27/05/14

Un rapinatore solitario




Per un po’ si era adattato all’infelicità standard: si era sposato e aveva trovato un lavoro regolare. Faceva l'idraulico; in proprio: non sopportava che un altro gli dicesse cosa fare, come e quando. Al massimo, credo, la moglie. Per un po'. Lo rassicurava, sembra. Aveva una casa, guadagnava discretamente, beveva di meno e si era lasciato crescere un po' di barba. Ma poi, all'improvviso, se n'era andato, e era tornato a fare le stupidaggini di sempre. Sporadiche, non premeditate, come l'esito scontato di un'agitazione fisiologica.
Rubava solo soldi: roba spendibile direttamente, subito e senza intermediari. Non si sa nemmeno se toglieva la sicura alla pistola, o se ce l'aveva, la pistola, nel rigonfio in tasca. Gli era  venuto l’estro del rapinatore solitario. Non per l’aura romantica: non ci arrivava; più in là di fare subito quel che gli passava per la testa, e da solo, proprio non era capace di pensare.
A volte fuggiva a piedi, o in bici, se ne trovava una all’uscita dell’ufficio postale o della filiale di banca di periferia, bici che abbandonava quasi subito, per poi incamminarsi tra la gente come se niente fosse. Allora non c'erano telecamere a circuito chiuso, o le avevano solo nei luoghi importanti, dove girava il denaro vero. Lui restava nei paraggi e si allontanava solo più tardi, quando le ricerche si erano spostate altrove. Un paio di volte però lo hanno riconosciuto che si beveva tranquillo un grappino in un bar di una via laterale. Non la polizia: qualche cliente che aveva assistito alla rapina.
L'ultima volta che lo hanno preso, prima che lo ammanettassero ha chiesto gentilmente se poteva finire il cicchetto. Non so se l'hanno accontentato. Io gli avrei pure fatto compagnia.

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