12/12/17

Animale (Il viaggiatore)



Guardo quest’uomo che il caso mi ha messo di fronte sul treno che mi porta a Firenze, ne osservo il volto e i vestiti, poi passo ai tre braccialetti d’oro al polso destro e alla mano che tiene le pagine di un giornale sportivo spalancato sul tavolino, sul quale vedo ripiegato un altro giornale sportivo, un volume seminascosto di cui un po’ frustrato non riconosco né il titolo né la collana, un pacchetto di Lucky Strike e un telefono cellulare, e penso: “Quest’uomo va a Roma; quest’uomo è un romano”.


Mentre lui continua la sua pignola, sistematica lettura prima di un giornale e poi dell’altro e io quella di un libro che mi entusiasma come da tempo non mi accadeva, quando ogni tanto alzo gli occhi o prendo una pausa per accendere una sigaretta o vengo interrotto dal suono di un cellulare che fa sobbalzare anche lui inducendolo ogni volta a controllare che non sia il suo (e ogni volta non lo è, così che alla lunga la frustrazione lo costringe, non prima di averlo passato in rassegna ben bene centimetro quadrato per centimetro quadrato, a usarlo per chiamare qualcuno che – ovviamente: mi vien da pensare – non risponde, mentre prima o poi a tutti gli altri cellulari, uno per ogni tavolino che posso raggiungere con lo sguardo, più numerosi altri che risuonano in tutta la carrozza, – in particolare quello di un signore cieco seduto una fila più avanti che risponde sempre prontamente con una voce squillante, come a compensare alzando il tono l’impossibilità di vedere: ma di vedere chi, l’interlocutore?, quasi che gli altri il loro lo avessero lì davanti –, si avvia una comunicazione che riesco ad ignorare senza sforzi, con l’eccezione, per un po’, di quella di una signora accomodata nella fila alla mia destra intenta a studiare, con una matita in mano pronta a sottolineare e a prendere appunti, un libro intitolato La scrittura e l’anima, che tratta però non di letteratura o di religione ma, più correttamente, di grafologia, perché a un certo momento la signora usa, lasciandomi esterrefatto, l’espressione «è mancato ieri», un vecchio zio, zio Carlo, obbligandola di conseguenza a una frettolosa partenza per quella che a questo punto non posso esimermi dal chiamare la città eterna); poco a poco immagazzino i suoi tratti somatici, che tutti, infatti, mi sembrano confermare la mia impressione immediata che quest’uomo è un romano, non può che essere un romano, un vero romano, ma senza spingermi ad andare oltre o a cercarne la motivazione: io sono preso dal romanzo che sto leggendo, il treno scivola senza scosse con un bisbiglio monotono che fa di tutto per farsi dimenticare, di modo che la registrazione avviene progressivamente, un tratto per volta e come da sola.
Da sola si è formata la certezza di trovarmi di fronte a un romano, nonché, decisiva, la frase: “quest’uomo è un romano”, senza che essa avesse, né abbia tuttora altre implicazioni. Una pura constatazione, se ce ne sono. Mentre proseguo nella lettura, l’unica cosa che percepisco con continuità del romano è il respiro, regolare ma, nel silenzio che non può essere tale di un treno comunque in corsa e pieno di gente discreta ma viva, rumoroso. Registro anche il respiro, che pian piano si trasforma in un ritmo non voluto che si accorda con perfida naturalezza alla prosa del mio romanzo, alla sua sintassi molto complessa, persino confusa a prima vista, ma che si dipana non appena ci si affida, come ho avuto modo di verificare leggendone ieri alcune pagine ai miei studenti, alla scansione della voce, e quindi al respiro.
Anche il respiro del romano ha un ritmo tutto suo, particolarissimo anche se uniforme, al quale tuttavia quello del romanzo, o della mia lettura, sembra adattarsi senza fatica, accompagnandolo più che soggiacendovi. Così non ne sono disturbato e continuo a leggere più di un’ora, finché mi vien voglia di prendere un caffè.
Al ritorno dal barettino, nel corridoio di passaggio tra una carrozza e l’altra, davanti alla toilette, incontro un poeta che non vedevo da anni. Nonostante i miei capelli grigi e i suoi lineamenti più gonfi ci riconosciamo subito, ci salutiamo affettuosamente, ci scambiamo fulminee informazioni, generiche e sincopate, sulle rispettive esistenze e attività, specie lui, dietro mie sollecitazioni derivate anche dal rimorso di non aver risposto all’invio di due dei suoi ultimi libri, e promesse di sentirci al più presto, meglio se dopo Pasqua, perché ora ha molti impegni, dice lui (quando di conseguenza sarà facile che entrambi avremo dimenticato questo impegno, penso io, anche se ora che l’ho scritto è difficile che almeno io me ne dimentichi per davvero), scusandosi di dovermi lasciare perché fra poco deve scendere e sua moglie a questo punto magari starà pensando, ansiosa com’è, che si sia perso. Eh sì, i treni sono labirintici, confermo, prima di dirigermi verso il mio posto, ansioso anch’io di riprendere la lettura.
Il mio vicino nel frattempo è passato al volume, che ora riconosco come una raccolta di fumetti, sulla cui copertina nera patinata riesco finalmente a decifrare, se non le figure colorate, almeno il titolo, scritto in caratteri gotici: ElfQuest, che tuttavia non mi fornisce ulteriori informazioni sul suo contenuto, e quindi sul lettore, a parte un sospetto di magia e avventura, mondi incantati, natura selvaggia, elfi, fate, bellezze capziose e eroici cavalieri di vaga ascendenza celtica. Fantasy insomma. Paccottiglia. Mitologicume. (Sono uno stronzo.)


Ho da poco ripreso la mia lettura che il treno si ferma a Bologna. Cambiano molti passeggeri ma ovviamente il mio dirimpettaio, essendo romano e quindi diretto a Roma, resta al suo posto, mentre quello accanto, finora rimasto vuoto, viene occupato da un giovane dai capelli corti ma, come credo si dica, scolpiti col gel, sia pure in forma per niente vistosa. Ha una bella faccia, intelligente, mi sembra, a meno che la mia impressione non sia indotta dalla grossa cartella portadisegni che ha appoggiato contro la sua poltrona sul pavimento del corridoio. Ma allo stesso modo forse, mi vien da pensare, è da ciò che narra il romanzo che sto leggendo, dall’importanza che Roma riveste per il narratore, per la sua vita e per la sua possibilità stessa, a suo dire, di pensare e di narrare, più che dal fatto che questo treno sia diretto a Roma sommato a qualche stereotipo fisiognomico, culturale e sociale, che mi è venuta la convinzione che l’uomo che mi sta di fronte è un romano.
Sì, può anche essere, mi dico come a tagliar corto un filo che mi sembra meno interessante da seguire, o più perturbante, del romanzo da cui sarebbe scaturito. Ne riprendo dunque la lettura accompagnato dal respiro del romano che però, chissà perché, quasi subito mi sembra di percepire come ancor più rumoroso. È lo stesso di prima, ne sono certo, eppure adesso lo sento in maniera distinta e lo sento come veramente rumoroso, pesante, animale.
Nel momento in cui lo avverto, avverto anche la mia mente che cerca una parola per definirlo, e come prima, senza che lo volessi, aveva definito lui romano, ora definisce il suo respiro animale. E tutto in lui, ora, mi sembra animale, così come, prima, tutto mi era sembrato romano. Non un romano di oggi, mi dico adesso che dal secondo aggettivo sono costretto a pensarci con una urgenza che prima il riferimento al romanzo non aveva suscitato: piuttosto un romano antico, ma un romano antico come sarebbe oggi. Guardando meglio il suo viso, infatti, mi accorgo che è esattamente quello di molte statue del periodo imperiale: i capelli sono corti e a ciocche ondulate, alta la loro attaccatura alla fronte che due rientranze ai lati rendono più spaziosa, carnose le labbra e leggermente bovini gli occhi, verdi su uno sfondo giallo paglierino. Tutti elementi che, se prima mi erano parsi romani, i tratti di un antico romano oggi e non di un odierno, cinematografico borgataro – nonostante gli scarponcini nuovi, la camicia a quadri, il cellulare e soprattutto i braccialetti d’oro sul polso forte, giuntura esatta a un corpo massiccio ma non grasso, un corpo massiccio e forte che necessita di giunture solide –, e neanche di un fascista – come mi porterebbe a supporre la costellazione giornali sportivi \ tifoseria romana \ percentuale di fascisti a Roma \ fumetto fantasy (vergognandomi immediatamente della mia stupidità e di un criptorazzismo da cui mi sono sempre illuso di andare esente) –, ora mi fanno pensare, anzi mi rendono sicuro, di essere di fronte a nient’altro che a un animale. E non lo penso in senso dispregiativo (mi accorgo con sollievo), bensì come una nuova constatazione di fatto, e in quanto tale più positiva che neutra, perché soggiacente c’è la sua accettazione, e nessun rifiuto e nessuna sfumatura critica più o meno mascherata; quasi una forma di rispetto invece.
La consolazione suscitata dall’affiorare di quest’ultima parola sarebbe completa se in essa non si insinuassero, quasi immediatamente, tutte le altre che hanno messo in moto il processo (ahi ahi!) che mi ha portato a essa e che ora mi sfila davanti polverizzandola come una cortina inconsistente quanto gratificante, e anzi: la parola, l’aggettivo animale e, alle sue spalle, che stava prima ma ora si unisce a essa, tanto da farmi pensare a una parola sola, il sostantivo uomo. Che adesso mi turba, così vicino a quell’altra, come una prossimità, una congiunzione teratologica. Una congiunzione alla quale l’aggettivo sostantivato romano, piuttosto che da trait d’union, fa da vertice, come in un triangolo osceno, un mostro a tre teste alla cui origine ci sono, solo genitore, solo io.


L’una e l’altra parola, e la terza tra di loro, non sono niente prese a sé, o anche tutto se si preferisce (o molto, quantomeno), ciascuna con la sua storia e il suo carico di senso e di effetti, ma ora, qui, loro due assieme, e entrambe assieme alla terza, e tutte e tre assieme a me e a questa persona di fronte a me, assieme loro e noi, sostantivo e aggettivo e io e lui, e la terza tra di noi, sono, siamo, teratologia allo stato puro. Che, ora che io scrivo e lui si è addormentato, si impone e trova la sua conferma definitiva, la sua validazione indiscutibile, senza altra possibile discussione o giustificazione o scongiuro. Il suo punto fermo.

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