22/07/14

Patria (Ecco: non credo)


 
Mi spiace, ma come molti, forse come l'italiano medio, ho sviluppato fin da piccolo una grave allergia verso la parola patria e non ho ancora trovato il modo di guarirne. Non l'ho nemmeno cercato, a esser sincero.
L'allergia si estende a tutte le parole che hanno la maiuscola, o la contengono implicita. Mi irritano, sbocciano immediate eruzioni cutanee che preferirei evitare. Non le capisco, e ancora meno capisco i loro significati. Quando mi capita di incocciare in qualcuno che le usa, non so mai di cosa stia parlando davvero. E se mi sembra di capire qualcosa, è tutta roba che non mi piace. Sento sempre puzza di bruciato (se proprio va bene, il bruciato della retorica, anche di segno negativo). No, grazie. Con tutto che ho studiato filosofia e sono legatissimo (ma anche distantissimo)  al luogo e alle persone che mi stanno attorno. (La patria potrebbe essere questo, ma non credo lo sia.)
Del resto ci penso poco e non mi viene in mente nessuna ragione per farlo, se non per amicizia qui. (Anche l'amicizia potrebbe essere patria; sarebbe bello, ma ancora non credo. Ecco: non credo.)
Patria ha un senso, forte quanto vago, solo per gli emigranti, che però raramente usano la parola: gli emigranti esterni e interni, quelli che stanno via, fuori, anche quando stanno dentro. Quelli esterni di solito dicono "il mio paese", e spesso lo intendono alla lettera come il villaggio d'origine, con gli immediati dintorni al massimo. Del Paese invece, molti, specie oggi, si vergognano: non conosco una persona che abita all'estero che oggi non sprofondi quando amici, vicini, compagni di lavoro e conoscenti occasionali gli dicono: "Ah, sei italiano. Quel Berlusconi..." (E fosse solo per lui! Che è già parecchio...) Negherebbero di esserlo, come San Pietro, se potessero. Con identica vergogna per la negazione.
Se proprio devo passare a un livello un po' più generale, penso non alla Patria ma all'Italia, che è una designazione geografico-culturale dai bordi sfrangiati e poco più. Fosse meno, mi piacerebbe di più.
L'Italia (la Patria), come stato-nazione che oggi celebra i 150 di vita, sappiamo tutti come è stata fatta, e cosa ne è stato dopo. Una "necessità" storica, ai tempi; uno stato transitorio oggi: inglobata come sarà fra poco, da una parte, in qualche organismo più ampio, e frammentata, dall'altra, in unità più piccole, a loro volta arbitrarie e egoiste. E miopi, come sono sempre state in passato, con tutta la gloria che alcune hanno saputo produrre. In mezzo poche cose buone, come la Costituzione, e molte nefaste, come oggi. (Patria sarebbe allora ciò che dobbiamo difendere contro i barbari interni? contro i delinquenti che stanno distruggendo e svendendo il poco di buono che nonostante tutto il passato ci ha tramandato?)
Trovo solo definizioni per via negativa. Ciò che dovrebbe fornirmi un'identità, Patria o Italia che sia, ne è a sua volta sprovvista. (E meno male.)
Non mi identifico. Non le appartengo. Non sento di appartenere a niente e a nessuno, tantomeno a me stesso.
Se guardo cosa mi resta della patria, ridotta all'osso, scrostata da tutte le sozzure che le sono intrecciate, e direi quasi che in buona parte la costituiscono, l'unica grande cosa è la lingua. Non è un'osservazione originale, ma è così: la mia patria è la lingua, dialetti inclusi.
Considero patria tutto ciò che ho dentro e non si può estirpare, da qualunque fonte e luogo provenga. Ciò che ho dentro dall'inizio e ciò che mi è entrato nel tempo e mi ha fatto quel che sono. Reticoli. Allora non ho una patria, ne ho molte. Ho dei reticoli multidimensionali di patrie, alcuni dei quali avvolgono il globo, altri pochi chilometri quadrati; alcuni sono fatti di luoghi, di materia; altri di cose, di opere e di parole; alcuni sono immersi nel passato (i morti), altri nel presente, pochissimi nel futuro (immaginato); sono tutti crivellati di buchi, da dove passa anche il respiro; alcuni sono radi, altri più fitti: più si avvicinano a me, più sono fitti, anche se non è detto che quelli più radi siano meno forti. Le patrie che ho e che amo sono queste.


Foto: 1. Luciano Fabro - Italia Cosa Nostra (1968-71)
2. Luciano Fabro - ItaliaFeticcio (1981)

3. Terra che calpesto e i miei piedi come fattore di verità n. xx (2014)

 PS. Non so, è come se fossimo troppo vecchi per queste cose. Ne abbiamo viste troppe. Non ci fidiamo. Ogni volta che lo abbiamo fatto è stato un macello o una fregatura. Ci fidiamo solo della piccola comunità, del branco. E poi caschiamo in tutte le trappole che la sua sicurezza ci fa credere di poter ignorare e che la sua cecità non ci fa nemmeno vedere. Siamo un popolo terminale.
Ci scambiamo solo frasi fatte in una lingua morta. Il dialetto non aiuta, tanto più che sta morendo lui pure. Usiamo una lingua che non ci appartiene: una coltre di stereotipi di cui rivestirsi e con cui mascherarsi per difenderci contro il vuoto (di comprensione, di esperienza, di emozioni, di vita). Io fatico a dire noi. Parlo solo per me. A dire noi è la lingua. Il noi è lei. Ma se lei è morta, siamo morti anche noi.

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