20/03/14

Casa di riposo


 

 22 sett. 2006 17,00-17,40
Ho accompagnato mia moglie a una visita specialistica da un dottore che lavora in una cosiddetta casa di riposo, un gerontocomio cioè. E’ una serie di palazzine molto decorose collegate tra loro in mezzo a un bel parco. Siamo arrivati presto e ci siamo seduti su una panchina per fumare (io) una sigaretta. Un anziano signore a venti metri da noi avanzava tra gli alberi aiutandosi con un carrello alle cui sbarre mediane si appoggiava con le mani, mentre su quelle più alte si abbandonava sorreggendosi con le ascelle quando non ce la faceva più. Ho terminato la sigaretta prima che percorresse metà della strada.
Siamo entrati nell’edificio principale. In un corridoio poco illuminato una signora molto magra, in carrozzella, quando le siamo passati accanto ci ha salutato agitando piano la mano. Ho risposto buonasera invece di buongiorno. In ritardo per giunta.
Infine abbiamo raggiunto il punto in cui il corridoio curva aprendosi in uno slargo dove sono situate le poltroncine per chi aspetta di essere visitato. Davanti, sulla sinistra, avevo un ufficio chiuso; sulla destra, in fondo alla parete, la porta aperta di una sala comune, dentro cui si potevano vedere alcuni degenti e infermiere. Ho aperto il Genji monogatari, di cui avevo già letto buona parte molti anni fa, e mi sono messo a leggere di buona lena. E’ un libro meraviglioso, spesso leggero, sempre poetico, intriso di grazia in ogni pagina; il punto a cui sono arrivato però è piuttosto triste, direi cupo. Lo leggo con adesione totale, senza accorgermi di ciò che avviene attorno. Arriva il dottore e mia moglie lo segue nel suo studio. A un certo punto sento, da dietro l’angolo, la voce tonante di un’infermiera che dice “Lei parla molto bene, ha mai pensato di scrivere le sue memorie?”. Alzo la testa e dopo un po’ vedo spuntare un ometto dalla lunga barba metà bianca e metà nera, la figura fragilissima, che si sposta molto lentamente aiutandosi con un carrello basso, in silenzio, a passettini, con l’aria stremata. L’infermiera invece è un donnone di mezz’età (più giovane di me). Entrano nella sala comune e spariscono dalla mia vista. Subito dopo sento una donna che dice: “Più a sinistra, Berto. Ecco, adesso dritto”. E’ un’infermiera alla cui spalla è appoggiato un uomo robusto, con una piccola borsa a tracolla. Cieco. Lo guardo: è Bertino, nipote della mia balia, che abitava nel cortile di fronte al suo. Ho giocato con lui da bambino.
Ho il ricordo netto di alcuni pomeriggi nei due cortili (il suo molto buio) e di altri in campagna, d’estate, tra i covoni di fieno, in compagnia del marito della mia balia. Era il tempo dell’asilo (delle materne come si dice ora) e delle prime due classi delle elementari. Bertino ci vedeva ancora un po’, ma si sapeva che era condannato a perdere la vista. Io non capivo. Non capivo che certe cose lui non le capisse, che non ci arrivasse, che fosse lento nell’eseguirle. Ma non mi spazientivo, mi pare, continuavo a giocare con lui. Poi sono cresciuto, andavo a trovare la balia meno spesso e lui l’ho visto sempre meno. Credo che l’abbiano mandato in una scuola per ciechi, chissà dove. Molto più tardi ho ripreso a vederlo ogni tanto in giro per il paese, prima con la mamma e poi appoggiato alla spalla di qualche cugino o zia o assistente comunale. Ed ora eccolo qui. Ha un anno più di me e sembra più vecchio di almeno dieci.
Prendo un appunto su uno dei foglietti che tengo sempre nei libri. Due cosucce veloci, come promemoria. Quando alzo la testa vedo un’infermiera sui 35-40 che mi guarda sorridendo e se ne va. Seguo la sua figura di media altezza, dalle spalle larghe, fianchi con un po’ di ciccia, un culone ampio ma non esagerato che si allontana. Sovrappeso di una dozzina di chili perlomeno. Non so come né perché (anche se forse dipende dalle avventure amorose di Genji che non se ne lascia scappare una e a cui tutte, belle e brutte, cedono più che volentieri), all’improvviso mi viene da pensare: “si può scopare con tutti”. Che razza di frase è?, mi chiedo subito. Ci penso. Non c’è disprezzo. Tenerezza, anzi. Meglio: simpatia. Penso a come sarebbe fare l’amore con lei. Gradevole, immagino, forse gioioso. Tranquillo, senza stress, entrambi attenti solo a farci del bene. Bello. Perché no? Chi sono io per fare lo schizzinoso, l’ipercritico? Mica sono bello e splendente come Genji; mica solo gli adoni fanno l’amore. Cosa pretendo? Corpi perfetti e giovani? (E chi pretende qualcosa? Faccio delle ipotesi, seguo delle idee, vado a vedere cosa c’è dentro quello che a volte viene da pensare. Pura accademia.) Non sono male, certo: lo deduco (lo immagino) dagli sguardi di alcune donne che ogni tanto mi guardano come io (credo: perché non mi vedo) guardo altre donne, quasi sempre diverse da quelle che guardano me (a volte anche le stesse, però; ma più di rado). Lo verificherò poco dopo, mentre fumo da solo fuori da un grande negozio di abbigliamento. (Sì, proprio così.) (Ma non pretendo niente. Probabilmente sbaglio.)
Ma adesso sono qui, ancora sulla poltroncina nel corridoio della casa di riposo. Sto prendendo un appunto anche sull’infermiera paciosa. Mentre scrivo ne percepisco la grazia e penso a ciò che ho appena scritto qui, a ciò che avrei forse sviluppato qui o forse no. Quando alzo la testa, due metri davanti a me, su una carrozzella, c’è un uomo molto anziano, dal viso emaciato, che mi fissa con gli occhi e la bocca spalancati. Occhi sbarrati, come di chi ti osserva da un altro mondo, dall’aldilà forse (e non capisce). Per un attimo lo guardo anch’io, ma non riesco a mettere a fuoco quasi nulla, perché subito arriva un’infermiera e lo porta via.
Subito dopo arriva mia moglie e porta via me.



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