05/11/15

Yasunari Kawabata, Il lago, 1984



Dopo un periodo di ristagno (con la sola, seppur notevole eccezione di Le canzoni di Narayama, di Shichiro Fuzukawa, ed. Einaudi), sembra essersi aperto un momento favorevole per gli amanti della letteratura giapponese: molti nuovi autori sono stati tradotti (spesso per opera meritevole di editoriale Nuova) e altri già tradotti sono stati ristampati, talvolta con l’aggiunta di nuovi titoli. Tra le tante proposte vale la pena di soffermarsi su Il lago di Yasunari Kawabata, non tanto perché sia il migliore, quanto perché Kawabata, con Mishima e Tanizaki e grazie al premio Nobel ricevuto nel 1968, è stato uno dei promotori della letteratura giapponese in occidente. Il lago non è tra le sue opere più riuscite ma offre comunque, oltre all’occasione di riparlare sul suo autore, molti spunti di interesse.
Il racconto, ambientato nel Giappone del dopoguerra, rievocato di frequente come un basso continuo, è incentrato sulla figura di Ginpei Momoi, un ex insegnante di lettere ossessionato dai propri piedi sgraziati e soggetto alla coazione di inseguire le ragazze che incrocia per strada, come per un’ansia di purezza e di bellezza che proprio la deformità dei suoi piedi innesca. Egli intuisce che non potrà mai appagare quest’ansia, anche perché essa sottende una privazione ben più essenziale, e che i barlumi che ne coglie non appartengono a questo mondo, dal quale pure provengono, ma restano circoscritti alla sfera dell’ideale e del sogno, e sperimenta che, ogniqualvolta tenta di trovare uno sbocco reale, finisce con lo sprofondare sempre più nella sordidezza, propria e del mondo.
Come i colori che intravede dai finestrini del taxi, il mondo si divide in due ed egli è condannato alla parte più fredda e negativa: può bensì sporgersi per cogliere momentaneamente l’altra, ma essa gli è preclusa. Può solo venirgli incontro dal di fuori, ma quando entra in contatto con lui viene a sua volta degradata. Gli inseguimenti producono effetti benefici solo finché l’inseguita non se ne accorge (ma all’ambiguo piacere di inseguire fa riscontro quasi sempre quello di essere inseguita) e Ginpei rinuncia a colmare la distanza, come quando appende di soppiatto la gabbietta di lucciole, nella bellissima scena della festa sul lago, alla cintura di una ragazza. Altrimenti, in fondo all’inseguimento non può che profilarsi la figura della morte, la stessa figura (la morte del padre affogato nel lago e quella presunta di una figlia pure presunta di Ginpei abbandonata ancora in fasce) che ne sta forse alla sorgente. Più che i piedi allora, che ne sono come uno spostamento, sono i fantasmi della morte a perseguitare Ginpei corrodendo progressivamente la sua percezione della realtà, che finisce per mischiarsi inestricabilmente con l’immaginazione, i ricordi, i desideri, le allucinazioni e le fobie.
Sulla sovrapposizione di questi piani Kawabata basa il fluire della narrazione, passando dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, secondo linee temporali diverse e in modo che nel loro rincorrersi, richiamarsi e ripetersi, da uno possa nascerne un altro, parallelo, concomitante anche per aspetti in apparenza secondari, e più profondo, come una specie di origine del primo. Si ha però talvolta l’impressione che lo scrittore trovi i vari elementi di volta in volta, quasi per vie casuali. Poi ci si accorge che in qualche modo “fanno sistema”, ma un sistema non perspicuo, enigmatico come il personaggio di cui ripetono insieme le modalità di pensiero e l’incapacità di analisi. Solo che questa incapacità Kawabata pensa bene di colmarla con interventi di narratore onnisciente, con commenti e specificazioni extadiegetiche, senza dubbio chiarificatori per il lettore ma non sempre necessari e talvolta in contraddizione con lo stile dominante del libro e con la sua costruzione: non va a fondo né dell’uno né dell’altro aspetto, cioè.
Il fatto è che, come a tratti sa di psicologia occidentale applicata il personaggio di Ginpei, e anche prescindendo da considerazioni effettistiche (dire una cosa o tacere l’altra ad hoc), è come se Kawabata abbia costruito il suo libro di mano in mano, in modo piuttosto frettoloso e con preoccupazioni strutturali che agendo solo a posteriori risultano forzate e artificiose: troppe sono, ad esempio, le coincidenze e i contatti tra personaggi agenti in sfere e momenti diversi del romanzo.
Ma sono appunto queste preoccupazioni magari eccessive di inquadramento ad indicare, tra le altre cose, quanto sbaglino coloro che parlano di un Kawabata incurante della trama e della caratterizzazione dei personaggi. Non è che manchino gli elementi strutturanti nei suoi romanzi, semplicemente sono spesso situati in luoghi, oggetti, forme e emozioni diverse rispetto alle attese del lettore occidentale. (Basti  pensare allo stupendo esempio di Mille gru, al suo perfetto spostamento di ruoli e personaggi in relazione alla cerimonia del tè e, più specificatamente, ai suoi strumenti, che diventano quasi i veri protagonisti del libro.) Luoghi che nella sensibilità e nell’arte di Kawabata, più che essere legati agli avvenimenti, si traducono immediatamente nel suo stile che ricerca e riprende tradizionali forme poetiche giapponesi e accosta immagini laddove noi siamo portati a instaurare nessi, ma che noi in traduzione (nonostante questa di Lydia Origlia sia al solito ottima) non sempre possiamo cogliere, anche se ce ne rimane, laddove non sono caricati da preoccupazioni estranee, una sensazione diffusa di bellezza, come un’eco.

29-07-1984


Yasunari Kawabata, Il lago, Guanda, Milano, 1984, p. 126, £ 10.000

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