29/01/15

Lucido (un inchino a Kant)



 
Sto prendendo degli antibiotici e questo, oltre a darmi un po' di nausea (quel leggero senso di vomito sempre lì lì per sboccare ma che non si decide mai... un inchino a Kant), mi rende la testa confusa. Proviamo a scrivere in queste condizioni, mi sono detto, e vediamo come va a finire.
Non che cambi molto rispetto al solito. Io mi picco di scrivere solo se sono molto lucido, ma cosa vuol dire essere lucidi? Di solito vuol dire che ho la testa vuota di tutto ciò che non sia quello che sto scrivendo, non disturbata da niente di esterno o di interno e con le antenne ben tese, sintonizzate su tutte le possibili lunghezze d'onda e pronte a captare ogni eco, anche lontanissima, di qualsiasi parola o espressione mi capiti sotto la penna, o gli occhi se scrivo al pc. Diffido dell'ebbrezza e dell'entusiasmo, forse perché sono incapace di abbandonarmici. Anche se poi un certo trasporto è inevitabile, se le cose vanno bene. Un qualche automatismo... una deriva. Ma sempre sotto controllo; vale a dire: sotto il massimo controllo che l'estensione della cosiddetta lucidità mi consente.
Ho letto abbastanza sul funzionamento del cervello e sull'inconscio per sapere che si tratta di una pia illusione, ma non la ritengo una scusa sufficiente a rinunciare a esercitarlo fin dove mi riesce. Allora l'ebbrezza per me diventa il funzionamento a pieno regime, sentire (eh sì: sentire) che se non sono in grado di controllare da dove vengono le cose che scrivo, sono però capace di gestirle una volta che sono lì, di vederne tutte le implicazioni, di sceglierle e manipolarle in modo che ci sia un massimo di compressione (di intensità: di concentrazione) in ciascuna di esse. Un più possibile nel meno possibile. Fermo restando che si tratta di prosa, non di poesia, e che quindi certi salti non mi sono concessi (il lirismo è escluso a priori). Le deviazioni sì, però. E io, astuto o folle, ne approfitto. "Compression is the first grace", scriveva Marianne Moore (mia nonna paterna si chiamava Marianna). Vale per tutto. Anche per l'esuberanza. Dove la compressione dovrebbe consistere proprio nella dispersione; altrimenti è puro svolazzo: che a ben pensarci non guasta, ogni tanto (la grazia dei tonti).
Con la confusione che mi ritrovo, meglio: con la balordaggine che imperversa (effettiva, oggi: fisica (parentesi nella parentesi: c'è qualcosa di più bello della punteggiatura?)), mi sa che piuttosto che svolazzi, oggi mi vengono solo ondeggiamenti ubriachi; sbandate, più che deviazioni, che finiscono in cantonate. Amen. Avanti. (Però è dura, col rigurgito sempre in agguato. Tanto più che fumo lo stesso. Notti e nebbie!)
Procedo in modo discontinuo. A salti e mozziconi. Se bevo un caffè migliora? Ora provo. O è meglio qualcosa di solido? Sto a metà strada e mi prendo un'arancia. Stare a metà strada non è mai consigliabile. Lo facevano gli ubriachi, di notte, una volta. Appunto, come me adesso! Ma nessun ubriaco si azzarda oggi, con il traffico che c'è a tutte le ore, anche al mio paese. E poi non ci sono più gli epici ubriachi di una volta. Tutte morte, le leggende paesane. Le tirate a squarciagola nel silenzio assoluto contro l'universo mondo e i suoi fottuti abitanti, le romanze, i lamenti d'amore (rari), le cattedrali in miniatura delle paranoie quotidiane, le mogli, i soldi e i figli... Finito tutto. Sostituito con altro. Altre euforie. Altre depressioni. Disperazioni con lo sconto, in saldo. (L'arancia stava funzionando, ma poi mi sono acceso automatico un'altra sigaretta. E l'ho pure fumata!)
Io sono per la solidità comunque. Niente vie di mezzo. Niente trasporti. Almeno qui. Soprattutto qui. Sarà schiuma, effetto di superficie, ma se uno ha il cervello lo deve usare. Punto e a capo.
E se proprio non vuole funzionare (come oggi, come qui)? Meglio lasciar perdere. Smettere. Ecco fatto.

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