(Premessa: era stanco e teso ecc., lo è sempre più spesso, e allora gli è presa una voglia irresistibile di lasciar perdere, di rinunciare – a cosa poi? – e lasciarsi andare, abbandonarsi. Poi ha pensato: )
Abbandonarsi non è poi così difficile. È come arrendersi: una
tentazione sempre a portata di mano. Anche solo pensarci, a volte. È un piccolo
sollievo. Una soddisfazione. Placida, molle, in genere, solo a volte
drammatica, quasi mai davvero disperata. Sentirsi sicuro, compreso a priori,
non giudicato, accolto senza dover fare niente per meritarlo. Poggiare la testa
su una spalla, nel grembo materno. In un grembo qualunque. E stare lì per tutto
il tempo che si vuole, senza dover chiedere né ringraziare. Senza pretendere,
conquistare, combattere. Solo perché così è naturale, spontaneo, e cioè, almeno
in questo caso, buono e giusto.
Lo chiamano così, ma, per quando gradevole, necessario a
volte, non è un vero abbandono. Il vero abbandono è invece quello che
sopraggiunge dopo avere opposto ogni possibile resistenza, come se ad
attenderci, raggiunto, ci fosse una tortura. È quando si capiscono tutta la
falsità (e la facilità: è lo stesso) che si incarna in ogni cosa o atto a cui
si decide di resistere, e che la resistenza stessa rivela e denuncia come
inammissibile. Quando finalmente si rinuncia a se stessi, e quindi a ogni
compiaciuta, in fondo miserabile, soddisfazione. (Non fossimo uomini. Miserabili, appunto).
È quello che capiscono i condannati e da ultimo lo stesso
ufficiale addetto alla macchina in “Nella colonia penale”, man mano che
l’esecuzione procede, che non a caso consiste nella scrittura. Sul suo
processo. Che rivela mentre uccide. Che sevizia, dilania e dà pace. Che fa
affiorare il ricordo anche di qualcosa che nemmeno si sa di aver commesso, o
solo fatto (è lo stesso), e dimenticato, e dona la sua cancellazione, l’oblio.
Quando non è più espressione, volontà di dire e fare qualcosa. Quando non sei tu a volere, ma ti annulli, scompari, in ciò che è detto e fatto.
Sembra qualcosa di eroico: una lotta, una serie di dolorose
vittorie verso la pace finale, l’apoteosi. Un risultato che probabilmente
nemmeno si saprà di aver raggiunto. Una coppa da cui si berrà.
Ma che senso ha questa negazione? Questo oltrepassamento forse
senza fine? Perché ricercarlo, quando tutto congiura, e alletta, affinché ce ne
si distolga (lo si abbandoni)? Cosa si cerca? Cosa si spera di ottenere? Ma
ricercare, e cercare di ottenere, non è già precludersi di raggiungere? Non è
già interrompere il processo, affannarsi per vincerlo e di fatto soccombervi?
Negarlo e abbandonarlo senza abbandono?
Se poi uno non ha nessuna fede in qualcosa di superiore,
fosse solo (solo!) la verità, che senso ha? È forse l’ultima possibilità per
chi non ha appunto nessuna fede? Per chi sa che c’è “infinita speranza, solo
non per noi”?
È una forma di suicidio in vita? Un’esperienza della morte
per chi non solo non rinuncia a vivere ma pensa (finge di credere) che essa in
questo modo raggiunga il colmo? Che solo attraverso la sua negazione trovi la
propria completezza (il proprio compimento)? Che solo lasciandosi alle spalle
(e con quanta fatica!) ogni volontà e ricerca di senso, che è sempre e comunque
parziale perché è nella parzialità e differenza che il senso si dà, si possa
attingere un qualsiasi senso totale e definitivo?
Una specie di trascendenza immanente? Di immortalità al
centro, al colmo, della mortalità?
Tutte cose che fanno paura. Tanto più che si sospetta sempre
(si sa), che sono solo parole, pie illusioni. E quindi un’altra resistenza da
opporre, un altro abbandono a cui non inchinarsi, un’altra scusa per
distogliersi, per rinunciare e accontentarsi dei piccoli piaceri, e anche dei
mediocri godimenti, della soddisfazione del dolce abbandono.
Ma non è cercare la grande soddisfazione, il grande
abbandono, il miraggio del grande senso a muoverci, a indurre a non cedere, a
far sentire ogni rallentamento e deviazione come la massima debolezza, una
colpa, il peggior tradimento (verso chi?): è che non se ne può fare a meno. Che
c’è una specie di dovere, di obbligo (verso chi? verso se stessi? il vero
sé?, ma per favore!), una forza irresistibile che non sopraggiunge su (in) chi
la prova, non lo investe da sopra, e nemmeno da dentro, ma è chi la
prova; che ad essa, allora, non può sottrarsi, a meno di morire. Di essere
davvero morto.
[…]
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