22/06/19

Michel Houellebecq, Serotonina (versione strong)



La Serotonina del titolo dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (trad. it. V. Vega, La nave di Teseo, p. 332) è quella sintetizzata da un farmaco di nuova generazione, il Captorix, che viene prescritto al quarantaseienne Florent-Claude Labroust, il suo protagonista narratore, per permettergli di affrontare una crisi depressiva che l’ha colto da quando ha deciso di sparire da tutto e tutti, in primo luogo dall’ultima giovane fidanzata, la giapponese Yuzu, dopo aver scoperto la sua predilezione per rapporti sessuali di gruppo (i cosiddetti gangbang) e persino con animali, diffusamente descritti a partire da video incautamente lasciati sul suo pc dalla ragazza.
Il Captorix “non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo” ma “trasformando la vita in una serie di formalità […] aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo.” Tutto bene quindi. Se non che uno dei suoi affetti collaterali è che blocca la produzione del testosterone, con conseguente inibizione della vita sessuale, che per Florent è praticamente tutto. A parte, o meglio: assieme all’amore, a cui il romanzo vorrebbe elevare il suo canto. 
Serotonina è la storia del congedo di Florent dalle poche persone che ha amato o di cui è stato amico, come il possidente Aymeric, abitante in un antico maniero in rovina (come la Francia?), nobile difensore dei contadini e allevatori schiacciati dalla UE e dalla globalizzazione, per i quali sacrificherà persino la sua vita, suicidandosi per protesta in una scena di rivolta sfociata in tragedia che ha poco a che fare con i Gilet jaunes, a cui spesso è stata accostata. La non accettazione e la rivolta, di solito non violenta se non nel senso dell’autodistruzione, sono due dei temi fondamentali di Houellebecq.
Florent ricorda i suoi vecchi amori, senza avere il coraggio però di incontrare Camille, quello più grande, in un lungo viaggio verso il proprio “annientamento” attraverso una Francia rurale descritta in modo ambivalente, come quasi tutto nello scrittore francese, tra affetto e disprezzo, nostalgia e condanna (quella Francia che secondo una precedente profezia avrebbe dovuto essere stata già da tempo trasformata in un parco a tema e residenza idilliaca da battaglioni di ricchi cinesi, dopo essere stata colonizzata da meno ricchi, ma pur sempre benestanti inglesi pre-Brexit, e americani e tedeschi e russi). Il tutto infiorettato da massicce dosi di sarcasmo e provocazioni che per molti, sesso escluso, costituiscono la principale attrattiva dei libri del poeta e narratore francese, talvolta a discapito però della tenuta narrativa e artistica.

Facciamo un esempio, forse il più eclatante, della procedura di Houellebecq in questi casi: l’episodio di pedofilia di cui il narratore è testimone. Il problema non è tanto, o solo, l’indugio compiaciuto sull’episodio, quanto il fatto che dal punto di vista narrativo è inutile, e quindi dannoso, oltre che non privo di incongruenze e stereotipi. La vicenda vede infatti come protagonista un personaggio alquanto prevedibile: il classico tedesco maturo, solitario e dal fare sospetto, che però curiosamente si allontana dal suo bungalow nel deserto villaggio turistico di proprietà di Aymeric senza chiuderlo e, peggio ancora, senza mettere nessuna password al proprio pc, come già Yuzu con il suo, nonostante la presenza dei video che documentano i suoi incontri quotidiani con una bambina del posto di dieci anni (ma sviluppata, per la sua età…). Le riprese sono poco chiare, dilettantesche: è la prima cosa che Florent rileva, ciò che non gli impedisce poi di delibarne, con l’orrore (e il brivido) di prammatica che persino lui si concede, e riportarne con accuratezza notarile tutti i dettagli, per il lettore affezionato che certo di meno non si aspetterebbe, interrotto solo dal ritorno improvviso e immotivato del crucco che era partito solo un paio d’ore prima equipaggiato di tutto punto come se avesse avuto in programma di star via tutta la giornata. La sorpresa dà luogo a una scena quasi comica con i due, reciprocamente terrorizzati, che non sanno cosa fare se non evitarsi. Florent in particolare si distingue per vigliaccheria giurando ripetutamente che non lo denuncerà, prima di tornare di corsa a rinchiudersi nel suo bungalow dove, dopo aver assistito alla fuga precipitosa del tedesco, a sera si addormenta senza troppi affanni, per risvegliarsi il giorno dopo “di umore quasi serafico”. Era necessario soffermarsi così a lungo sui video per descrivere l’abiezione di entrambi gli eroi? Nemmeno Florent gode di sconti, ma se lui è questo tipo di uomo, come si può poi prendere sul serio ciò che decreta, più che affermare, a proposito praticamente di tutto? A meno che questa scissione tra comportamento, parole, pensiero e morale non sia il vero oggetto del libro; o un modo possibile di leggerlo.
Sgravato il proprio personaggio della responsabilità diretta della pedofilia, Houellebecq lo può poi rivestire dei panni del moralista che si indigna di quanto ha visto. Che in tutto il resto del libro ne dica di cotte e di crude sulle puttanelle di 16 anni e anche meno, e sui gay e le donne “liberate” non è un problema. L’onore è salvo.
Non meno superfluo è l’indulgere sul dettaglio del filmato di Yuzu (vabbé, ma quella è giapponese…) con svariati animali che sembrano, dalle reazioni, più umani degli uomini. Del resto gli animali lo sono, più umani degli uomini: i cani, ovunque in Houellebecq che ha dedicato loro pagine memorabili; e qui anche le mucche; per tacere delle galline e dei pulcini gettati vivi nel tritatutto negli allevamenti-lager che non solo Camille, ma tutti preferiamo non vedere, e nemmeno sapere che esistono, a riprova della nostra tenera umanità. Che poi ci possa essere qualcosa di realistico e decisivo nelle descrizioni accurate di queste performance erotiche, che importa? Chissenefrega del realismo (pure, rispetto a questo argomento, di quello visionario, dato che Moresco nei Canti del caos a volte va ben oltre). Neanche questa insistenza ha senso narrativo. Così come non ha grande rilievo sociologico quella su supermercati, hotel di varia categoria e ristoranti che sembrano resoconti per Booking o la guida Michelin, o su oggetti con marche e dettagli tecnici presi direttamente dal foglietto illustrativo, tutti con il loro bel nome, cognome, indirizzo e valutazione. Si potrebbero ascrivere tutti a Florent, se non li ritrovassimo anche negli altri libri di Houellebcq.
Quando arriva a passaggi del genere, piuttosto numerosi, non è nemmeno più il rimando alla realtà che uno legge, ma solo l’ulteriore refrain del repertorio houellebecquiano, dall’antieuropeismo, all’ironia sui bobos radical-chic e politicamente corretti, dagli insulti a quegli idioti di ecologisti e di giornali di sinistra al cavallo di battaglia dell’antisessantottismo e del maschilismo con conseguente disprezzo della donna e del genere umano nel suo complesso. Nei libri precedenti gli eccessi erano spesso mitigati o relativizzati dalla pluralità dei personaggi che se ne facevano carico, a volte in contrasto gli uni con gli altri, ciascuno con una sua coerenza; in Serotonina ciò non avviene: se qualche contraddizione c’è, è tutta interna alla voce del narratore, che non si cura affatto della compatibilità delle sue esternazioni, legate a un atteggiamento anarchico in superficie ma reazionario di fondo (che certo in parte tutti noi maschietti abbiamo a volte la debolezza di condividere) e soprattutto al ciclo degli umori, che tuttavia il Captoryx dovrebbe regolare. Ma passi: non è un caso clinico che Houellebecq vuole descrivere (psicanalisti e psichiatri, pure loro, non godono dei suoi migliori favori), ma un personaggio, cioè un essere individualissimo, anche se poi per l’autore magari rappresenta l’idealtipo dello spregevole maschio bianco occidentale in inarrestabile e del tutto meritato declino su cui ribatte con insistenza fin da Estensione del dominio della lotta.



Un discorso simile vale anche per gli altri cliché narrativi di cui il libro non è avaro. Se la nostra società è cosiffatta e in siffatto modo da Houellebecq è stata narrata in tutti gli altri libri, perché ribadirlo una volta di più? Repetita iuvant, è vero; specie per il portafoglio.
Perché è bensì vero che questa sarebbe la vita del mediocre Florent, ma la scelta delle scene da narrare e del modo in cui lo sono è tutta dello scrittore, e tanto la scelta che il modo appunto degli stereotipi in più di un caso sono, a partire dalla scena iniziale delle due ragazze alle prese con le gomme sgonfie della loro auto, con trionfo di culi e tette come nelle commedie degli anni ’70 con Lino Banfi e Alvaro Vitali o con i capolavori dei fratelli Vanzina più di recente, alla cui profondità di analisi sociologica, perlomeno in questi episodi, Serotonina non ha niente da invidiare. Come parodia è un po’ tardi però (anche come parodia della parodia: il postmoderno non è passato invano); ma se lo fosse, lo sarebbe ovunque, e non qui sì e là no; e viceversa se non lo è, perché questo giustificherebbe ancor meno l’accumulo dei cliché senza segnali direzionali. La decifrazione dell’ambiguità di cui secondo molti Houellebecq è maestro, non può essere rovesciata tutta sul conto del lettore, mentre l’autore se ne starebbe dietro la nuvoletta a ridere tra sé. Ci sono strategie narrative varie e sfumate, in merito.

Esplicito e categorico com’è, non stupisce che H. venda, e quindi piaccia o incuriosisca tanto. Vuol dire che la manfrina della provocazione funziona ancora e che la trasgressione è sempre la benvenuta, cioè è normalizzata.
A rafforzare l’attrazione del lettore contribuisce poi che i protagonisti, con trasposizioni appena laterali e velate, condividano caratteri riconducibili alla figura pubblica e forse privata dell’autore, che ha espresso a più riprese idee simili alle loro in innumerevoli interviste e nelle poesie. Il gioco con il proprio personaggio si costruisce e rafforza in questo modo, lasciando sempre, ovviamente, l’uscita di sicurezza dell’invenzione, della finzione con la sua logica ecc. (così ai personaggi si può far dire impunemente di tutto), ma insieme ammiccando e denegando furbescamente, in modo anche divertente in certi casi, con il credito addizionale della tenerezza che non si nega neppure ai cinici più inflessibili (perché anche loro, e anzi loro più di tutti sono sensibili, disperati, soli, e compagnia bella…). Vedi in Serotonina a pag. 168 il discorsetto sull’amore che salva: Florent ci crederà pure, come Houellebecq di sicuro, ma di parlarne in modo diverso da quello dei rotocalchi non sembra capace. Non sembra a me, quanto meno. Magari è solo un mio punitivo difetto, una certa aridità congenita (non diversa da quella di Florent, verso il quale mi è tuttavia difficile provare la minima empatia), a rendermi poco sensibile alle storie d’amore, anche se copiosamente annaffiate di sesso. A quelle narrate, intendo. Persino a quelle narrate benissimo, ammesso che sia possibile, come in molti mi assicurano. Non mi è parso questo il caso però.

Il meccanismo non funziona solo con il lettore ingenuo comunque. Leggendo il corposissimo Cahier che L'Herne gli ha consacrato, non ho potuto fare a meno di notare, senza sorpresa peraltro, quanti tra i collaboratori, scrittori, artisti, giornalisti, critici, musicisti ecc., non si siano fatti scrupolo di distribuire patenti di cretino a destra e a manca a chiunque non la pensava come loro. È evidentemente la radicalità di Houellebecq a innescare questi effetti: chi legge ne è contagiato e, pur pensando di esercitare il proprio giudizio anche sullo scrittore da un luogo esterno e superiore, tende ad assomigliare ai suoi personaggi, e talvolta a diventare uno di essi. Il che ci dovrebbe dire qualcosa sul loro fondo di verità. È questo che li rende insopportabili. Finiamo per odiarci.

L’andamento della narrazione è quello di un resoconto piatto, senza sussulti, se non qualche rigurgito di umorismo non di primissima qualità (colpa di Florent) o i soliti sfoghi e le non eccelse massime ciniche (idem). Il resto è grigio e nel complesso squallido, come l’esistenza che narra (escluso il periodo di vero amore con Camille, ovvio). Da questo punto di vista l’adeguamento espressione-contenuto su cui insiste la vulgata estetica è perfetta. La banalità del discorso e del protagonista favoriscono però il distanziamento del lettore. È meglio non dirlo a Houellebecq, ma in questo, certo senza sospettarlo, è brechtiano. Chiunque può trovare motivi di somiglianza, cose che ha provato o vissuto, ma c’è sempre una patina, sottile, quasi invisibile, ma abbastanza ributtante che si interpone a impedire l’identificazione. Nella descrizione di questi momenti, della solitudine nella camera d’albergo parigina o nelle varie case del viaggio in provincia il libro è efficace. Il depresso medio ha molto in cui riconoscersi, tranne l’impulso, e tantomeno la voglia, di farlo. Il grande depresso meno ancora: non ne ha la forza, oltre che il motivo. Già gli basta il suo. Immagino che saranno in molti a capirmi.

 “…e adesso eccomi lì, scrive Florent, uomo occidentale nella sua età di mezzo, al riparo dal bisogno per qualche anno, senza parenti né amici, privo sia di progetti personali sia di veri interessi, … privo in fondo sia di motivi per vivere sia di motivi per morire”, in preda alla stessa “anestesia emotiva e amorosa” che Nelly Kaprièlian, (Houellebecq, L’Herne, 2017,  p. 130) rileva in Jed dopo la partenza di Olga, in La carta e il territorio e si può ritrovare in tutti gli altri personaggi di Houellebecq dopo la fine dei loro amori. È sempre la donna che li lascia (o muore); però sono sempre loro (o quasi) a provocare l’abbandono. In genere per seguire l’impulso erotico momentaneo, che per i maschi, secondo l’esperto autore francese, è irresistibile quanto dannoso per i sentimenti, da cui pure si vorrebbe separato. Prima o poi non resistono a non fare i cretini con altre donne e la frittata è fatta. Vedi appunto la fine dell’amore con Camille, nonostante questa gli abbia garantito per 5 anni (un record!) una totale consonanza coronata da sesso frequente generoso e gioioso, cioè una vera e compiuta felicità, che sarà poi rimpianta per tutta la vita. L’amore in Houellebecq ha un solo colpo in canna, che basta a distruggere però. Ciò che resta è dolore. L’abbandono, la caduta nella derelizione e la perdita del desiderio, la cui descrizione è occasione di pagine anche molto riuscite.

Il Captorix toglie il desiderio, che, secondo una tradizione filosofica e sapienziale che culmina in Schopenhauer (vedi In presenza di Schopenhauer, trad. it V. Vega, La nave di Teseo, 2017), è ciò che fa soffrire, perché deriva da una mancanza; ma che è anche ciò che, soddisfatto, dà il piacere, la felicità, un senso al vivere. Quindi, se soddisfatto non può essere, per qualsiasi motivo, come l’invecchiamento precoce avvertito da Florent e la depressione, meglio metterlo a tacere (ci sarebbe anche la religione, il misticismo, ma non funziona con lui, per il momento); tuttavia una volta ridotto al silenzio, si sfalda pian piano tutto il resto. E nonostante il Captorix come principale effetto positivo abbia quello di togliere la voglia di suicidarsi, è proprio il suicidio l’unica soluzione a lungo andare. La prima voglia che compare dopo la scomparsa di tutte le voglie è quella di morire.

La disillusione che ne deriva prende le sembianze della lucidità, del definitivo disincanto. Si tocca il fondo delle cose. Sembra che il meccanismo insensato del mondo sia finalmente visibile in tutta evidenza, nella sua verità che d’ora in poi illuminerà crudamente ogni cosa e gesto e sentimento e valore. Il vecchio buon nichilismo. È a partire da questo che Houellebecq e i suoi personaggi possono trinciare giudizi perentori a tutto campo, come se davvero avessero analizzato e capito tutto. E in un certo senso così è, se ci si attiene al rigoroso quanto ristretto riduzionismo determinista che sta alla loro base, nonché a quella del pensiero dell’autore. Il quale funziona ed è convincente finché si resta al suo interno, cioè vi si aderisce a livello di finzione narrativa e conseguente patto autore-lettore, ma può con la stessa chiarezza apparire del tutto infondato e irritante non appena si fa un passo al di fuori e si adottano altri parametri e categorie. È per questo che l’effetto, la ricezione e la conseguente valutazione dei suoi libri danno luogo a risposte così polarizzate e radicali. Così facendo però, è la modalità stessa, l’intonazione e l’atteggiamento di fondo di quei libri a essere, senza che ce ne si accorga, adottato, cioè a trionfare. Indizio sicuro di una certa forza, minore in Serotonina, o quanto meno della loro capacità di seduzione.

Però attenzione, Houellebecq sa essere davvero ambiguo, e spesso non si riesce a decidere chi sia a parlare, se solo il narratore o anche l’autore, e quindi di confonderli. È una trappola nella quale, pur accorti, si rischia spesso di cadere, come è capitato a molti. Certe uscite sono, specie in Serotonina, davvero troppo banali e stupide per attribuirle a uno dell’intelligenza di Houellebecq. La vera provocazione allora non sarebbe in ciò che i narratori dicono, ma nel far credere che, per il loro tramite, l’autore dica ciò che davvero pensa (ammesso che sia importante questo, e non la logica interna dei romanzi).

Ciò che attrae il lettore, preda, per citare Le particelle elementari, di “uno spiazzamento psicologico, ontologico e sociale”, confuso, sballottato tra l’assenza di senso e la compresenza di tutti i sensi che di conseguenza si elidono e annullano a vicenda, è proprio il suo tono perentorio dei narratori di Houellebecq, la sicurezza ostentata nei giudizi di cui sono disseminati i suoi libri anche in assenza di motivazioni o analisi; è il convincimento inflessibile, che può essere contagioso per chi fatica ad averne uno suo e a tenerlo saldo per la minima cosa, incerto tra un’opinione e quelle opposte o alternative, senza coerenza, e spesso senza nemmeno che questa assenza venga percepita o costituisca un problema, guidato solo dall’interesse e dall’umore momentanei, che verranno negati il momento successivo, all’insorgere di altri micro-interessi e ondate di umore. È anche ciò che lo rende sospetto e odioso, peraltro. Si vuole la verità, ma non si accetta che ci venga sbattuta in faccia o venga a contrastare quella che si pensava di possedere. Meglio una verità dopo l’altra dopo l’altra dopo l’altra. Ciascuna indubitabile. E Houllebecq è abilissimo a sciorinarle tutte, ciascuna assolutizzata.

L’origine di questo tono perentorio affonda più spesso nel risentimento però, piuttosto che derivare da una riflessione distaccata, come il cinismo vorrebbe far credere. Del resto Houellebecq, e non solo lui, trova indispensabile il risentimento come motore creativo. In un’intervista a Lydie Salvyre (Herne, p. 264) afferma: “trovo superba la letteratura del risentimento: l’individuo che sa di essere inferiore, che vuol fare pietà, che esibisce le sue piaghe. […] Sono un manicheo congenito”.
Ma, a riprova del suo valore fondativo, si era già espresso in merito nella sua prima opera in assoluto Restare vivi, e nel titolo del contemporaneo libretto dedicato a Lovecaft. Contro il mondo, contro la vita: “Sviluppate in voi un profondo risentimento nei confronti della vita. Questo risentimento è necessario a ogni vera creazione artistica. (…) //E tornate sempre alla fonte, la sofferenza. // Quando susciterete negli altri un misto di pietà spaventata e di disprezzo, saprete di essere sulla buona strada. Potrete cominciare a scrivere” (La vita è rara, Tutte le poesie, vol. I, Bompiani, 2016, trad. F, Ascari e A.M. Lorusso, p. 7)

Ma ora sembra che Houellebecq si sia imbolsito. La riserva di rancore si è esaurita, permangono solo sparsi residui dovuti più che altro al mestiere e, dio ce ne scampi, all’abitudine. Come di maniera è lo sguardo sul dettaglio della realtà, di solito molto acuto. La tentazione della saggezza, peraltro non sconosciuta già nelle poesie, lo ha forse addolcito come persona, ma rischia di azzopparlo come narratore. Le massime di cui ogni tanto Florent infioretta il suo discorso, sono perlopiù banalità dolciamare. “È la vita.” (È una citazione: p. 63.)
La strategia del rancore verso la vita forse non vale più. Forse è la vita a non meritare nemmeno quello. Si alza bandiera bianca, si prende una pillola, e si aspetta che il discorso si chiuda da solo.

Più che un rappresentante del maschio occidentale nella sua fase di irreversibile declino, Florent alla fine non è che la ripresa con minimi aggiornamenti di tutta una serie di personaggi otto-novecenteschi che agiscono senza morale e/o vogliono sparire, nella lignée di Bartleby (il classico “Preferisco di no” ovviamente non manca di comparire, a p. 294, quando la “corsa verso l’annientamento” del narratore ha cominciato a precipitare). Solo che, come scrive efficacemente Johan Faerber in Houellebecq: Homais romancier (Séroronine), è “un Bartleby che ha deciso di parlare più di quanto si sarebbe mai pensato; che preferisce non non parlare”, sparando senza ritegno su tutto ciò in cui la sua esperienza e i suoi pensieri si imbattono, ma senza la solita forza, fosse pure quella della disperazione, né la tensione metafisica e la penetrazione sociologica dei suoi predecessori. Florent è (la rappresentazione di) un uomo ridicolo e nullo, come lo sono gran parte dei suoi pensieri, abilmente disposti nella scatola di un romanzo ben impacchettato e leggibile senza sforzo alcuno, perché non fa che ribadire il risaputo. Saranno in molti a divertirsi a leggerlo. Poi potranno dire, compiaciuti della propria lucidità: “proprio così”.
Proprio così.

Dopo la fresca Legion d’onore di cui Houellebecq è stato insignito dallo stesso Macron su cui ha più volte espresso con la consueta liberalità il proprio peculiare apprezzamento, potrebbero conferire allo scrittore l’onorificenza corrispondente i numerosi paesi che hanno beneficiato di benevolenze analoghe (esclusi quelli islamici che stavolta hanno usufruito di un turno di riposo). In Italia il titolo di cavaliere ha una certa tradizione, in merito.






Nessun commento:

Posta un commento