna sulla quale è trapelato qualcosa con la scoperta (o pubblicazione) recente di alcuni archivi. (cfr. Michel Onfray)

Sono un po' stufo di questi libri che partono da fatti di cronaca o infarciscono la trama di personaggi storici e eventi, in parte documentati, altri inventati (penso, per es., al libro sulla sorella di Freud, che nel lager fa amicizia con quella di Kafka e a Vienna con quella di Klimt, e tutte e due finiscono in un manicomio diretto dal nipote di Goethe, dove si possono fare disquisizioni su un sacco di cose, bei riassunti di questo e quello magari ben cuciti sugli eventi narrati, e che danno poi occasione a pezzi di scrittura, qua e là notevoli, ma in mezzo a bei laghetti di noia).

O penso a quelli che lavorano di bulino lo strazio, cesellano con lo stile l'indicibile nel momento in cui lo dichiarano tale, esibendo la "profondità" delle viscere ancora sanguinolente, ma ricamate di tutto punto.

 


 

 


09/08/24

La notte di Bateer


Mi bruciava ancora gli occhi la luce blu che avevo fissato per tutta la sera per non guardare la fila delle bottiglie sottostante e, dietro, fatta a pezzi nello specchio, la mia faccia. All’uscita dal locale la luce, che sfumava al rosa verso i margini, si era ristretta a una lama che mi tagliava le pupille, dividendo il mondo in due piani sovrapposti, che a causa sua non riuscivano a coincidere esattamente come avrebbero dovuto. Le due metà vivevano ciascuna per conto proprio, come se non avessero mai avuto niente in comune, e io spostavo l’attenzione dall’una all’altra senza nemmeno pensare alla possibilità di fare qualcosa per colmare lo spazio che le separava e ricostruire in modo plausibile la striscia slabbrata che la lama aveva inciso e rimosso; per suturare la ferita, che peraltro non percepivo come tale.

Mi muovevo spostando l’attenzione dall’universo di sopra, che mi sembrava più interessante, a quello di sotto solo quando un piede incontrava un ostacolo o poggiava male sul selciato sconnesso. Vedevo le persone senza testa, al contrario di ciò che accade di solito quando, a causa della mia altezza e dato che cammino guardando sempre fisso davanti a me, senza chinare il capo o prestare attenzione a ciò che mi sfila accanto, scorgo solo frammenti di teste: capelli, una fronte, a volte due occhi e solo raramente il cranio intero. Ieri sera, invece, non vedevo niente: le teste erano tutte scomparse, la luce blu le aveva ghigliottinate, inghiottite nel suo buio.

Ogni tanto incocciavo in qualche corpo che non riusciva a evitarmi, ingannato dai miei movimenti incerti, persi più in alto, forse ondeggianti per l’alcol. Allora allungavo le mani alla cieca e spingevo violentemente da parte, contro il muro o un’auto parcheggiata sul marciapiede, il malcapitato, che non reagiva e, presumo, se la filava velocemente imprecando dentro di sé. Di solito mi muovo lentamente, in linea retta, e ci pensa la gente a scansarsi, anche nei luoghi più affollati e a costo di urtare qualcun altro. Sono grosso e non ho l’aria conciliante, come ha provato a dirmi una volta, con parole sue, un tizio, prima che un ceffone lo facesse volare di traverso. Ho la faccia spigolosa, scura anche di pelle. Vesto come vesto, con quello che ho raccattato o che mi è rimasto dai tempi passati, e non mi lavo spesso. Dove dormo da qualche tempo, non c’è acqua corrente e non sempre ho i soldi per un bagno. E quando ne ho preferisco usarli per altro, più urgente o importante.

Vedevo la strada poco trafficata allungarsi verso una piccola nube gialla in fondo e, ai lati, file di auto parcheggiate e alcune chiome di alberi senza tronco. Ho camminato così per un’ora, con lo sguardo concentrato sulla nube come in attesa che si diradasse rivelando che cosa nascondeva, ma la strada non sembrava finire né la nube diradarsi o avvicinarsi. Sentivo le gambe stanche e la bocca secca, la laringe insabbiata su fino all’attaccatura del naso, quasi che una piccola galleria le collegasse, una galleria appena scavata, con i bordi ancora arroventati dall’attrito della trivella. Quando, qualche metro più avanti, ho scorto una figura uscire da un’auto lasciata accesa in seconda fila per entrare in una tabaccheria sulla destra, senza pensarci ho raggiunto di corsa la portiera, l’ho aperta, ho ingranato la marcia e sono filato via.

Della donna mi sono accorto dopo, quando doveva gridare già da un bel po’, concentrato com’ero a lanciare la vettura a tutta velocità e con la musica dello stereo a pieno volume, robaccia americana con un tizio incazzato che, lui pure, urlava piuttosto convinto la sua, non so cosa: certamente una di quelle che i neri americani si fanno un punto d’onore di non sopportare e che a me non interessano affatto. Neri e americani sono e neri e americani restano.

Ho rallentato, ho spento lo stereo e ho guardato la donna, che di colpo ha smesso di starnazzare e si è convertita a un lamento sommesso, farfugliando solo « Per pietà… per pietà…» ogni volta che piegavo il capo verso di lei. Allora ho frenato e le ho fatto segno di scendere, ma lei ha ripreso ad agitarsi, a chiamare aiuto, e quando mi sono chinato per aprire la portiera dalla sua parte ha pure accennato a graffiarmi, ragion per cui non mi sono fatto scrupoli a afferrarle un braccio e a scaraventarla fuori, con la sua borsetta stretta al ventre per proteggerlo. O per proteggere la borsetta. Nessuno dei due mi interessava.

Avevo già i miei problemi a districarmi nel traffico, anche se rado, per via della lama negli occhi che mi obbligava a guardare lontano o troppo vicino. Dovevo alzare il capo, con la testa schiacciata contro il soffitto, e concentrarmi sullo spazio di sotto se volevo vedere per intero almeno l’auto davanti a me, ma così perdevo di vista la strada. Per un po’ mi sono limitato a seguire l’auto, andando dritto quando andava dritto, curvando se curvava. Poi ho tastato a fianco del sedile in cerca della leva per spostarlo, in modo da allungarmi e assumere una posizione più comoda, ed è stato proprio allora che l’auto davanti a me ha rallentato all’improvviso e io le sono finito addosso.

L’auto, grossa e robusta, ha sbandato per qualche metro ma l’uomo alla guida è riuscito a frenare mettendola un po’ di traverso senza urtare nessun’altra vettura, quindi è sceso scagliandosi come una furia verso la mia, che per la botta si era fermata. Ha aperto la mia portiera e ha preso a insultarmi ancor prima di vedermi. E io, prima ancora di capire una sola parola, gli ho dato un pugno che l’ha steso sull’asfalto. Un fuoristrada che sopraggiungeva e aveva rallentato per quanto era successo, ma guardandosi bene dall’arrestarsi, ha sterzato con un’accelerata e è schizzato via evitando il corpo di pochi centimetri. Io sono sceso, ho dato qualche calcio al sacco di carne per terra, ho raggiunto la sua auto e sono ripartito con quella.

Lo sfogo dopo lo spavento mi aveva messo di buon umore. Alla prima curva ho svoltato e mi sono fermato per  accomodarmi il sedile. Ho guardato nel cassetto sulla destra e ho trovato una bottiglietta di cognac ancora sigillata, l’ho aperta e ne ho scolato d’un fiato quasi metà. Sia ringraziato il Signore onnipotente.

Quando ero ancora a casa mia, da ragazzo, ho massacrato di botte un pio pancione che aveva messo gli occhi su mia sorella: lei però non lo voleva perché era innamorata di un mio amico. Io non capivo questa storia che era innamorata, ma non capivo nemmeno che i nostri genitori le volessero far sposare il pancione, anzi contentissimi che l’avesse chiesta in moglie; così cui una sera gli ho dato il fatto suo, gli ho preso il portafogli gonfio e sono scappato. Mai sentito così bene. Non l’ho ucciso, ma ho dovuto lasciare il paese lo stesso: con il mio fisico non era facile nascondermi e quello mi faceva cercare. Forse se l’ammazzavo era meglio. Prima di approdare qui ho fatto un giro lungo e molte cose, che non mi sono tutte piaciute. Sono venuto qui perché c’era un mio cugino, ma quando sono arrivato lui era sparito senza lasciare tracce. O almeno nessuno me le ha indicate, né io le ho cercate. Affanculo anche mio cugino, come dicono qui.

 

Adesso stavo guidando questo macchinone, che si muoveva bene nonostante il baule sfondato. Mi sono diretto verso la periferia, ho preso la tangenziale e ho girato in lungo e in largo fino a che non ho terminato la benzina e il cognac. Il cognac molto prima. Dire che lo bevevo per far sparire la luce blu sarebbe falso, però lo speravo. E comunque, se la luce non si decideva a sparire, perlomeno mandavo giù l’alcol, e questo mi piaceva.

Quando ho sentito che il motore si spegneva, ho accostato sulla corsia di sicurezza, ho perlustrato l’interno alla ricerca di qualcosa che potesse servirmi (un pacchetto appena aperto di sigarette, un accendino di plastica, una confezione di fazzoletti di carta e qualche spicciolo; una miseria in rapporto al lusso del macchinone, ma qui sono così: prima l’auto, poi tutto il resto; scommetto che l’ometto la  stava ancora pagando) e mi sono incamminato nella direzione di marcia, con le macchine che mi sfrecciavano accanto strombazzando ogni volta che la mia andatura, non so perché, mi faceva deviare verso sinistra senza che me ne accorgessi.

La tangenziale faceva un’ampia curva, quasi impercettibile, e io fissavo, nel mondo di sopra, delle luci che mi sembravano quelle di un distributore con annesso autogrill o bar. Arrivato nel piazzale ho atteso appoggiato al muro dietro il bar, fumando una sigaretta dopo l’altra, che qualcuno si fermasse. Quando una monovolume ha parcheggiato, ho finto di dirigermi verso la porta avvicinandomi piano all’autista, l’ho preso per il collo della camicia, gli ho mollato due pugni, uno in pancia e uno in faccia, e l’ho trascinato, svenuto, al buio. Ho frugato le sue tasche, ho preso il portafogli e le chiavi dell’auto, l’ho raggiunta e sono partito. Al primo svincolo sono uscito dalla tangenziale per tornare in città, ma ho imboccato la curva a velocità troppo alta, almeno per la mia visuale e quindi per le mie capacità di  controllo, e sono finito con la fiancata contro il guardrail, che mi ha accompagnato per una ventina di metri finché non sono riuscito a focalizzare la parte bassa della strada e a riprendere il controllo della vettura, ammaccata ma senza danni rilevanti. Bella macchina.

La notte era calda ma non afosa, andavo piano con i finestrini abbassati e la testa chinata in avanti per inquadrare la strada con lo sguardo di sopra. Il traffico sempre più scarso mi permetteva di rilassarmi senza pensare a niente e ogni tanto di distrarmi sbirciando i rari pedoni, le puttane quando ne incontravo e soprattutto se c’era qualche locale ancora aperto. Al primo che ho incontrato mi sono fermato e sono entrato a bere un paio di birre gelate. Al banco era seduta una donna che mi ha ammiccato, ma io non ho risposto, anche perché non sapevo quanti soldi ci fossero nel portafogli. Quando l’ho preso per pagare, ho visto che c’erano abbastanza liquidi da comprarmi una bottiglietta di whisky e che ne avanzavano anche per la donna, volendo. Solo che in quel momento non lo volevo: l’idea mi ha raggiunto lentamente dopo che ho ripreso a girare in auto, ma allora non sono più riuscito a togliermela dalla testa.

Mi sono diretto verso le strade dove avevo incrociato delle puttane, ne ho passato in rassegna alcune con lo sguardo di sotto e alla fine ne ho scelta una bianca, slavata e sottile, una che avrei potuto facilmente spezzare, volendo. L’ho montata davanti e poi, non sazio, da dietro, e avrei voluto farlo ancora, se quella non avesse insistito prima a farsi pagare. I soldi che avevo bastavano appena per le due già fatte e quella non intendeva farmi nessuno sconto. Allora lo sconto me lo sono fatto da solo: le ho dato meno di quanto pattuito, perché sentivo il bisogno di un altro paio di birre, e con uno spintone l’ho scaraventata fuori dall’auto, dicendole di ringraziare il cielo di quello che le avevo concesso. Lei mi ha rincorso urlando maledizioni e io l’ho lasciata dire: andavo sufficientemente piano da non distaccarla, ma non abbastanza perché mi raggiungesse. Infine, ridendo, ho sgommato e sono andato via.

Quando montavo la puttana, per via della lama e della mia statura, era come se lei non ci fosse: o non la vedevo o focalizzavo solo dei frammenti dell’abito o delle braccia, poco interessanti; sentivo il rumore dell’auto provocato dai miei movimenti e quelli, professionali, emessi dalla ragazza, incluse alcune mezze frasi che non capivo, e in certi momenti percepivo vagamente lo straccetto di carne e ossa del suo corpo che, mentre pompavo, mi veniva l’impulso di accartocciare e gettare via. Dopo ero tutto accaldato, anche per l’alcol che avevo in corpo, e ho continuato a sudare nonostante i finestrini abbassati. Mi era tornata la sete e quando ho trovato un chiosco aperto dalle parti dello stadio, ho speso i soldi che mi erano rimasti per tre lattine di birra ghiacciata, che ho scolato una di seguito all’altra stando seduto in auto.

Vedevo con lo sguardo di sopra il piazzale dello stadio illuminato, enorme e vuoto, punteggiato da alberi che in proporzione mi sembravano minuscoli. Mi sentivo bene e mi è venuta voglia di urinare. Sul lato destro, lungo un viale costeggiato da una linea del tram, gli alberi erano più grandi e più invitanti, li ho raggiunti in auto, sono sceso lasciando il motore acceso e ho aggirato un albero in modo da poter sbirciare il piazzale mentre mi svuotavo. Quello spazio aperto mi affascinava, mi ricordava qualcosa, ma avevo la mente troppo confusa per ricordare esattamente che cosa. Non importa: averlo davanti mi bastava.

Stavo per finire quando ho sentito la voce di una donna che diceva: «si vergogni!». Non le ho badato e ho scrollato il pene per farlo sgocciolare prima di rimetterlo nei pantaloni. Allora la donna, che nel frattempo si era avvicinata, si è rivolta all’uomo che la accompagnava invitandolo a fare qualcosa. Cosa ci facevano in giro quei due in un posto come quello, a piedi, a un’ora così tarda? L’uomo ha sussurrato di lasciar perdere, che non ne valeva la pena. «Sei sempre il solito», ha ribattuto lei isterica. «Per te va sempre bene tutto, lasci correre, lasci correre… sei diventato una mezza calzetta, un mezzo uomo, ecco quello che sei diventato. E lei si vergogni!» ha ribadito proprio nel passarmi accanto. Io vedevo solo i suoi piedi, ma la voce è bastata a orientarmi e le ho rifilato un ceffone che l’ha fatta volare a tre metri di distanza. L’uomo ha abbozzato una protesta: in un primo momento, non so se per disprezzo o solidarietà, avevo pensato di risparmiarlo limitandomi a uno spintone per salvargli la faccia, ma quando, chinata la testa, mi è parso di vedere nei suoi occhi come un’espressione di gratitudine, ho pestato anche lui.

Gliele ho date di santa ragione, con una rabbia improvvisa uscita fuori da chissà dove, senza riuscire a fermarmi, finché non ho sentito la donna che mi supplicava di smetterla, di avere pietà, a qualche metro di distanza. Mi sono voltato dalla sua parte senza vederla, sono rimasto lì, immobile e in silenzio, per qualche attimo, e me ne sono andato. Non so perché, ma mi è tornato in mente quando facevo il muratore. Lavoravo in nero, guadagnavo bene e non sentivo la fatica. L’unico problema era rispettare gli orari, ma una volta in cantiere continuavo tutto il giorno e mi divertivo anche, con i compagni che passavano a prendermi sulla strada ogni mattina con il loro pullmino. Me la passavo bene, abitavo con altri compaesani, i soldi non mi mancavano, tanto che ne potevo spedire una parte a casa, e nemmeno le donne.

Non fosse stato per il capocantiere sarei andato avanti così anche per sempre, volendo. Il capocantiere aveva l’abitudine di sfogare certi suoi problemi famigliari trattando con i piedi il primo che gli capitava sotto tiro, cioè tutti, a turno, escluso il sottoscritto, che evitava accuratamente. Finché un giorno, forse sovrappensiero, se l’è presa anche con me, andandoci pesante, tra i risolini dei miei compagni, non so se diretti a lui o a me. Io guardavo sopra la sua testa e facevo finta di non sentire, ma più restavo fermo, più quello mi urlava di lavorare, aggiungendo altre considerazioni personali. Se ho ben capito, non trovava il mio livello intellettuale adeguato alla professione e credo abbia espresso anche qualche apprezzamento sulla mia terra d’origine e su tutto il mio parentado, che pure è piuttosto ampio.

Quando si è accorto che il bersaglio odierno ero io e che avevo deposto il badile per avvicinarmi a lui, le parole gli si sono strozzate in gola e s’è messo a tossicchiare, che era il suo modo per chiedere scusa, forse; se non che io avevo già iniziato a muovermi e non potevo più fermarmi: così l’ho pestato per bene, con calma e metodo, tra gli applausi silenziosi dei miei amici. Sono stati loro, in quattro, a fermarmi e spingermi via, consigliandomi di non farmi più vedere. Il capocantiere non mi ha denunciato, per paura di ispezioni, ma io ho perso il lavoro e non sono riuscito a trovarne un altro in zona, perché si era sparsa la voce. Del resto, mi era piombata addosso una stanchezza improvvisa e qualche soldo l’avevo messo da parte. Allora ho cambiato città.

Sono venuto in questa città, più grande, per nascondermi meglio e convinto che avrei trovato più facilmente da sopravvivere. Ho trovato da dormire qualche giorno dopo, su indicazione di un compaesano che abitava in un caseggiato abbandonato, occupato da decine come me che resistevano da mesi a ogni tentativo di farli sloggiare, appoggiati da giovinastri del posto che offrivano una solidarietà di cui nessuno sentiva il bisogno. Ma già che c’erano, ogni tanto qualcuno ne approfittava, anche se spesso a provocare le incursioni della polizia erano proprio loro. Soprattutto qualche femmina era particolarmente generosa, a volte: non erano granché, ma a caval donato non si guarda in bocca. Troppo magre e, secondo alcuni, non del tutto sane, ma quanto a questo ci pensavano loro a prendere le dovute precauzioni (forse pensavano che anche qualcuno di noi non era del tutto sano).

Un giorno la polizia è arrivata in forze e abbiamo dovuto sloggiare. Prima c’è stata una mezza battaglia, alla quale io non ho partecipato, perché quel mattino sono tornato tardi; quando ho visto lo schieramento, non ho nemmeno cercato di entrare. Avevo fatto tardi per via di uno di quei lavori ai quali avevo dovuto adattarmi anche se non mi piacevano. Me lo aveva trovato uno che non abitava lì, ma che uno che abitava lì conosceva. Non mi piaceva nessuno dei due, però guadagnavo bene. Tanto più che spendevo poco.

Mi ero rivestito da capo a piedi e così conciato non mi è stato difficile trovare un nuovo lavoro, all’ortomercato. Siccome si cominciava a lavorare presto e c’era molto spazio, con la scusa di fare un po’ da sorvegliante e visto che sono grande e grosso, dopo qualche tempo sono riuscito a convincere il mio capo a lasciarmi lì a dormire la notte, in un sacco a pelo da cui sporgevo a metà, su una brandina pieghevole che di giorno nascondevo in un ripostiglio. Non so come, ma quelli per cui lavoravo prima mi hanno trovato quasi subito e hanno cominciato a chiedermi dei favori: roba semplice, tipo dare dei pacchi ai camionisti o ritirarli in attesa che loro passassero a prenderli, di notte o anche in pieno giorno, confusi nel viavai di mezzi e facce di ogni tipo. Posso sospettare cosa contenessero, ma non mi sono mai preso la briga né di chiedere né di controllare. In cambio mi hanno procurato dei documenti appena un po’ modificati di uno regolare che era sparito tempo prima, più qualche guadagno supplementare. In seguito, grazie ai documenti, ho aperto perfino un conto corrente. Poi, come se niente fosse, da un giorno all’altro, sono spariti tutti anche loro.

Ogni tanto non si trattava di pacchi ma di veri e propri contenitori in legno piuttosto pesanti che scaricavo e ricaricavo con il muletto. Quando gli amici arrivavano, il mio capo faceva in modo di non essere mai sul posto e nessuno mi toglie dalla testa che per qualcosa c’entrava pure lui, oltre che, ovviamente, i camionisti che nascondevano tutto quel po’ po’ di roba tra le casse di arance, mandarini, mandorle, carciofi, pomodori e compagnia bella. Un giorno è arrivata un’ispezione a sorpresa e il mio capo è stato trattenuto a lungo in questura o non so dove altro. Il mattino dopo era sorridente ma piuttosto scosso: da allora di pacchi e scatoloni e excompari non ne ho più visti. Comunque, dopo un po’ me ne sono andato anch’io.

Il fatto è che mi ero messo con una del posto e che da qualche mese non mi fermavo più a dormire se non quando comandato. Le cose con la donna andavano bene, perché i nostri orari non coincidevano e potevamo continuare con le nostre vite separate e lei non faceva storie ogni volta che mi veniva voglia di montarla. Anzi, sembrava che non aspettasse altro. Non era speciale, quanto a bellezza, ma a letto mi lasciava fare quello che volevo senza mai lamentarsi, tutt’altro… Una vera troia insomma. Trovarne così! Invece è stata l’unica. Finché anche con lei qualcosa non ha tardato a guastarsi e io ho cominciato a picchiarla, senza esagerare, ma abbastanza, secondo lei, perché un giorno mettesse in pratica la minaccia di denunciarmi. Così son dovuto andar via anche da lì.

Nel frattempo avevo lasciato il lavoro e di cercarne un altro mi era passato l’estro. Passavo le giornate senza combinare niente, se non qualche cosuccia per fare un favore a questo o quell’amico, fino a quando non ho esaurito quasi tutti i risparmi. Mi ero anche abituato a bere roba forte e buona e non ho più smesso, a seconda delle possibilità: sempre roba forte, ma sempre meno buona. Quello che potevo permettermi insomma. La carità non l’ho mai chiesta.

Una notte che camminavo ai bordi di una strada di periferia dove avevo trovato un rudere in cui dormire, un tizio in auto prima mi ha strombazzato all’improvviso alle spalle, facendomi sobbalzare, e poi ha sterzato come per investirmi, forse per divertirsi, per dare un taglio alla noia con una bravata divertente. Io mi sono gettato contro il muro e ho rivolto un segno di minaccia contro l’auto che si allontanava. Il gesto non deve essere piaciuto al conducente, perché ha frenato bruscamente e è tornato in retromarcia verso di me, cercando di schiacciarmi contro la recinzione di cemento alla mia destra. Con un salto all’ultimo momento mi sono aggrappato al colmo della recinzione e mi sono tirato su, di modo che il paraurti è finito contro il cemento e si è ammaccato. Quando ho mollato la presa e sono tornato a terra, il ragazzone al volante è schizzato fuori dall’auto assieme all’amico che gli sedeva accanto. I due avevano in mano delle catene e ridevano.

Mi sono preso dei colpi piuttosto dolorosi, ma alla fine sono riuscito ad avere la meglio, e allora mi sono sfogato con gli interessi, tanto da lasciarli privi di sensi ai bordi della strada, rotti e insanguinati, forse morenti, non lo so e non mi interessa. Prima di lasciarli, però, li ho ripuliti di tutto quanto potevo portargli via: orologi, soldi, telefonini, sigarette, accendini, bustine di stagnola, un coltello a serramanico che il proprietario non era stato abbastanza furbo da usare, e le chiavi dell’auto con la quale me ne sono andato. Ero avvilito e euforico. Sono tornato in città e mi sono messo a girare finché non ho trovato qualcuno a cui svendere tutto quello che non mi serviva, inclusa l’auto, e mi sono preso una stanza in un alberghetto. Vi sono rimasto un paio di giorni, il tempo di ripulire me e gli abiti, di comprare un cambio di biancheria al mercatino rionale e di farmi lunghe dormite e una puttana.

Di questo episodio non ho fatto tesoro sul momento, perché con i soldi raggranellati ho potuto permettermi di rimanere in città per un po’. Sono tornato nei vecchi posti e ho riallacciato vecchie conoscenze, che tra l’altro mi hanno trovato un lavoro da buttafuori in un locale, da cui però sono stato cacciato dopo qualche settimana per eccesso di violenza. Approfittavo di ogni minima effrazione alle consegne per lanciarmi sui ragazzotti più esuberanti o sbruffoni. Se non stavano in riga, ci pensavo io a fare ordine, soli o in gruppo che fossero. Non ce n’era uno che mi fosse simpatico. Anche con le vecchie conoscenze faticavo ad andare d’accordo, mi parlavano di cose nuove, di imprese epiche, guerre e vendette che per me non significavano niente, e questo li offendeva profondamente, a quanto sembrava. Allora hanno cominciato a guardarmi con sospetto e io ho pensato bene di sparire un’altra volta.

 

Così mi sono trovato di nuovo per strada, ed è stato allora che mi è venuto buono il ricordo dell’aggressione. Quando proprio non avevo altre risorse, potevo sempre prendermele. A volte non c’era nemmeno bisogno di muovere le mani: bastava la mia presenza e la minaccia verbale. Aspettavo un passante solitario in qualche posto buio, lo afferravo per il bavero o per il braccio e gli intimavo di darmi il portafogli, il cellulare e quant’altro. Qualcuno provava a protestare, ma bastava un pugno nel ventre o una sberla, se donna, per ridurlo alla ragione. In fondo la maggior parte della gente è vigliacca e alla sola idea di qualche botta quasi tutti calano le braghe. Poi magari sopportano le peggiori umiliazioni senza battere ciglio e affrontano le malattie più gravi con un coraggio insospettato. Ma l’idea di essere picchiati a sangue, quella non la reggono, chissà perché. E’ solo carne molle, inutile. Meglio per me, comunque.

Ma non si trattava solo di reperire di che sopravvivere: se uno vuole e si accontenta, da queste parti ci riesce senza troppi sforzi e senza nemmeno dover fare chissà che di irregolare; il fatto è che a un uomo di solito sopravvivere non basta. Quando lavoravo più o meno regolarmente avevo frequentato scuole dove insegnavano a scrivere e altre belle cose utili, anche per sapere cosa evitare, o luoghi di incontro messi su da gente piena di buone intenzioni, e c’erano sempre signore molto gentili e spesso sole dalle quali non era difficile ottenere compagnia. A una, una semibalena stordita e entusiasta, davo addirittura la mia biancheria da lavare e lei me la riportava puntuale stirata e profumata: si vedeva che non lo faceva proprio volentieri, ma aveva vergogna a dire di no e io facevo finta di non accorgermene. Con altre si riusciva a ottenere anche di più, una o due volte, ma erano di solito vecchie o sposate. Non il massimo, ma sempre meglio di niente.

Quello che mi faceva imbestialire, anche se mi trattenevo, era che dopo piangevano. Se facevo la pantomima di forzarle, invece, si sentivano meglio, perché così la colpa ricadeva su di me e potevano evitare di riversarla su se stesse. Non che per me facesse differenza: anzi, se potevano manifestarmi il loro odio era più facile che si concedessero ancora. Io all’odio non ci faccio caso, mi rimbalza addosso; e poi quello era un odio annacquato, gentile a modo suo, quasi tenero. Più tardi mi sono ricordato di queste manfrine e non mi sono fatto scrupoli a forzare qualche giovincella reticente che intercettavo in luoghi isolati, o raccattavo fuori dai locali notturni o con l’auto, quando riuscivo a procurarmene una. Alcune piangevano anche mentre lo facevamo, altre prima e dopo, altre ancora solo prima. La cosa più difficile da interpretare era quando non dicevano niente, ammesso che interpretare il loro silenzio mi importasse. Il pianto invece mi eccitava.

Così, quando la donna ha cominciato a supplicarmi di smettere di picchiare l’ometto al quale fino a pochi istanti prima aveva ritenuto opportuno illustrare tutte le sfumature del suo disprezzo, a supplicarmi e a piangere, mi è venuta voglia di montarla. In un primo momento ho pensato di farlo lì, contro una pianta, con l’uomo che rantolava ai nostri piedi, ma siccome la cosa veniva scomoda e c’era il rischio che l’uomo si riprendesse, l’ho presa per il braccio e l’ho trascinata verso l’auto ancora accesa.

È stato allora che ho visto le luci di una gazzella della polizia dall’altra parte del piazzale. Muovevo la testa velocemente e passavo da sotto a sopra, con lo sguardo, in modo incontrollato, così che a un certo punto mi è parso di vedere non una, ma tante gazzelle che si dirigevano verso di me. Ho spinto a malincuore la donna in mezzo alla strada, sono balzato in auto e sono partito a tutta birra. Ma la lama blu mi segava ancora gli occhi e non riuscivo a vedere bene la strada. Allora ho deciso di entrare nel vuoto del piazzale e attraversarlo a tutta velocità. Effettivamente alla prima gazzella se n’era aggiunta un’altra sbucata da una via vicina e entrambe venivano verso di me da direzioni differenti. Io mi sono messo a zigzagare tra gli alberi e i lampioni del piazzale, non ci vedevo bene e correvo il rischio di sbattere contro uno di essi da un momento all’altro. La sbornia ormai l’avevo smaltita quasi del tutto, ma la lama ancora conficcata negli occhi, sottile, e il rumore delle sterzate che mi rimbombava in testa mi impedivano di ragionare.

Le due gazzelle mi erano sempre più vicine, a momenti mi seguivano in fila, in altri una mi affiancava o mi tagliava la strada. Non sapevo cosa fare, i miei inseguitori erano più veloci e più bravi nella guida, non sarei mai riuscito a seminarli; così ho provato a sbarazzarmene puntando direttamente su di loro. Quando quella che ogni tanto cercava di bloccarmi tagliandomi la strada mi si è messa davanti, invece di frenare ho accelerato e l’ho colpita nella portiera posteriore. Si è girata su se stessa e è andata a sbattere con la fiancata contro un albero, ma quella era un’auto robusta e è ripartita subito. Io ho sterzato a destra, ma il rallentamento dovuto all’urto ha permesso all’altro inseguitore di ripiombarmi addosso e di urtarmi a sua volta. Anche la mia auto allora ha preso a girare su se stessa finché non si è fermata lei pure contro un tronco e il motore si è spento. Ho provato a farlo ripartire ma non rispondeva, così sono sceso e invece di mettermi a correre mi sono appoggiato al cofano bollente.

Le gazzelle si sono fermate, come prescritto, una a destra e una a sinistra, in diagonale, per precludermi la fuga, poi ne sono usciti tre poliziotti con le armi in pugno, mentre un quarto probabilmente comunicava qualcosa alla radio. Mi hanno ordinato di voltarmi verso il cofano con le mani alzate; io invece mi sono scagliato contro quello isolato, un ragazzo dall’aria impaurita, e l’ho colpito con una ginocchiata ai testicoli e con un pugno al volto in rapida successione. È volato indietro lasciando partire un colpo per aria prima di accasciarsi al suolo, ripiegato su se stesso come un feto. Gli altri due sono rimasti basiti per la mia reazione e hanno avuto un attimo di indecisione; questo mi ha consentito di raggiungerne uno e di sferrargli un pugno che gli ha spiaccicato il muso. Soltanto allora l’altro si è deciso a spararmi.

Ho sentito la pallottola entrare nella mia carne e contrastare per un attimo con la sua spinta la mia, senza riuscire a frenarla del tutto. Poi una seconda e una terza mi hanno trapassato il fianco, sparate da terra dal compagno. Una luce nera mi è calata di colpo sugli occhi e la vista mi si è spenta, ma è subito ricomparsa, nitida e uniforme, e mentre crollavo, in un tempo rallentato che mi è sembrato infinito, ho potuto girare la testa a guardare il deserto luminoso del piazzale. Bellissimo, ho pensato, contento della mia fine.

Invece quegli imbecilli non sono nemmeno stati capaci di ammazzarmi.