24/04/14

Nella cripta (pardon, nella cappella)


a Lucetta Frisa e Marco Ercolani

Stavo passeggiando con calma per le stradine spopolate di un quartiere della città vecchia: uno di quelli non ancora bonificati da topi, drogati, puttane e immigrati, con le sgrinfie delle immobiliari già nei fianchi o alla gola, ma con i pochi lavori di ristrutturazione lasciati in sospeso o che procedono a rilento per mancanza di fondi. Un quartiere non ancora nobilitato da facciate color pastello, con frammenti di vecchi affreschi messi in bella evidenza, né dalle boutique grandi marche, e medie e piccole e infime, e neppure (il che è tutto dire) da osterie e  trattorie neotradizionali e ristoranti segnalati da questa o quella guida, almeno una per ciascuno, con avvicendamenti e conseguente moltiplicazione da un anno all'altro, abbastanza da schermare la porta a vetri e tappezzare gli stipiti. La mia meta era il Museo diocesano, con la sua ricca collezione di sculture in legno, crocefissi tarlati che sembrano ritratti sputati di assassini e maniaci reali, messi alla fame da reclusioni durissime e piagati da torture puntigliose, come se gli artisti della regione avessero deciso, tutti però, dal primo all'ultimo, che i veri poveri cristi erano loro. Le vittime si dimenticano, i criminali restano. Non foss'altro nella memoria: come se ricordarli servisse a qualcosa. Magari è solo perché quegli artisti straccioni, inchiodati alla loro terra come Cristo alla croce, avevano agio di studiarli meglio, in quei tempi di esecuzioni festose e di cadaveri esposti a purificare l'aria da crimini e peccati. E poi si sa: si abbassa l'altissimo per proiettarlo più in alto ancora. Nello spazio oltre l'altezza. Il resto sprofondi pure. (Salvo ripescaggi esemplari: estratti a sorte dalla sorte in persona. Eletti. Salvati. Saranno contenti.)
Io, canticchiando le canzoni in cuffia, mi muovevo con la bella andatura da scioperato che sono venuto acquisendo senza il minimo sforzo negli ultimi tempi. Lo scioperato non ha fretta e non guarda l'orologio, pronto a lasciarsi catturare da qualsiasi cosa, in teoria, ma da pochissime in pratica: perché il suo sguardo fluttua, accarezza, e si ferma solo se il richiamo esterno, o la casuale eco interna, sono davvero inevitabili. Perché l'attenzione è fatica. Pesantezza. Anche se poi è bella. Scomposta nell'analisi si alleggerisce; composta in un lampo, nutre il respiro. Azoto! Iodio! Forse è solo la vicinanza del mare, però. Per quanto, a ben guardare, l'inaggirabile di solito non è che un capriccio, uno stimolo subpavloviano, un'occasionale, istantanea devianza ormonale. Un errore chimico. La chimica dell'errore.
Va be'..., passando davanti a una chiesetta, ho letto la targa che segnalava un trittico fiammingo e sono entrato a cercarlo. Un'opera sola, in una chiesa appartata, da vedere con calma e certamente in solitudine, è cosa buona e giusta (: avevo tempo). Tanto più che ultimamente i fiamminghi hanno preso a piacermi. Qualcuno, perlomeno. Acquisizioni che addobbano il declino. Questo era uno di quelli in bilico, di valore alterno: motivo in più per verificare. Magari ci scappava la sorpresa. Che poi è arrivata davvero; ma diversa da quella attesa: una sorpresa vera e propria, quindi.


Entro. La chiesa è deserta e buia, anche se fuori il sole di mezzogiorno sfolgora radioso nell'aria tirata a lucido dalla brezza marina. Stucchevole come tutti gli idilli; ma pur sempre idillio. Io me lo tengo: a togliere lo stucco ci penso io, semmai. Se qualcuno vuole la mia fetta di dramma, o di tragedia (nientepopodimenoché!), si accomodi pure. Mi dirigo verso il piccolo locale sulla sinistra dove è esposto il trittico, protetto dal sistema di sicurezza di ordinanza. La chiamano cappella, ma è un oratorio, cioè quel che resta di un oratorio barocco della corporazione dei falegnami, ora però arricchito da varie opere estranee. Attraverso spedito una porta di normali dimensioni, spalancata, e mi piazzo senza indugio davanti al trittico ben illuminato. Osservo con diligenza l'insieme per qualche minuto, poi approfitto della solitudine per scattare alcune foto anche se non si potrebbe. E' una piccola illegalità che arrischio appena ne ho l'occasione, e talvolta creandomela con faccia tosta, scusandomi con espressione contrita quando il guardiano accorre per dirmi che è vietato, per riprendere nelle sale successive a ogni cambio di guardiano (a meno che uno dei precedenti abbia avvisato i colleghi o mi segua passo passo). Non me ne vanto: è che non trovo quasi mai le riproduzioni delle opere che mi interessano, e soprattutto nessuna dei dettagli che mi attraggono o di cui ho bisogno per qualche cosa che ho scritto o avrei intenzione di scrivere (la vaga intenzione, mica di più). In merito, ho anche elaborato una proposta da presentare ai sopraintendenti, ma senza inoltrarla. Non ancora. Ho di queste timidezze. (O è il senso della vanità; lo sfinimento...)
Dunque, scatto molte foto, controllando sullo schermo come escono perché l'illuminazione si riverbera sulla tela e il flash non lo voglio usare (mi do dei limiti). Uso vari gradi di zoom e cerco, a costo di piccole distorsioni, le angolazioni meno disturbate dai riflessi: insomma, traffico non poco, mi affanno e agito quanto il luogo e la contemplazione estetica concedono (la contemplazione!), quando mi sembra di avvertire rumori come di una porta che viene accostata e inchiavardata e dei passi leggeri e veloci alle mie spalle. Ficco lesto la macchinetta in tasca e, senza voltarmi, mi avvicino con nonchalance alla sbarra di protezione come per guardare meglio. Per dare a intendere che voglio solo vedere meglio. Intanto, è un attimo, sento un'altra porta aprirsi e chiudersi, una chiave che gira e i faretti del trittico che si spengono. 


Penso sia un modo per punirmi perché stavo fotografando (il senso di colpa...: strano!), ma subito mi accorgo che sono state spente anche le altre luci della cappella. Mi volto, scorgo nella penombra le due porte chiuse e finalmente realizzo: mi hanno chiuso dentro! Mi precipito verso la seconda porta, afferro la maniglia, la scrollo, e poi do uno scossone, e un altro, e altri tre o quattro ancora, sempre più forti, alla porta vetrata, chiamando ad alta voce chiunque possa sentirmi. La persona che mi ha chiuso lì dentro non può essere lontana. Quanto sarà passato? Cinque, sette, dieci secondi, non di più...
Il silenzio tutto attorno è totale, e la mia voce e i rumori della porta strapazzata rimbombano nei locali adiacenti. Nessuno risponde. Perciò torno alla porta che separa dalla navata, che consiste di una spessa intelaiatura d'acciaio chiusa da una robusta serratura, a cui sono connesse, solo accostate in questo momento, due ante di vetro che immagino infrangibile o antiproiettile, oltre le quali si vede una porzione della chiesa sempre più buia. Ci sono solo, qua e là, alcune fiammelle di candele elettriche di pochissimi watt, che certamente andranno a  spegnersi presto a seconda delle offerte. La città è nota per la sua parsimonia. Mi aggrappo all'inferriata e lancio la mia voce anche da lì, con toni sempre più acuti, anche se non isterici (non ancora), che, invece che amplificati, si perdono nelle navate, smorzati dalla profondità e dall'altezza del soffitto a tutto sesto, soffocati negli angoli più lontani. Morti nella distanza. E poi la mia voce non è forte: le corde vocali sono ancora sfibrate e infiammate da decenni di fumo e lezioni in classi rumorose. Più di tanto non esce. E comunque nessuno potrebbe rispondere. Niente e nessuno. Ho levato la mia voce nella chiesa e nessuno ha risposto.
Allora torno alla seconda porta, che immagino comunichi con la sacrestia o la canonica, la scuoto di nuovo con forza, busso con tanto impeto che un ingenuo sarebbe portato a credere che la voglio sfondare, grido un'ultima volta se c'è qualcuno (un'ultima serie di volte), e infine desisto. Tanto vale farsene una ragione: sono intrappolato. Prigioniero! Mi hanno chiuso dentro e dovrò restarci chissà quanto. Solo e al freddo. Fame ancora non ne sento, anche se ho fatto solo una leggera colazione alle sei, prima di partire per questa ospitale città.
Aspetto qualche minuto a riprovare, sperando che il prete o il sacrestano o il custode, o chi diavolo era (il diavolo!), torni a farsi vivo, a portata di orecchie dei miei richiami, e poi, invece di dare in escandescenze, decido di telefonare alla coppia di amici che mi aveva invitato in questa città con la scusa di presentare il mio ultimo libro, come se potesse interessare a qualcuno (in realtà perché volevamo vederci, come se per questo ci fosse bisogno di una scusa). Né a casa né ai cellulari risponde qualcuno. Non lascio nessun messaggio per non allarmarli (si preoccupano per un niente: è gente così, abbastanza bislacca; gente che mi vuole bene: bislacca, appunto). Forse le chiamate non sono nemmeno partite, perché non c'è campo. O i muri molto spessi schermano. O sono io che boh, non so, non so fare, non ci capisco, non capisco, né questo né altro. Niente.
Mi conviene pazientare. Cosa che peraltro so fare benissimo, senza tema di smentita. Stare nella pazienza, che magari fiorisce. Ne approfitto per guardare meglio la cappella. Contro la parete di fronte all'ingresso c'è un altare sormontato da una pala di nessun conto impaginata tra colonne tortili e altra cianfrusaglia barocca, di un barocco tardo, esausto, e perdipiù da squattrinati, o da tirchi che vogliono sfoggiare il lusso spendendo il meno possibile. Ai suoi lati, due finestre sbarrate e dai vetri opachi, oltre che sporchi, da cui piove una luce povera e, con il passare dei minuti, sempre più risicata (ma allora è una mania!). Accanto a quella di destra, dove il muro si piega ad angolo, c'è un alto sedile in legno, come uno stallo di coro, di un coro ascetico però, da ordini mendicanti dei primordi: alto di schienale ma con il minimo contrattuale di decorazioni e intagli: che in un oratorio di falegnami non è il massimo della pubblicità; diciamo essenziale e non parliamone più. Devo fare il punto, pensare. Vado a sedermi sul trono, che seduti, in queste circostanze, si pensa meglio. Chissà quanta gente c'ha meditato lì sopra. E sonnecchiato. Che sia per questo che non provo la benché minima ansia? Anzi, mi è scesa una calma sovrana, e addirittura, se non cominciassi a sentire qualche lieve avvisaglia di fame, direi che sono in perfetta letizia.

Mi guardo attorno, per il poco che si può vedere nella luce sempre più fioca. Quella residua che proviene dalla chiesa proietta sul pavimento bianco e nero (come nei quadri di Vermeer, ma con le mattonelle più piccole e, quelle nere, tagliate agli angoli in modo da formare ottagoni: quindi non come in Vermeer) l'ombra delle sbarre della porta inferriata, con bell'effetto carcerario. L'unico raggio un po' forte va a centrare, lì accanto (non invento nulla: vedi foto), la targhetta di ottone sopra la cassetta trasparente delle offerte, manco a dirlo pochissime. Se fumassi ancora, avrei con me il vecchio accendino con la pila incorporata, ma ormai sono sei mesi che, lo ribadisco, ho smesso (la lingua batte dove il dente duole) e posso godermi i benefici della virtù (dell'astinenza), al buio ma con gli ectoplasmi di visioni che essa (l'astinenza, non la virtù: a meno che non siano la stessa cosa) a volte produce.
Scatto alcune foto (con il flash) al locale e poi decido che la cosa migliore che posso fare, nell'attesa che la situazione si sblocchi (se si sbloccherà), è scrivere ciò che mi sta succedendo. Qualunque cosa sia. (Quando scrivo, la cosa che sta succedendo è che scrivo.) Accavallo le gambe, appoggio il quadernetto alla coscia destra e comincio (ho già cominciato da un bel po', a questo punto: avendo tempo, l'ho presa larga; comincio a scrivere la storia alla metà della storia: ora, quando ancora sta accadendo e non ho idea di come andrà a finire). Così scomodo, e nella penombra, le lettere tremolano, si aggrovigliano e si sfaldano. Come mi sembra che facciano i muri della chiesa in questo momento, con qualcosa che cade, calcinacci o altro, non capisco se dentro o fuori. (Ma io non cedo: continuo con questa scrittura aggrovigliata e sfaldata; racconto, lascio testimonianza per quando troveranno il mio cadavere tra le macerie, il mio scheletro, con questo quadernetto giapponese accanto: scritto in italiano però.)

Mentre scrivo le candele nella navata di fronte si spengono ad una ad una, ma in compenso sento, o immagino di sentire, rumori di porte, o portoni, o portiere, che sbattono, di masserizie che vengono spostate, frammenti di voci, come di gente che passa veloce o alza a tratti la voce e subito la abbassa, la smorza o tace, ma sono tutti fuori, dall'altra parte, nel vicolo accanto alla chiesa. Dalla mia nulla. Qualcosa scricchiola nella presunta sacrestia o canonica; ogni tanto un telefono squilla a vuoto, ma per il resto l'unico rumore è quello del mio corpo che accompagna la mano che scrive e si trasmette allo stallo (o è una sedia curule?) su cui sono scomodamente seduto, messo un po' di traverso per favorire la caduta della miserabile luce della finestra sul quadernetto.
Mi raddrizzo un istante per far riposare la schiena, le gambe accavallate, e guardo la parete alla mia sinistra. Subito accanto, oltre a una statuetta colorata di Santa Rosalia che, persa in una contemplazione tutta sua all'interno di una campana di vetro, non si curerebbe di me neanche se potesse vedermi (è l'egoismo dell'estasi: mi fa una rabbia!), c'è un bassorilievo con Madonna e Bambino che attira la mia attenzione. Non perché sia chissà che, ma per la normale deriva dello sguardo che, alzatosi dopo una lunga concentrazione, o non vede niente perché è ancora come rivolto in dentro, o si fissa sulla prima cosa in cui si imbatte e vi proietta a volte la risacca dell'onda che stava cavalcando e altre la sorpresa di una visione che si immagina pura (che immagina sé pura). Dalla mia angolazione, sempre per ciò che la penombra mi consente di vedere, la Madonna ha la testa piegata nel gesto classico della tenerezza contro la testolina del Bambino, che ha la mano alzata a benedire, con l'indice e il medio ritti e le altre dita chiuse: se non che, da dove mi trovo, scorgo solo il medio (il medio! l'infame!) che, leggermente inclinato, punta verso di me, quasi a segnalarmi qualcosa, o a segnalare (a accusare) me a qualcuno, anche se il suo sguardo è dritto in avanti, mentre quello di sua madre è tutto per lui, senza pupille, eppure (mi pare) dolcissimo e malinconico. Si sa come vanno queste cose. La fine inscritta nell'inizio. La croce nella culla. Il sudario nel panno infantile. 


Il pensiero della fine, e questa dolcezza malinconica, sono anche per me? E' questo allora che mi indicano le dita del bambino? Oppure che qui dove sono, finirò? (Poi, quando mi alzo e guardo meglio, il bassorilievo rivela tutta la sua mediocrità: la mano del bambino sembra alzarsi a tirare una di quelle cordicelle con la nappa - in realtà, qui, una piega maldestra del classico tendaggio di sfondo - che si usavano una volta per chiamare la servitù, mentre gli sguardi del Bambino e, soprattutto, della Madonna mi appaiono ora un po' ottusi, come di qualcuno indietro di comprendonio: ma quello forse, qui, ora, o sempre, per sempre, sono io.)
Intanto i rumori fuori, dall'altra parte, in lontananza eppure netti, continuano. Calcinacci, tegole, mattoni che cadono, detriti spostati senza essere portati via; portoni scrollati con forza, che non si aprono e poi cedono, invece di spalancarsi, e cadono pesantemente a terra; e altri rumori indefiniti, voci, guaiti, lamenti terminali non so se di esseri viventi o di macchine o cose; trapestii veloci, furtivi; corse o fughe disagevoli, che si interrompono e subito ripartono... O sono solo normali rumori che il mio completo isolamento, il prolungarsi indefinito della reclusione, amplificano (o stanno addirittura inventando)? Non mi sembra di essere agitato o impaurito: resto sereno. O così credo: cioè mi impongo. Come mi impongo di ispezionare di nuovo, meglio, nel dettaglio, la cappella (la cripta?) dove sono chiuso.
Prima avevo guardato tutto (tutto ciò che si può vedere in questo semibuio), meno il trittico per cui ero entrato. Ora mi concentro sulla sua massa scura sulla parete più buia del locale, e vedo, al suo interno, solo la forma confusa di alcune figure che sembrano sporgersi dalla superficie, come a voler uscire. Se fisso lo sguardo per guardare meglio, mentre degli elicotteri sorvolano la chiesa, e poi il quartiere e la città e si allontanano veloci, ho anzi l'impressione che i due santi delle ante laterali stiano proprio uscendo, lasciando Madonna, Bambino e Magi, con il loro corteo di servi e di figure minori, insignificanti, committenti inclusi, al loro destino. (Al loro nero destino.) Allora, per bloccare la loro sortita, per tenerli lontani da me, chiusi anch'essi nella loro prigione, distolgo lo sguardo e lo dirigo al pavimento. Conterò le piastrelle. (Strano che mi decida solo ora, di solito è una delle prime cose che faccio.) Sono trenta in lungo e trenta in largo: dal che si deduce che il locale è quadrato. Una bella consolazione! La regolarità mi fa questo effetto, prima di annoiarmi. Non l'avrei mai detto però; ma me lo spiego subito (in questi frangenti spiegare è fondamentale: un'esigenza assoluta!): non l'avevo notato perché il locale, come le piastrelle nere, ha gli angoli smussati, ma in modo da non formare un perimetro perfettamente ottagonale. Le piccole furbizie del mestiere. Anche il più umile artigiano le conosceva, una volta. Ora, per esempio, geometri e architetti, ne fanno gloriosamente a meno. Le loro creazioni, o sono mirabolanti o nulla. (Non ho opinioni in merito.)
Mentre conto, noto nel pavimento davanti all'altare una lastra di marmo di quasi un metro quadrato, con al centro e all'incrocio delle lunghe tibie di prammatica un bel teschio smascellato, sormontato dalla scritta "pro cunctis adscriptis". Provo a tradurre: a favore, in suffragio, di tutti gli iscritti (sarebbe gli ascritti, o i reclutati, alla lettera; i registrati; ma anche: coloro che fanno parte, per es. della gleba: adscriptus glebae... Gli appartenenti alla congregazione dei falegnami, in questo caso? O tutti coloro che, come me, sono qui?). Non una pietra tombale vera e propria, perché non credo che ci sia sepolto qualcuno lì sotto, anche se sotto i pavimenti delle chiese più antiche i morti formicolano. Ma allora come intenderla? Un promemoria? Un ricordo? Una preghiera minerale? Un auspicio? (Per chi? Per me, anche?)


Torno a sedermi, a scrivere a memoria, senza poter leggere, queste ultime cose. Poi appoggio biro e quaderno sul sedile e la testa contro lo schienale, improvvisamente molto stanco. Forse la tensione che non avevo finora avvertito (che finora avevo fatto finta di non avvertire: che avevo tenuto a bada) si sta prendendo le sue rivincite sotto forma di stanchezza. Sono quasi le tre, è sempre più buio, e all'improvviso ho fame, e freddo. Molto freddo. Rumori non ne sento più, a parte cigoli di porte che si aprono e chiudono lontane, in fondo alla via, o forse solo nella mia testa. Nessuna voce umana. Nemmeno la mia. Non provo a articolarla per timore di verificare che non esce, che si è estinta, che non c'è più (anche lei).
Respiro piano, mi abbandono alla stanchezza, alla tentazione del sonno che cresce. Il viaggio, le ultime notti che ho dormito poco o niente, il braccio che mi fa male, la testa che pesa, gli occhi che si chiudono. Ho sonno e non ho voglia di resistere. Vado sul rialzo davanti all'altare, proprio di fronte alla lastra bianca, mi sdraio, accucciato, le ginocchia piegate e le braccia incrociate sul petto. 

(A un certo punto, ma forse è un sogno, sento il rumore di una chiave che gira: una porta si apre e entra, trafelato, un prete. Si avvicina al mio corpo ancora sdraiato, si piega su di me e mi chiama, allarmato perché non rispondo. Io apro gli occhi, lo guardo e mi alzo piano, mentre lui non cessa di manifestare la sua costernazione. Mi chiede se sto bene, non sa più come scusarsi. Allora io lo prendo a braccetto - ai preti piace, lo so per esperienza - e lo rassicuro. "Non si preoccupi. Sto bene, stia tranquillo. Sono cose che capitano. Sono io che mi scuso, anzi. Le sono grato, persino... Venga, che le offro da bere: le sono debitore di una storia.")

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