16/12/17

Daniele Del Giudice | Lo stadio di Wimbledon (1983) - Atlante occidentale (1985)




Lo stadio di Wimbledon (07-08-1983)
Uomo dei nodi, che si prodigava a intrecciare e a sciogliere; amico e consigliere non solo letterario di scrittori, nei quali ha disseminato impronte in molti casi di spessore inversamente proporzionale alla pubblica percettibilità; lettore inesauribile prima ancora che professionale, alla costante ricerca di novità e di capolavori misconosciuti; morto per suicidio, scelta sempre fascinosa per gli altri, senza lasciare quell’opera che molti si aspettavano da lui, e forse anche per questo aureolato presso i sopravvissuti, come capita, di una sempre crescente fosforescenza numinosa, a Roberto Bazlen non mancava nulla per diventare un ideale soggetto romanzesco. Gli mancava solo il romanzo. E così quando Einaudi ha pubblicato Lo stadio di Wimbledon del trentaquattrenne Daniele Del Giudice, che ha poi meritatamente vinto il Premio Viareggio per l’opera prima di narrativa, è sembrato che un’inspiegabile lacuna fosse finalmente colmata.
Ovvio quindi che si siano subito occupati in molti del libro e che non siano mancate rievocazioni e testimonianze su Bazlen e altri personaggi, attivi o appena nominati, nel romanzo, come Gerti Ljuba Montale Svevo o Giotti, di suggestione si troppo prevedibile per il cultore delle patrie lettere. Non so tuttavia quanto alcune di queste testimonianze abbiano giovato al romanzo di Del Giudice, perché non è sui quei personaggi che il libro, a dispetto di alcune apparenze, è principalmente incentrato, e tanto meno è per essi che acquista in interesse e rilevanza: evidenza che si impone molto presto al rammaricato amante della biografia e dell’aneddoto, ma con felice sollievo al semplice lettore  che viene scoprendo un nuovo autore di sicure qualità (è bene dirlo subito, derogando alle solite regole cautelative, e un po’ pavide, che suggeriscono di non sbilanciarsi troppo con le opere prime).
Lo stadio di Wimbledon non è un libro su Bazlen dunque. Questo non implica però che Bazlen sia solo un pretesto: è la mediazione, o la deviazione, indispensabile al narratore per raggiungere ciò che gli preme e per trovare l’accesso alla sua formulazione. Soltanto in seguito a ciò Bazlen potrà non importare più (“Non sono mai stato così vicino alla risposta, e così indifferente alla domanda”) ed essere infine dimenticato come un problema che, quando “è vero, ed è risolto, può sembrare non ci sia mai stato”. Anche se, allo stesso modo del pullover che Ljuba regala al protagonista, qualche resto sussisterà comunque, e sarà importante: così, al di là dei dati biografici, la complessità della figura di Bazlen e il profilo dei vari interlocutori emergono ugualmente dalla narrazione, in modo insieme accurato e evocativo.
La trama del romanzo è costituita dal resoconto dei viaggi, a Trieste e nel sobborgo londinese di Wimbledon, che il narratore intraprende nel desiderio di chiarire le ragioni che hanno impedito a Bazlen di scrivere, ma che sono le ragioni che spingono a scrivere lui, e la ricerca del “punto, in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere”, ad interessargli veramente. Egli sa che una vita come opera non compensa la mancanza di opera, o almeno non può valerne da giustificazione; né d’altra parte gli sembra accettabile un’idea dell’opera come sottrazione di vita. Sa anche che “scrivere non è importante, però non si può fare altro”, perché il silenzio non permette “la falsità, o almeno la probabilità, cioè la vita”.
Ed è forse in questa disponibilità verso ciò che è virtuale, o meglio in “un’intermittenza tra la probabilità e l’improbabilità”, che il punto di intersezione consiste, in un atteggiamento che comporta un “sentimento di appartenenza a ciò che è accaduto, o può accadere” e il “piacere di essere nel tempo e non contro il tempo, di farcela rischiando tra le immagini, rischiando anche la propria, lasciando che diventi una proprietà comune, modificata, viva...”.
Rischio che il protagonista difatti assume, nonostante sembri preferire a volte cancellarsi per ridursi a puro sguardo o a reticente interlocutore. Il realtà la sua esposizione si effettua attraverso la proiezione nelle immagini e nelle cose, e in una forma di distacco che, per evitare riflessioni psicologiche o esistenziali, prende meno la forma dell’ironia, se non per ciò che è taciuto, che dell’oggettivazione (no: “il viaggio”, ma: “il treno”, il trasporto marittimo”, “le rotte aeree”). Se evita il coinvolgimento diretto e tutto gli preme, ma non troppo; o, quando è costretto a esprimere opinioni, le smorza regolarmente con formule dubitative, ritraendosi di fronte al definitivo, alla sua stessa possibilità, è appunto perché non ignora che l’unico modo di rischiarsi non è sopra le cose e le immagini, ma accanto e insieme ad esse, e perché la probabilità, o la falsità, che è la vita non tollera ciò che è stabile e definito una volta per tutte.
Ed è anche per questo che raramente le varie questioni sono affrontate, o approfondite, in modo diretto, e mai direttamente e con tono conclusivo vengono enunciate le risposte, sebbene indicazioni anche molto articolate in tal senso non manchino. La responsabilità della loro organizzazione viene lasciata, coerentemente con il tenore del libro, a chi legge, indirizzatovi con mano sapiente quanto leggera. Uso di proposito questo aggettivo perché “leggero” e tutto il campo semantico confinante hanno un ruolo fondamentale nel testo e nell’atteggiamento verso la realtà tipico della scrittura di Del Giudice, che rifugge sia da una visione “troppo brillante e intenzionale”, sia dalla frontalità monolitica o aggressiva. Il fatto è che tutto Lo stadio di Wimbledon è costruito secondo un principio che potremmo chiamare di lateralità e una logica sospensiva: spostamenti, incontri, discorsi e descrizioni, si susseguono con un rigore sì interno e visibile, ma come se il fuoco del loro accadere e la necessità delle loro correlazioni fossero sempre un po’ discosti, come se i loro significati più efficaci e irradianti scaturissero da un’altra luce, che tuttavia non potrebbe manifestarsi senza il supporto di quella loro propria. Non si tratta di simboli, ma ancora di virtualità, che il complesso sistema di rispondenze interne al romanzo, sia tematiche che stilistiche, mette in movimento e provoca a stabilire: al pari della Carta di Mercatore, il cui “secondo nome è Rappresentazione”, anche Lo stadio di Wimbledon è “inventato con un calcolo preciso, e con una matematica quasi perfetta”, un calcolo però del quale non è data chiave obbligatoria o una via di interpretazione esplicita.
Non si tratta di simboli, come dicevo, ed anzi la prosa di del Giudice si presenta estremamente pulita e concreta: anche i paragoni si fondono impercettibilmente con l’andamento descrittivo e narrativo, tanto più notevoli quanto meno di originalità clamorosa. E’ la prosa di un occhio che ha come assorbito l’intelletto, senza annientarlo ma rinunciando alle sue sicurezze, e che persegue soltanto la logica della narrazione lasciando che tutto il resto si profili, secondo un’espressione che Del Giudice utilizza in diverso contesto, “nella leggerezza ironica della probabilità”.
Dalla concretezza e dalla coerenza della narrazione emerge così una dimensione teorica che le è insieme interna e esterna, ed è forse proprio in questa capacità, che si manifesta in primo luogo nella coniugazione sintattica di astratto e concreto, una delle caratteristiche più salienti di questo romanzo che, come ipotizza Calvino nella sua bella quarta di copertina, riprende il “romanzo d’iniziazione di un giovane scrittore” e insieme tenta “un nuova approccio alla rappresentazione, al racconto”.



Atlante occidentale (1985)
Vivere nel presente e vivere il presente di rado coincidono; essere contemporanei della propria epoca, come è noto, è sempre stato difficile, specie nei momenti di grande trasformazione: tanto più, dunque, oggi. Oggi infatti la scienza ha fissato in regola la trasformazione senza termine apparente, inducendo nel tempo un’accelerazione tale da modificare, oltre che la sua percezione e cognizione, il suo stesso statuto, del tutto eterogeneo a quello delle epoche passate. È la sua caratteristica principale, la velocità, dei cui benefici godiamo e che tanto ci affascina, a condannare al ritardo i nostri tentativi di adeguamento, ogni volta spiazzandoli, e a renderci estraneo il suo nucleo quanto più siamo invasi dai suoi effetti: non lo sentiamo nostro quanto più siamo suoi, cioè, e l’incapacità di farcene una rappresentazione non solo si traduce nella deficienza a viverlo, ma anzi ci fa arretrare verso concezioni nelle quali appunto la parvenza di sicurezza offertaci è il segnale più evidente della nostra impotenza. Sembra che si sia prodotta una divaricazione insanabile e che si allarga sempre di più tra gli oggetti, i comportamenti e le situazioni ai quali il nostro tempo ci lega, da una parte, e le immagini e i sentimenti che ne abbiamo dall’altra, ed è un triste paradosso che la forse maggior responsabile sia la scienza nel momento stesso in cui sembra avvicinarsi come non mai alle radici della materia e della vita.
Il divario naturalmente non si colma rincorrendo il progresso delle conoscenze scientifiche e dei suoi risvolti tecnologici, quanto trovando un migliore rapporto con il mondo da essi in gran parte determinato. E se la letteratura è quella forma specifica di conoscenza che ha per oggetto la trasformazione nel tempo dei rapporti dell’uomo con il mondo, delle immagini che se ne fa e dei sentimenti ancor più delle conoscenze che ne ha, allora spetta ad essa affrontare questi problemi, facendosi carico anche di quelli che la scienza pone e insieme approfittando delle prospettive che essa apre e delle soluzioni che propone o prefigura.
Sono questi i problemi che affronta, con decisione apri alla lucidità con cui ne definisce i presupposti, Atlante occidentale, secondo romanzo di Daniele Del Giudice, che non solo conferma le ottime qualità già evidenziate nel precedente Lo stadio di Wimbledon, ma ne riprende anche, a dispetto delle cospicue differenze di trama ambientazione e personaggi, i temi di fondo, spostando e allargando la prospettiva fino a chiudere, anche teoricamente, la traiettoria inauguratavi.
L’indagine sul rapporto tra saper essere e saper scrivere, che nel libro d’esordio era condotta secondo preoccupazioni prevalentemente personali che di fatto privilegiavano l’ottica della scrittura e il problema della rappresentazione, viene infatti ripresa in Atlante occidentale dal versante opposto e con ambizioni più generali. Il problema del saper scrivere viene cioè subordinato a quello del saper essere, e anto la ricerca di modelli di rappresentazione quanto l’analisi dei sentimenti e delle relazioni “ degli uomini tra di loro e con gli oggetti confluiscono nella necessità di vivere meglio il proprio tempo. D’altra parte tale confluenza, invece di sminuire l’importanza della scrittura, le conferisce una legittimazione “oggettiva”, valorizzando contemporaneamente anche le procedure e gli oggetti che dalla sua tematizzazione emergono.
In tal modo però ciò che sembrava solo funzionale torna in primo piano, e il libro si rivela in piena luce per quel che di fatto è: la definizione di una poetica attraverso la propria esemplificazione. Ipotesi e insieme verifica insomma, definizione in qualche modo conclusiva prima di passare ad altro: consolidamento delle basi, anzi, appunto per poterlo fare. Lo rivela del resto anche il dialogo finale tra i due protagonisti: “È una giornata di molte novità, per me e per te.” – “Bene.” – “E adesso?” – “Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova.” – “E questa? – “Questa è finita.” – “Finita finita?” – “Finita finita.” – “La scriverà qualcuno?” – “Non lo so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento.” (A proposito di quest’ultima informazione è appena il caso di rivelarne il carattere ironico, dato che importante è invece che qualcuno l’abbia scritta e che il sentimento più che i personaggi lo provino i lettori: il che però non è scontato.)
Anche la scelta dei protagonisti appare funzionale al carattere programmatico e “manualistico” del libro, già indicato peraltro dal titolo (l’atlante è infatti una raccolta di immagini che definiscono degli spazi o, più generalmente, di rappresentazioni di una data disciplina, e il manuale è un compendio di nozioni fondamentali e di istruzioni relative a una data attività, il cui fine non a caso Del Giudice sostiene essere “uno solo, accrescere la felicità del genere umano”). Se infatti la scienza determina le maggiori trasformazioni della vita nel nostro tempo e la letteratura, come si diceva, queste trasformazioni in relazione all’uomo ha per oggetto, protagonisti del libro non potevano che essere uno scienziato (e anzi un rappresentante di quella che oggi è la scienza guida, la fisica atomica) e uno scrittore (per quanto alla fine della carriera e alle prese con il problema di uscirne con felicità: una figura che, sia detto per inciso, fa da contraltare a quella di Bobi Bazlen nel primo libro).
Dell’incontro, dell’amicizia, di discorsi e delle riflessioni di questi due personaggi, e cioè del giovane fisico italiano Pietro Brahe e del vecchio scrittore ebreo-tedesco Ira Epstein, parla principalmente Atlante occidentale, mirando però alla delineazione di una mappa di sentimenti, percezioni e comportamenti che concilii le istanze, generalmente sentite come alternative ma per Del Giudice complementari, da essi incarnate (non solo scienziato/scrittore, ma anche giovane/vecchio; italiano/straniero, anche se di cognome straniero l’uno, e straniero per eccellenza, ebreo, ma che appunto per questo sa trovarsi a casa ovunque, l’altro, e comunque ambedue con salde radici nell’occidente; esperto delle teorie/esperto dei comportamenti concreti, ma ambedue esperti del visibile, sebbene l’uno al di sotto e l’altro al di sopra della soglia normale, con la quale tuttavia ricercano un’integrazione armoniosa; ecc.).
Il romanzo si dispone così contemporaneamente su più piani, ciascuno dei quali rimanda all’altro ma insieme reclama la propria sufficienza e autonomia (la storia, la mappa, la teoria; l’esempio, l’inquadramento, la giustificazione), ma questo, se ne costituisce il fascino e anche la forza, ne segna d’altra parte anche il limite, del quale certamente Del Giudice era consapevole, preferendo tuttavia assumerlo piuttosto che accontentarsi di poco. Ne viene a soffrire infatti quello che dovrebbe essere, in un romanzo, il piano fondamentale, la narrazione che dagli altri resta in più di un’occasione condizionato per eccesso di funzionalizzazione: allora eventi, riflessioni e gli stessi personaggi appaiono schematici e predeterminati, come svuotati dal carico esorbitante loro imposto, e la misura del sentimento, che pure dovrebbe essere essenziale, decade a valletta della geometria intellettuale che tutto deve far quadrare, rivelandone le debolezze. La tentazione dell’armonia rende tutto troppo dolce, leggero, vaporoso; non c’è più traccia di contraddizione, l’idillio regna e il cerchio si chiude: Brahe e Epstein non mancano l’ultimo incontro, nella medesima notte all’uno riesce finalmente l’esperimento e all’altro viene assegnato il premio Nobel e i trenini sul plastico che Epstein sta guardando sono in perfetto orario.



1 commento:

  1. Perfetta nota per consentire a chi non lo ha fatto di avvicinarsi a un grande scrittore.

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