19/06/15

Witold Gombrowicz, Corso di filosofia in sei ore e un quarto (1994)



                    
Il destino talvolta è gentile coi grandi scrittori e con dolce ironia accondiscende, per colpirli, a prendere forme e modi disegnati dalle loro opere, suggellandole con un omaggio definitivo. Per Witold Gombrowicz la filosofia è stata la passione di tutta la vita e allora è giusto che il suo ultimo lavoro sia stato proprio un “Corso di filosofia” che, molto gombrowiczianamente, era previsto di sole “sei ore e un quarto” (il quarto d’ora essendo dedicato a Marx, secondo le intenzioni dell’autore: in realtà fu di più). Se fin da giovane, come ci informa il premio Nobel C. Milosz,  Gombrowicz “veramente amava soltanto parlare di filosofia”, negli ultimi tempi della sua esistenza solo essa riusciva a distrarlo dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte. È per questo che quando, nella primavera del 1969, sua moglie Rita e l’amico Dominique de Roux gli chiedono di tenere un corso per loro, lui non solo accetta, ma prepara scrupolosamente ogni lezione prendendo gli appunti che ora costituiscono questo libro.
 Ma come capita per ogni scrittore “forte”, secondo la terminologia di H. Bloom, questo corso eterodosso e divertente, più che una introduzione alla filosofia moderna, come afferma nella sua pregevole introduzione F. Cataluccio, ci offre “la chiave per rileggere e comprendere tutta l’opera narrativa, teatrale e, soprattutto, diaristica di Gombrowicz,” della quale fa parte a pieno titolo.
Lo si può capire tanto dalla personale ricostruzione storica da lui operata e dall’accento messo su filosofi che hanno riservato molta attenzione all’arte e alla concretezza dell’esistenza e del dolore (Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche), quanto soprattutto dal confronto serrato con l’esistenzialismo, che egli col suo primo romanzo, Ferdydurke, aveva in qualche modo precorso.
Il confronto con Sartre in particolare era d’obbligo per Gombrowicz non solo per dimostrare la propria indipendenza e originalità, ma anche per sottolineare le peculiarità del romanzo rispetto al pensiero concettuale. Infatti, “la filosofia è una cosa obbligatoria”, certo, e la sua necessità è la stessa dell’uomo che si trova costretto a fare ordine e ad “organizzare il mondo in una visione”, ma questo è anche il suo limite: ogni filosofia tende a chiudersi e a fare sistema e non sopporta l’antinomia, che invece nell’arte ha, per l’autore di Cosmo, “la massima importanza”; la singolarità  e il concreto le sfuggono e anche il pensiero più radicale finisce per ritrarsi non solo davanti alla divisione “irrimediabile” tra il soggettivo e l’oggettivo da cui essa pure trae origine, ma ancor di più davanti al paradosso per cui, una volta approdati il soggettivismo, qualsiasi altro soggetto scompare. La filosofia, come l’uomo, tende alla Forma, ma l’esistenza è caos, e quando anche una forma viene trovata il suo destino è di cadere sempre e di nuovo nell’incompleto e nell’informe.
È quindi ancora giusto, e gombrowicziano, che anche il lavoro in cui queste idee vengono esposte non abbia potuto fissarsi in una forma completa perché interrotto dalla morte, il 24 luglio del 1969.


Witold Gombrowicz, Corso di filosofia in sei ore e un quarto, trad. di Liliana Piersanti, Theoria, Roma 1994, pp. 141, £. 10.000



                                  

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