18/09/25

Kafka, Diari, 20-1-1922 , vol. II p. 207 (Mia vecchia ediz. BMM)


 

“come se acquistassi il vero senso di me stesso solo quando sono insopportabilmente infelice. Ed è anche giusto che sia così.”

La prima frase suona convincente e vera. E non si può dubitare che così Kafka si senta, dal momento che lo scrive. Però mi sembra, quanto a ciò che dice, vera solo in parte. Perché l’infelicità, quando è insopportabile, se non annienta completamente la possibilità di pensare proprio in quanto insopportabile, tanto da non lasciare margine per nient’altro al di fuori di sé, può davvero portare a conoscere se stessi per avere allora raggiunto il proprio limite estremo, così che ci vediamo in modo radicale, privo di orpelli e superfetazioni morali o razionali, come ridotti al nocciolo essenziale del nostro essere nella vita, alla sua verità nuda e cruda. Ma che sia anche giusto, al di là del fatto che Kafka trova giusta ogni umiliazione e punizione e quindi ogni sofferenza, vero non è: nel senso che non c’è nessuna giustizia, nemmeno per chi si sente assolutamente colpevole, nell’infelicità, tanto più quando è estrema, al colmo della sua insopportabilità; e poi perché non può esserci senso vero senza quelli che sono ritenuti aspetti esteriori o superficiali o accessori, come la ragione e la morale ecc., senza i quali nessun discorso o definizione di verità può darsi né pensarsi. E infine perché un vero senso non si dà, tanto più unitario e immutabile, non soggetto ai continui mutamenti di ciò che sentiamo come noi stessi, se non come illusione prodotta dall’insopportabilità del dolore, che allora diventa un po’ meno insopportabile, dal momento che quanto meno elargirebbe la percezione del vero senso di se stessi. Cioè un po’ di consolazione. Resta vera solo l’insopportabilità percepita, la percezione di aver raggiunto una soglia oltre la quale non si può andare.

E però si va. Ci si tiene il dolore, si sta nella sua insopportabilità che prima o poi finisce. E allora si muore. O si allenta. E allora si scrive.

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