07/04/15

Da Milano a Cantù. Il complesso di Galliano


 Le immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie, non solo i binari morti, ma il prolungamento nel territorio circostante, specie nelle piccole città e nei paesini; i margini dove la vegetazione cresce rigogliosa, tropicale, fino a ricoprire tutto: palizzate, recinzioni, terrapieni e ogni fazzoletto di terreno vago; i vagoni e le motrici parcheggiati su qualche binario e lasciati lì a disfarsi lentamente, sbriciolati dal tempo e dalla ruggine; le casematte sfondate, senza porte né finestre e solo residui di tetto, pannelli di eternit, tegole a chiazze che ancora resistono sulle travi spezzate delle capriate; i magazzini e i depositi vuoti, abbandonati da decenni, dai serramenti gonfi di umidità, deformati e semidivelti, con quasi tutti i vetri rotti, anche quelli più alti, irraggiungibili, non si sa perché né da chi (o basta il tempo, e così poco, a distruggere anche i vetri?); e poi le pareti di verde, quasi gallerie senza volte, che accompagnano l'uscita dalle stazioni, finché la città e la campagna si aprono, e, con essi, il cielo.
E poi, più avanti, altri casermoni, magazzini, baracche, casotti, fabbricati senza destinazione, hangar, laboratori e ripostigli scavati nelle massicciate, nelle murate sormontate, a volte, da strade o camminamenti, mentre di nuovo il binario si infossa in canali fiancheggiati da muraglie di verde selvaggio, di piante plebee, come robinie, sambuchi, canne, ailanti, e erbe, cespugli e arbusti giganti cresciuti fuori controllo, e, dietro, altre fabbriche vuote, sempre più fitte, immense, con i pavimenti sconnessi, ricoperti ancora di fanghiglia oleosa, e guanti da lavoro, attrezzi rotti, chiodi, minutaglia metallica, sventrate, dalle finestre scardinate coi vetri infranti, le persiane marce, sbilenche, cantieri interrotti, come un'apoteosi dell'abbandono, una profezia di quando avremo levato le tende, e cimiteri di case cadenti, accanto a cimiteri veri e propri, tutti deserti, e, più vicino alle stazioni di provincia, dentro recinti metallici, azzurri, piccole centrali elettriche, con trasformatori di varie fogge e misure e colori, e subito dopo, accanto, sotto, villette, quartieri di caseggiati bassi e uniformi, dai colori sbiaditi, orti ordinatissimi, ricamati quasi, con capanni di legno e lamiera, e qualche rara villa settecentesca con il suo parco circondato da alti muri quasi sempre ben tenuto, secolare, come quelle dove al liceo ci portavano a fare gli esercizi spirituali, dalla più bella delle quali, poco sopra Monza, fummo espulsi un anno e non più accettati nei successivi, e palazzine, palazzine addossate le une alle altre, a respirarsi addosso, come per scaldarsi, scacciare la paura, e solo dopo mezz'ora di viaggio qualche raro boschetto, o un vero prato, non un terreno vago o un ritaglio in attesa di occupazione, qualche roggia dalle sponde non ripulite, e roccoli o macchie, finché il terreno si ingobbisce in collinette dal verde mai incontaminato, che si dispongono in quinte velate dalla guazza del mattino o emergono da brume più dense, i volumi smaterializzati in colori e ombre nei quali del corpo non rimane che un'eco, e che però lasciano che lo sguardo vi scivoli sopra e poi si allarghi, sempre più verso la Brianza e il confine, più lontano, su specchi d'acqua, laghi, paradisi di varia forma e metratura, case laccate, inamidate, strade spaziose, con rari pedoni distribuiti con l'eleganza dell'arredo urbano, nessun odore, qualche profumo, delicato, appena percepibile, ma solo se ci si fa caso, alberi usciti da un quaderno di geometria e che forse farebbero bene a tornarci, eppure rilassanti, come una tisana, lenitivi, depurativi, senza un rametto fuori posto, di quelli che il passeggiatore strappa volentieri, se secchi, per sminuzzarli pian piano mentre cammina, o una foglia da sfarinare, meglio se di carpino, bianco o nero non importa, lasciando cadere le briciole a tracciare una scia sottile, lo stigma del passaggio, un'invisibile ferita nel paesaggio...


Ma questo dopo. Prima si può scendere e inoltrarsi tra le colline, seguendo strade e stradine che si assomigliano, in cui è facile perdersi dentro le ondulazioni del territorio, tra boscaglie e avvallamenti che limitano la vista e rendono incerta, ansiosa, la direzione, paesi senza capo né coda, cresciuti per germinazioni spontanee finché una parete scoscesa o una forra le ha interrotte, per riprendere altrove, allo stesso modo scriteriato, giusto per continuare dove già si stava procedendo, e poi girare attorno agli ostacoli, chilometri per superare distanze di cento metri, dislivelli di cinquanta, e ogni tanto, a punteggiare quegli agglomerati di una parvenza di centro, qualche slargo, o piazza, con attorno un bar e quattro negozi, uno o due sempre chiusi, o in svendita, finché si vede il cartello di Cantù e l'indicazione del complesso di Galliano, lì, lì, a due passi, ma che non arriva mai, e che, nonostante sia isolato, in cima a quella che in passato era una collinetta, si vede solo quando ci si è davanti, la basilica con il battistero accanto, chiari, quasi bianchi, in fondo a un prato verde, ampio, circondato da un'inferriata. E quando arrivo non c'è nessuno, ma prima di raggiungere l'ingresso la costeggio, guardando verso la valle dove una volta c'era il borgo che alla pieve faceva riferimento, con i boschi, i coltivi sempre più vasti che gli erano strappati, a fatica, nel tempo, e ora case su case gettate lì a caso, tra strade storte, un campanile da qualche parte, un ospedale dall'altra, e anche dopo, pagato il biglietto, sosto davanti al portale, indisturbato, quasi indeciso, invece di precipitarmi verso gli affreschi millenari per cui sono venuto.

La pieve, in origine luogo di potere spirituale e temporale, venne poi messa ai margini e sostituita da altri poteri, quindi lasciata lentamente decadere, con profanazione tardiva, fuori tempo massimo, a stalla, granaio e dormitorio, e infine abbandonata alla rovina del tempo. Il recupero le ha restituito una nuova sacralità, laica stavolta, quel residuo di sacralità che conferiscono i secoli e la bellezza, e per questo è stata di nuovo recintata, non più a difesa dai nemici e a separazione dal profano, ma come ciò che viene messo in cornice e si può ammirare da fuori, e insieme, forse, per sottolineare comunque una distanza che può essere ridotta, ma mai più colmata. Nonostante sappia di essere destinato a fallire, qualcuno prova a varcare la soglia e a ripristinare la continuità interrotta, irreversibile; i più, invece, vagano attorno, a vuoto: la sopravvivenza è memoria solo di se stessa, il monumento è un memento intercambiabile, e vive solo a tratti, balugina per un attimo e subito si perde in uno spazio informe, estraneo, non riconosciuto e che non riconosce. I pellegrini, come me, non sanno più quale sia davvero la meta e lo scopo del pellegrinaggio: vanno, sospinti da un'inerzia fragile, che pure spesso è l'unica forza che c'è. Arrivati ai piedi del pendio, saliti un po' ansanti verso l'ingresso che magari trovano sbarrato,  sono sfiorati però, a volte, come da un confusa reminiscenza, che il recinto preservi anche un'altra dimensione, e che l'accessibilità limitata non sia che il risvolto, o il simbolo, di una differenza dallo spazio e dal tempo comune, a cui però manca il nome. L'accesso al divino è ostruito, la disponibilità del trascendente oscurata, sottratta, è qualcosa che deve essere raggiunto e conquistato prima di una  scadenza avvertita come sempre imminente, e insieme già avvenuta, che la rovina stessa e gli affreschi scrostati segnalano e incarnano.
Quando mi decido a entrare, do solo occhiate svagate, fuori fuoco, in alto verso le pareti chiazzate di colore, le figure sbiadite, i tratti forti, sagomati, con scene, per lo spettatore sprovveduto, quasi indecifrabili, storie che evocano qualcosa di indefinito, episodi che sembra di riconoscere ma restano perlopiù incerti, pure ipotesi, che lasciano brevi scie di delusione, un fondo di amarezza, quindi salgo verso il presbiterio, gli occhi rivolti al catino dell'abside, alla mandorla col Salvatore sfigurato, e, sotto, al piccolo ciclo di San Vincenzo, a cui la basilica è intitolata, in particolare alla bellissima scena del martirio, con il santo gli aguzzini e gli astanti, familiari o spettatori, come librati per aria, sopra le case e i palazzi circostanti, le merlature di mura invisibili, congelati in gesti intensi, dolorosi,  poi scendo costeggiando l'ambone e ancora, più sotto, verso la piccola cripta dalle volte irregolari, con l'arca trasparente che contiene le spoglie di un santo con un bel teschio tondo, liscio, come tornito, le orbite sigillate (mi pare, a meno che sigillate a tutto non siano le mie), in cui mi specchio un po', prima di risalire nella navata di sinistra, e andare verso quella che sarebbe la navata centrale se la destra non fosse sparita, a guardare ancora in alto, alle pareti, e  camminare due, tre volte lungo il perimetro, accosto ai muri, lentamente, a testa bassa, alzandola un attimo ogni tanto, quasi per dovere, finché mi lascio sedere su un banco, stanco, e penso a ciò che ho appena visto, ma non ricordo niente.


Allora, senza tornare a guardare, esco e mi dirigo verso il battistero. Oltre la soglia c'è un ampio locale dalle pareti a semicerchio, spoglie, sormontato da un tamburo ottagonale in cui si aprono quattro bifore chiuso da una cupola bianchissima, sfolgorante. Imbocco una scala scavata all'interno del muro e salgo piano, quasi a fatica, i gradini irregolari, carezzando la pietra ruvida delle pareti come a sostenermi. Arrivato al matroneo guardo ancora il soffitto abbagliante della cupola, e poi giù, nel vuoto, verso il cerchio del fonte battesimale, esso pure vuoto, il cui bordo perfettamente disegnato sembra appiattirsi sul pavimento a lastre grigie diseguali, e come sempre quando mi sporgo dalle altezze sento premere in proporzione la forza di gravità, l'attrazione del suolo, il respiro che manca, e mi viene da piangere, e mi siedo per terra, la schiena contro la balaustra, davanti a una finestrella da cui si scorge solo il cielo, e non lo faccio.



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