04/07/14

Il dottore che leggeva poesie agli alberi

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 All’inizio non si preoccupava nessuno. Pensavano che fosse come ai tempi dell'immediato dopoguerra, quando partiva in bici dalla città e andava a visitare a domicilio i "suoi" malati su e giù per le valli, che quando si faceva troppo tardi, o c'erano temporali o nevicate, si fermava a dormire in qualche baita, o in una delle vecchie locande sopravvissute ai disastri del conflitto. Era specializzato in otorinolaringoiatria, ma oltre a lavorare in ospedale e ricevere nel suo studio in città tre pomeriggi la settimana, a volte andava lui dai malati, sia perché, essendo insufficienti i servizi di trasporto pubblici e scarsi i mezzi privati, altrimenti gli sarebbe sembrato di trascurarli, sia perché pedalare e girovagare in montagna gli piaceva proprio. Non era raro che si fermasse anche nei weekend, appunto per abbandonarsi ai suoi vagabondaggi solitari per boschi e valli, lungo percorsi poco noti, se non a qualche valligiano o pastore o bracconiere o contrabbandiere, o che lui stesso per primo tracciava e registrava. Anche se non portano il suo nome, come invece sarebbe giusto, non sono pochi i sentieri sulle mappe di quelle montagne da lui praticamente inventati o almeno valorizzati.
Nonostante gli anni avanzassero, si intestardiva a esercitare ancora come in passato, e non rinunciava a molti suoi pazienti di alta valle, coetanei o addirittura più anziani, che col tempo erano diventati suoi amici: quelli con cui aveva imparato i segreti delle montagne e dei boschi; quelli con cui andava a sciare di notte tra gli alberi, alla luce della luna riverberata dalla neve, dopo che i figli, crescendo, avevano trovato la forza di rifiutarsi di seguirlo, quando ormai la paura di affrontarlo era diventata minore di quella provocata da quelle uscite, specie invernali, che da piccoli li avevano persino divertiti (non così la madre e moglie, che riusciva a stento a trattenere presso di sé il figlio minore, giusto per salvarne almeno uno dalla catastrofe quasi certa).
Niente era più bello e meno pericoloso che sciare di notte nei boschi, secondo lui: si sentivano gli spiriti benigni degli alberi che li accompagnavano e li proteggevano, non c'era niente di più sicuro! E i bambini erano d'accordo, amavano queste sortite e chi all'improvviso le decideva. L’avventura, le storie vere o inventate che raccontava, le cose che uscivano dal buio, tutte vive, le presenze che giocavano con loro, estranee e confortanti, meravigliose e realissime. Poi crescendo avevano dimenticato: erano rimaste solo le paure prima e l'insofferenza poi; infine avevano dimenticato anche quelle.
Ma lui non aveva mai smesso. Anzi, con il passare degli anni le sue convinzioni si erano rafforzate. Soltanto in montagna, sui sentieri deserti, nelle piccole vallate, vicino a pozzanghere che solo lui chiamava laghetti, e soprattutto nei boschi, a contatto con gli alberi, si sentiva bene.
Finito il suo giro quando ancora esercitava, o salutati gli ultimi amici valligiani dopo la pensione ritardata quanto più possibile, partiva, ma invece di tornare a casa prendeva un sentiero e si lasciava guidare dall’estro. E quando era stanco si fermava nelle baite abbandonate, capanni diroccati più che altro, o direttamente nei boschi, e spesso parlava agli esseri che lo accompagnavano o di cui percepiva la presenza nascosta, e con le piante, che gli rispondevano, quando non erano loro stesse a prendere l'iniziativa, a interpellarlo e a chiedergli di fermarsi lì con loro, anche a dormire sotto ai loro piedi, o protetto dalla macchia, o in qualche baita o capanno di cacciatori che gli indicavano misericordiose. Non vedi come è bello qui?, come si sta bene?, gli sussurravano, cosa vai a casa a fare?, resta qui, leggici ancora una poesia, l’aria è dolce, l’erba morbida... hai forse fame o sete? e lui, No, no, rispondeva, non mi serve niente, sto bene così... e si fermava lì, a volte anche due o tre giorni, e recitava come in un sussurro, in una carezza, poesie e racconti e riflessioni di scrittori magrebini o africani, o di popoli che ancora subivano l'incanto della natura, che lui aveva trascritto su foglietti che teneva sempre in tasca. In certe particolari occasioni, con un dono che lo commuoveva alle lacrime, erano le piante stesse, o il bosco, o la neve o qualche prato o ruscello a dettargli qualcosa, in risposta, o come ringraziamento, perché lassù vige la reciprocità, o meglio: il dono a perdere, e lui trascriveva anche quello, e poi lo leggeva, assieme al suo raccolto personale, a amici e conoscenti spesso spazientiti, e in particolare al suo consulente finanziario, con cui era stranamente in sintonia, e che appunto per questo andava a trovare ogni mese più per chiacchierare che per fare il punto su risparmi e investimenti, peraltro oculati. E poi a tutti quelli che avevano la benevolenza di ascoltarlo, gente che a volte trova nella natura e nei suoi derivati una compensazione all'aridità del suo lavoro: ovvero a quella che gli altri considerano tale, trascurando le persone con cui si entra in contatto e le storie che si vengono a conoscere: splendide anche quando chi le ha vissute è un cretino patentato, incantevoli se è un'oca giuliva, una vedova rigenerata dal lutto.
Era un uomo magrissimo, di statura media, sempre abbronzato, o con la pelle bruciata dal gelo, spesso accompagnato, in città ma in qualche caso anche nel suo giro di visite, con un canelupo più vecchio di lui. I suoi movimenti erano elastici, scattanti ma non nervosi; lo sguardo mobile che poteva però imbambolarsi su un fuoco invisibile per qualche secondo, per poi riprendere il filo della realtà come i suoi pensieri. Parlava con cadenza delle valli molto accentuata, fortemente aspirata, si sarebbe detto antica, che conferiva credibilità a ciò che raccontava in ragione stessa dell'autorità della lingua, così distante nello spazio e nel tempo.
Ha continuato a vivere così fino a più di 80’anni, nonostante dopo la pensione moglie e figli lo implorassero di smettere, di essere prudente, arrivando fino a nascondergli le chiavi della macchina (come se non esistessero i taxi o i mezzi pubblici, che lui preferiva perché meno controllabili), o addirittura al sublime sacrificio di offrirsi di accompagnarlo nelle sue escursioni, se almeno le avesse limitate ai fine settimana. Temevano per la sua salute, che si smarrisse, che perdesse il controllo del corpo e della mente, che invece aveva saldissimo. Tremavano del freddo che lui non avvertiva, si svegliavano con gli incubi che a lui il sonno non avrebbe mai portato, sentivano i morsi della fame e delle sete che non lo avevano mai tormentato.
Lui allora ogni tanto cedeva, o fingeva di accontentare le persone che amava, ma poi non resisteva al richiamo di tutti gli altri esseri che lo amavano, e partiva. Negli ultimi anni aveva preso un cellulare che accendeva solo per inviare messaggi rassicuranti, senza badare a tutti quelli che si accumulavano nell’archivio degli sms o nella segreteria. Il canto più suadente era quello degli alberi, le storie più incantevoli quelle che loro gli raccontavano, le poesie più belle quelle che gli restituivano con il loro ascolto quando lui gli leggeva le sue.
E’ morto per un banalissimo incidente domestico che gli ha causato un trauma cranico. Forse avevano ceduto le ossa. Non so... Non mi mancano le sue storie, quelle le conservo: mi manca la sua voce.
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